Il Sole 24 Ore sta da tempo conducendo una campagna di sensibilizzazione sulla necessità di operare nuove policy per aumentare l’accesso al lavoro, specialmente dei giovani, e per migliorare le politiche attive per i meno giovani che perdono il lavoro. Il giornale non è certo isolato in questa convinzione. Casomai sono diverse le valutazioni sull’intensità del problema e la priorità delle misure da prendere. Si parla di riduzione del cuneo fiscale, di riduzione dell’orario di lavoro per gli anziani a patto che il tempo così liberato sia occupato da nuovi assunti giovani, di percorsi di formazione per accorciare il tempo di disoccupazione e il costo del relativo sussidio, e così via. Ma nello stesso tempo si osservano dei disallineamenti incredibili tra il numero di persone che vanno all’università e la domanda di laureati, tra il numero di laureati in materie scientifiche e la necessità di figure con queste specializzazioni nelle aziende, tra la scarsità di personale qualificato e la disponibilità delle aziende a pagarlo molto di più (Sole).
Questi disallineamenti tra le scelte degli operatori – famiglie, aziende – e le opportunità che potrebbero cogliere discendono anche da una mancanza di visione comune. Un’idea del futuro del lavoro aiuterebbe, per esempio, a convincere le famiglie a investire nell’università dei figli e le aziende a decidere di pagare di più le figure che veramente servono, probabilmente: quell’idea di futuro servirebbe a motivare gli investimenti e i sacrifici che servono in funzione delle opportunità che si vedrebbero a portata di mano. Se famiglie, aziende, amministratori pubblici, avessero in mente una prospettiva comune si muoverebbero in modo da convincere anche gli altri che la direzione è quella giusta.
Come ogni futuro, anche il nostro è il frutto delle azioni che gli umani riescono a compiere. E quelle azioni sono motivate da una sorta di narrazione che mette in relazione le azioni con le loro conseguenze. Quella narrazione può essere una visione consapevole oppure un insieme di convinzioni implicite che magari si fondano su pregiudizi non discussi e irrazionali che prevalgono in una o nell’altra congiuntura: difficile eliminare l’irrazionalità da tutto questo, ovviamente, ma si può aggiungere qualche elemento di razionalità.
Per esempio, la paura dell’intelligenza artificiale e dei robot può essere lasciata vivere come se un inesorabile irrazionale destino dovesse condannare gli umani a essere sostituiti dalle macchine. Oppure si può osservare quello che già oggi succede in alcune realtà avanzate e aggiungere qualche elemento di ragionevolezza, arrivando magari a dire che le macchine sono soltanto il frutto della progettualità umana e dunque possono servire ad aumentare o a diminuire il valore del lavoro umano a seconda dei valori di chi le produce. Ma è soltanto un esempio.
Insomma. Il futuro è un po’ il frutto di una narrazione sul futuro che guida le azioni presenti verso le loro conseguenze. E una visione del futuro può essere basata su pregiudizi oppure discendere da riflessioni intorno ai fatti e ai meccanismi logici che uniscono i fatti come puntini nei quali occorre riconoscere una forma.
Sarebbe importante, per condurre una ricerca sul lavoro del futuro, conoscere le esperienze di chi vuole condividerle allo scopo di migliorare quella visione di cui stiamo parlando. E nei commenti a questo post ci sarebbe lo spazio per farlo. Quei commenti saranno ripresi per essere pubblicati nelle lettere al Sole 24 Ore e per servire alla ricerca sul lavoro del futuro.
Vedi:
«Il lavoro del futuro una realtà già in atto»
How artificial intelligence can deliver real value to companies/
OECD Skills Outlook 2017 Skills and Global Value Chains
US manufacturing decline and the rise of new production innovation paradigms
Is Automation Warping the Labor Market as Dramatically as We Think?
Technology, jobs, and the future of work
Head of IBM Watson Says AI Will Augment Human Beings
In the AI Age, “Being Smart” Will Mean Something Completely Different
Quando si parla di lavoro, l’innovazione (ma è meglio parlare di “proiezione verso il futuro”, espressione che lascia più margine all’incertezza) sta tutta nel “cosa” si fa. È invece importante, quando si parla del lavoro del futuro, lasciare spazio anche alla riflessione su come il percorso lavorativo venga costruito oggi. Si è spesa molta attenzione alla psicologia della Generazione Y e dei Millennials, ma quanti di loro siano stati assorbiti dal mercato del lavoro tradizionale (sia nella sua versione della stabilità che in quella del precariato) non producono alcuna narrazione, appunto, sul “come”, cioè sul processo di costruzione della propria carriera; chi invece abbia fatti propri – più o meno consapevolmente – i principi del Life Design rimane nell’area di uno scotoma. Gli ex giovani della Generazione Y sono cresciuti, i Millennials stanno crescendo, molti di questi lavorano e si costruiscono una carriera al di fuori dei percorsi codificati, tradizionali; tracciano nuovi solchi culturali in un mercato del lavoro che, a sentire le narrazioni mainstream, sembra solo immobile ed esclusivo. Se vuole possiamo parlarne, sarebbe bello.
Ripensare al lavoro senza ripensare alla grammatica economica che ci ha portato fino a qui (il capitalismo) e senza attualizzare al tempo presente le grandissime opportunità e scenari che grazie o a causa delle nuove evoluzioni si creeranno non ha nessuna logica e attuazione.
Ci troviamo di fronte ad un era che deve essere ripensata con occhi nuovi ma allo stesso tempo con una grande coerenza e rispetto per l’epoca appena trascorsa.
Nessun cambiamento potrà essere radicale o scollegato da quello che fino ad ora abbiamo costruito pena la crescita e L esplosione di tensioni che invece di farci progredire ci potrebbero portare ancor più nel baratro.
L uomo è giunto ad una condizione in cui potrà creare sempre più immensa Gioia o immenso dolore a seconda di cosa farà nei prossimi 10 anni.
Dopo le personali esperienze imprenditoriali sia in italia che a San Francisco e all aver avuto la fortuna di diventare un investitore e quindi aver capito e provato personalmente anche L essere dalla parte del Capitale ho lavorato a lungo su questo quesito.
La cosa più importante che ho dovuto tenere presente è che la possibile strategia a differenza di teorie economiche inattuabili non si basi su cambi netti o rivoluzionari.
come insegna la storia infatti se il punto di partenza e quello di arrivo sono troppo lontani difficilmente si attuerà il cambiamento auspicato.
La soluzione è disegnare quindi un ponte valoriale ed economico che possa portare lo status quo al risultato che si ha intenzione di realizzare.
A tal riguardo quindi si deve immaginare una società che si intende perseguire (sostenibile e realizzabile) e una serie di passi per realizzarla che si basi sul Capitalismo ma che lo evolva a beneficio di un nuovo equilibrio che abbia come obiettivo un incremento delle potenzialità umane.
La natura in fondo si comporta nello stesso modo e L uomo non è altro che un elemento di essa ed ad essa deve ispirarsi.
Sarei lieto Luca di potermi confrontare con te per illustrarti cosa sto cercando di fare per dare il mio contributo su questi temi.
Dal 29 agosto sarò nuovamente in italia.
Grazie,
Daniele Alberti
personalemente hao sempre lavorato nel futuro, anacronisticamente da 35 anni. ovviamente incompreso in che facessi e solo quando gli “altri” iniziavano a capirlo, cambiando. ritengo che l’efficenza orientale (e di molti altri paesi) sia il fattore critico, quale premessa obbligata a spingere l’Italia e altre popolazioni verso l’efficacia di ricercare soluzioni (anche e non solo con nuovi strumenti) con innovativi approcci in servizi e prodotti. la ricaduta occupazionionale, o la creazione / trasformazione di nuove / esistenti imprese pariteticamente, passa dalla curiosità e la visione del trovarle. atterrando su un substrato complesso di conoscenze e competenze, che rispondono e scaturiscono solo da un cortocircuito generazionale, dove i giovani ne hanno visione e presa di conoscenza mentre la classe adulta o anziana ne è lo strumento. mezzi strutturali e finanziari , come non fanno le aziende , ne sono l’humus necessario ma non indispensabile solo in taluni casi. chi ne acquisisce la peculiarità di governo può a accedere al successo di domani, confine del futuro limite di esserne il fattore predominante del mercato. in quest’ottica la presa di posizione e l’atteggiamento non può che passare dal creare presupposti culturali che contaminano il nuovo modo di approcciare al lavoro, sdoganando dogmi e privilegi (veri baluardi). nell’attesa che solo il procedere degli eventi innovativi ne facciano nuovi analfabeti del lavoro. in questo senso ovviamente il consolidare la convinzione che il lavoro non sia per sempre è un dato di fatto, ma tocca sempre quello degli altri. la chiave di violino per comporre il nuovo spartito passa dal costruire un modello che sia la risposta motivata e convincente del costruire il lavoro degli altri in fuzione di un proprio beneficio. consentendo la costruzione di quel rapporto di convenienza reciproca tra le generazioni, il sistema del lavoro con le sue regole, che torni a riscoprire il lavoro stesso come ricerca della qualità di una vita e non mera retribuzione economica per generarla. concretamente basta forse dire che ogni lavoratore dopo i tre o cinque anni del suo rapporto non genere per se e per l’azienda alcuni significativo uteriore vantaggio, per poter essere messo nella condizione di pensare ad un domani innovativo in altro contesto per produrre nuove soluzioni nelle cognugazikni di sorta. questo come uno dei tanti dogmi che dovremmo trovare la forza di applicare, e cercare insieme ad altri, per costruire il modello del lavoro che verrá e spinga tutti in una nuova direzione.
Un intervento a mio modesto parere urgente sarebbe quello di rendere meno anacronistica e obsoleta una facoltà che diversamente potrebbe essere strategica: giurisprudenza.
In sentesi.
Attualmente giurisprudenza è una facoltà che immette sul mercato laureati difficilmente occupabili nell’attuale mercato del lavoro. Le professioni classiche di giurisprudenza sono sature. Per tutto il resto, soprattutto nei settori in espansione, i laureati in giurisprudenza non sono competitivi.
L’accesso a tale facoltà andrebbe completamente rivisto. Ma soprattutto andrebbero riviste le modalità di insegnamento e le materie insegnate. Diversamente avremmo sempre: dottori in giurisprudenza iper competenti quanto sfruttati, in numero eccessivo, senza seria retribuzione, nonché un incredibile e insostenibile spreco di tempo e risorse sia per i laureati che per l’università che per la società tutta.
Un circolo vizioso che penalizza l’intero paese a discapito di principi importanti: ovviamente l’istruzione et similia ma non ultimi il buon andamento della PA, il merito nelle selezioni, l’iniziativa economica, ecc.
Riformare giurisprudenza vuol dire: ridurre sprechi, allocare meglio le risorse, formare laureati all’altezza delle sfide attuali, creare le competenze di cui necessità l’amministrazione e l’impresa, migliorare il livello qualitativo di legislazione e normazione in generale ma anche ridare dignità e un futuro: al diritto, a chi lo studia e lo appica, alla relativa facoltà sempre più percepita come un investimento non più meritevole.
Buongiorno dott. De Biase,
sono uno psicologo del lavoro, attivo da diversi anni sul tema dei ‘green jobs’ (www.greenjobshub.it); in particolare tutta la mia attività professionale ruota attorno al concetto di futuro, per declinarlo nelle sue ripercussioni lavorative. Proverò a sintetizzare le principali riflessioni fatte:
Innanzitutto il lavoro è conseguenza della visione di un popolo, di una comunità, di uno Stato o addirittura dell’intera umanità. La prima questione da porsi è quale società si vuole, caratterizzata da quali elementi, valori, ideali? A mio avviso sono emersi negli ultimi anni 3 grandi assi che stanno cambiando radicalmente la società e quindi il lavoro:
1. la sostenibilità ambientale
2. la responsabilità sociale d’impresa
3. l’innovazione tecnologica
Il primo elemento prevede la riconversione di tutto il sistema economico e produttivo in chiave sostenibile, la cosiddetta green economy, per far fronte alle enormi sfide che caratterizzano questa epoca (surriscaldamento globale, inquinamento, gestione dei rifiuti, tutela dell’ambiente ecc…)
Il secondo elemento è una rivoluzione copernicana rispetto al concetto di economia e libero mercato, passando da un economia del ‘quanto’ (quanto lavoro, quanto produco, quanto guadagno) a un’economia del ‘come’ (come lavoro, come produco, come guadagno) in cui l’obiettivo non è più rappresentato da una crescita economica illimitata, volta all’infinito, ma sta diventando, a piccoli passi, la qualità della vita. Segnali di questo sono la diffusione dei concetti di Corporate Social Responsibility, Business Sociali, Benefit Corporation, o più semplicemente riscoprire un modello chiaro, semplice ed evidente, in anticipo di 70 anni sul mondo di oggi, quello di Adriano Olivetti, in cui l’obiettivo dell’impresa non è più il profitto ma il bene della comunità.
Il terzo elemento (di cui non mi occupo direttamente) è a mio avviso da vedere in modo molto positivo in quanto toglie all’essere umano la fatica dei lavori più ripetitivi, noiosi, privi di valore aggiunto. aprendo alla possibilità di redistribuire la ricchezza per altri servizi ad alto valore umano, emotivo, creativo, artistico, culturale, conviviale. Se la tecnologia del digitale e dell’automazione ci libera dal concetto di fatica di lavorare ci avvicineremo sempre più ad un concetto di lavoro come realizzazione di sé, delle proprie passioni, di espressione del proprio potenziale. Estremizzando il concetto di un’impresa totalmente automatizzata, che genera però un enorme valore economico, si può pensare che tale valore possa essere redistribuito in altri servizi ad alto valore umano, il cui compito spetta alla politica. Penso ad esempio a meno burocrati e a più assistenza per disabili, persone con difficoltà psicologiche, anziani, oppure maggiore spazio alla cultura, all’arte, in cui i migliori artisti vengono sostenuti dalla comunità per il contributo che portano alla comunità. Oppure ancora retribuire persone che si occupano di costruire il senso di comunità, la convivialità e facilitano le buone relazioni tra persone. Sono solo alcuni esempi ma li trovo molto pertinenti in quanto ad alto valore umano, difficilmente sostituibili da macchine.
Sarà a quel punto ancora più importante un servizio di orientamento professionale, una consulenza di carriera mirata a esprimere le proprie migliori qualità.
L’orientamento è un elemento essenziale, a partire dalla scuola per supportare le persone nel trovare la propria vocazione, in cui è possibile esprimere al meglio le proprie capacità, generando soddisfazione per sé e grande valore per la società. Un orientamento che necessariamente deve essere fatto da soggetti terzi rispetto alla scuola, alle famiglie o demandato solo ai carreer day universitari. Inoltre tale orientamento deve guardare al futuro, e avere come fulcro la società che verrà, o meglio, che si desidera costruire.
Nel mio piccolo ho la fortuna di occuparmi proprio di questo in due importanti progetti: Progetto Green Jobs di Fondazione Cariplo (http://www.fondazionecariplo.it/it/progetti/ambiente/green-jobs/green-jobs.html), in cui mi occupo di orientamento nelle scuole superiori e dove si affrontano i grandi temi appena esposti: economia sostenibile e socialmente responsabile, come opportunità di studio, lavoro e partecipazione alla costruzione sociale. Il secondo progetto è Sportello Green Jobs, sviluppato con Città dei Mestieri di Milano (http://www.cittadeimestieri.it/green-jobs/), in cui si offre consulenza di carriera e orientamento gratuitamente a chiunque voglia avvicinarsi all’economia sostenibile e socialmente responsabile; esperienza che sta dando riscontri particolarmente positivi.
È interessante vedere come spesso bolliamo di irrazionalità scelte perfettamente razionali. Il motivo per il quale gli Italiani investono poco per l’educazione è che… l’educazione vale poco. Vale poco in vari modi, di cui il più ovvio è il meno vero, peraltro. Certo che è importante e nel complesso vale (probabilmente si potrebbe fare molto per elevarne il valore personale e sociale, ma non è la sede per discuterne), ma quale è il peso del merito nell’ottenere successo in Italia? Molto basso, se non nullo. Un Ministro, e non è nemmeno stato il primo, sostiene che sia più importante la partita di calcetto del CV. Qual’è il livello di remunerazione che si ottiene in Italia a fronte del conseguimento di specializzazioni elevate, e naturalmente complesse da ottenere? Si prenda l’esempio del data scientist, riportato nell’articolo del Sole citato in questo post: talmente basso che economicamente conviene fare l’idraulico! Se poi aggiungiamo il fatto che la tassazione è a livelli bulgari e gli unici che guadagnano sono quelli che possono fare il nero… la frittata è fatta. Conviene prendersela comoda, scegliere strade non troppo ambiziose e sperare nella fortuna. Razionale, purtroppo.
La verità è che ci siamo “dipinti in un angolo”, come direbbero in America, e non ci sono policy che tengano. Avremmo bisogno di trovare una vera leadership politica, che sappia far fare un cambio culturale completo su temi su cui siamo storicamente gravemente deficitari. Se proprio dovessimo sceglierla, una policy? Mettiamo sgravi fiscali importanti per le assunzioni di figure super specializzate, in modo da aumentare il livello retributivo finale degli specialisti, e speriamo che non li riassorbano le aziende. Quelle Italiane sono notoriamente di braccio corto quando si tratta di pagare dipendenti, e pronte a stracciarsi le vesti perché nessuno si scapicolla per lavorare per loro. Poi ci sorprendiamo se rimaniamo indietro.
Copio e incollo un mio intervento molto personale sul tema nel blog Culturefuture.
http://www.culturefuture.net/come-sara-il-futuro-dei-millennials/
Un bicchiere mezzo pieno. Come sarà il futuro dei millennials?
Il futuro dei millennials interpretato da una millennial.
Il futuro è cambiato. Quello che ci aspettavamo dal futuro non esiste più. Comunque, non è mai esistito. C’è un momento quasi preciso in cui il futuro si trasforma in presente. Insomma, in realtà passato e futuro non esistono e, se esistono, lo fanno sotto forma di presente. Questo momento quasi preciso in cui il futuro si trasforma in presente per noi è finalmente iniziato. Da studente, il tempo te lo vivi con la lente escatologica di momenti-chiave liberatori o iniziatori. «Non vedo l’ora che finisca la sessione». Poi arrivi a un certo punto in cui l’aspettativa di una qualche liberazione svanisce. «Non vedo l’ora di cosa?» Eccolo il mio bicchiere mezzo pieno. L’ora è adesso.
Ai millennials è stato insegnato un futuro che non sta accadendo. Ci è stato fatto credere che da grandi avremmo avuto un momento per la vita vera, il cosiddetto tempo libero, quello da dedicare all’amore, alla famiglia; andare al ristorante, allo stadio, ad un concerto, viaggiare, scrivere quel romanzo che da teenager sognavi troppo di fare e faceva così figo. Abbiamo studiato – mai bene quanto le generazioni passate, chiaramente – il latino, il greco, la matematica, la filosofia, la storia, la letteratura, i più fortunati l’educazione civica, le poesie a memoria e la tecnica per fare i riassunti. Tutto quello che studiavamo era una promessa per il successo professionale (ma il liceo non ti insegna nessun mestiere, ferunt).
Ora i millennials hanno cominciato a fare figli, a lavorare (ci si prova), a fare politica, a diventare punti di riferimento della classe intellettuale. Ma niente è andato come chi li ha istruiti si aspettava. Alla fine, la distinzione tra labour e leisure è una bufala. Non si può crescere convinti che il sabato fai cose solo per divertimento e che le cose importanti, il tuo contributo feriale alla società, siano cose pallose. Siamo una generazione di poveri laureati (la scala della mobilità sociale si è inceppata), ultra-qualificati (master dell’ennesimo livello con promesse di stage assicurato), trans-occupati (difficilmente si trova lavoro nel settore per cui si ha un titolo). Come è successo? Il 2008 ci ha insegnato che possedere una casa non è così importante e la crisi del lavoro lo ha confermato. Il riscaldamento globale e cose come la sharing economy ci hanno convinto che neanche possedere un’auto, tutto sommato, conta. La proprietà non è più un valore, meglio la connessione wi-fi.
Secondo me la sorpresa più grande l’hanno avuta i grandi. I millennials si sono laureati sapendo che non ce l’avrebbero mai fatta (ma che significa “farcela”?). Allora alcuni hanno pensato che tanto valeva cercare di provarci con la propria passione, alcuni neanche se la sono scelta la passione, altri si sono buttati sul rischio d’impresa (le start-up). Nel settore culturale la mansione ha ceduto il passo a una specie di professionalità diffusa. Partite iva a go-go, anche finte, per le quali fortunatamente in Italia si comincia a strutturare un sistema di protezione sociale (e quando cambia la struttura è segno evidente che la forma della società è già mutata).
La pensione non se l’aspetta più nessun mio coetaneo. Doppi e tripli lavori, vite multi-potenziali. Allora, vedete: non c’è differenza tra lavoro e svago. Talvolta mancano i presupposti (se non c’è un lavoro…), ma molto spesso il mercato o la vita che ti scegli, o quella che ti trovi a condurre, ti permettono di lavorare continuamente o non lavorare mai. La ricezione delle e-mail, le notifiche di Linkedin, Facebook che ormai si usa come agenzia di stampa fai-da-te, tutto questo ti segue ovunque ci sia il segnale 3G. Tutto sommato sappiamo anche gestire l’eclatante eccesso di informazioni che caratterizza il nostro tempo. Possediamo davvero solo ciò che conosciamo.
I millennials sanno che ormai è quasi più facile trovare una svolta attraverso la creatività. È finita l’era dei cash cows: se si potesse utilizzare la matrice Bcg per questo settore, diremmo che siamo tornati nel riquadro del question mark, occorre sviluppare. Ti devi inventare qualcosa e se va bene è una figata. Così, a un certo punto arrivi a non distinguere più di tanto la gratificazione derivata da una vacanza da quella della preparazione della presentazione di una ricerca svolta. La vita e il lavoro non sono due cose diverse e, sembrerà banale, è in questa vita che bisogna essere felici. Non è scontato, ma è vero, che si può rischiare di essere più felici al lavoro che nella vita privata. Ma comunque tutto questo non conta, perché la vita privata e il lavoro per noi sono praticamente la stessa cosa (questo stile di vita è il più artistico che ci sia). È come se i millennials fossero stati prima delusi, che illusi. È illogico, ma va a loro vantaggio.
Il futuro è cambiato, ha un’altra forma. Il paradigma è stato sovvertito (immaginate quei giochi per bambini in cui bisogna inserire il quadrato nel foro quadrato, il triangolo nel foro a triangolo). È un paradigma con un copione stilizzato e a me questo canovaccio lascia intravedere ampi spazi di discrezionalità, altissimi tassi di rischio e una dose di libertà maggiore di quella dei nostri genitori. Cominciamo cambiando forma da inserire nel foro e non accontentandoci di volere quello che hanno voluto altri prima di noi.
L’acquisizione, il riconoscimento e l’utilizzo delle competenze è e sepre più sarà cruciale.
Competenze ultra specifiche da un lato (“programmatori in Python 3”), competenze “fluide” e interdisciplinari
dall’altro.
Soprattutto in questo secondo caso, sia dal lato della domanda che dell’offerta, sarà importante saper
riconoscere e descrivere quello di cui si ha bisogno e quel che si sa fare; le attuali piattaforme
dedicate al job recruiting non sono ancora, a mio avviso, ancora ben progettate sotto questo punto di vista.
L’apprendimento in “beta permanente”, l’essere “endless newbie” come afferma Kevin Kelly porta di conseguenza
la necessità di ridefinirsi con efficacia per cogliere le opportunità lavorative (il posto fisso sarà
archeologia sociale).
Accanto alle soft skills, le competenze ibride saranno la chiave per le aziende e per le persone ma
si dovrà sviluppare un linguaggio comune per poterle sfruttare al meglio.
Nell’ Aprile del 2013 al’età di cinquantacinque e dopo quarant’anni di digitale, uscivo dalla multinazionale HP. Nella quale mi sono formato sia a livello umanistico che tecnologico, per dedicarmi all’arte.
Ho realizzato in questo lasso di tempo la resa immateriale dell’oggetto fisico che tutti conosciamo come “Quadro”.
Adesso posso replicarne il mio studio attraverso nuove forme visive per portare chi osserva dentro una nuova esperienza prospettica.
Questa cosa dell’ #immateriale arte, cosi ho chiamato il mio concetto e progetto. Di fatto, è una singolare coniugazione della esperienza umanistica di un pittore, che attraverso la trasformazione digitale opera con conoscenza e studio della nuova forma d’arte che ne deriva.
Ho inventato e realizzato con mentalità zero budget, e con risorse tecniche normalissime e qualche applicazione scaricata dalla rete, una nuova forma d’arte. Superando le costrizioni materiche per ergersi a un livello d’immaterialità il quale permette di modificare sostanzialmente la cultura digitale e classica dell’arte.
Potere pensare a una estetica non più legata all’oggetto principe dell’attuale e imperante arte mercato. Permette di partire e di concepire nuovi spazi per la creatività che superino il concetto base di mercificazione e di possesso singolo dell’arte.
Una rivoluzione umanistica e digitale, che permette di pensare a un’arte pubblica, condivisa e interattiva, che possa riportare il ragionamento sul senso delle cose al centro di una nuova ricerca estetica.
Sono più di quattro anni che conduco questa solitaria ricerca, il 14 luglio del 2017 questo isolamento si è magicamente rotto grazie all’invito del Prof. M.Pimpinella Presidente di APSP. Invitandomi al Digital & Payment Summit, dove tra le tematiche della moneta immateriale, ha voluto portassi un mio Video d’#immateriale arte. Ho potuto cosi stabilire un fatto, e grazie alla lungimiranza del mio anfitrione al quale sarò semre riconoscente. Sono diventato il primo artista-relatore che ha presento presso l’aula magna dell’Università LUISS un Video interamente realizzato in condizioni di mobilità usando solo un cellulare seppure della serie smart.
Ora spero che anche altri osservatori del mondo digitale, comprendano l’importanza di avere trovato in Italia una nuova possibilità estetica di rappreentazione della realtà, che deriva dallo studio solitario, che un connazionale ha condotto e realizzato nell’ombra più assoluta.
Non so se l’avere inventato , sviluppato e realizzato una nuova forma d’arte possa essere considerato un lavoro. Sono abbastanza certo che attraverso la mia esperienza cretiva di una nuova forma d’arte, si possano costruire nuove opportunità di lavoro. L’arte e soprtutto l’#immateriale arte nativa digitale, consente d’intervenire sul modo di comunicare, creando l’ambito di nuovo rinascimento culturale che possa derivare da un’uso creativo della componente digitale, ormai umanizzata e resa disponibile a tutti, attraverso lo studio di un pittore.
Sperando di sentirvi continuo il mio lavoro di ricerca.
Il problema credo debba essere affrontato per punti rispondendo ad alcune domande che personalmente mi pongo ed alle quali non so dare risposta.
Ma veramente a vostro parere la soluzione può essere trovata attraverso attraverso politiche condivise ed unanimistiche ? Quando per contro assistiamo sempre agli stessi annosi problemi ?
1 mancanza totale di strategia da parte della classe dirigente;
2 totale deresponsabilizzazione a tutti i livelli;
3 rifiuto delle leadership;
4 visione d’azione di brevissimo respiro
Perché questa dinamica si perpetua ?
Quali sono i “lacci e lacciuoli” che impediscono il cambiamento culturale e sociale ?
Chi meglio di lei De Biase, può cimentarsi in questi rompicapo ?
Il metodo è sempre quello della SWAT ANALYSIS. Punti di forza, di debolezza, opportunità e rischi, avendo come obiettivo la migliore società 4.0
Dobbiamo avere più coraggio, cercando di eliminare punto per punto, ogni punto di debolezza, evitando allo stesso modo ricercare soluzioni rapide, indolori, onnicomprensive. La società non è un grosso Mainframe.
Cordialità
Caro Luca,
quello del lavoro del futuro è un tema molto interessante sul quale anch’io rifletto da un po’.
Devo dire che per me è stato illuminante un libro di Linda Gratton e Andrew Scott che ho letto recentemente .
In un’epoca di aumento esponenziale dell’aspettativa di vita, vanno cambiati radicalmente i fondamentali di tutto il sistema.
I ragazzi nati dopo il 2000, che hanno una probabilità maggiore del 70% di arrivare a 100 anni, non potranno avere una vita organizzata nei tre stati classici: education (20 anni), lavoro (60 anni), pensione (20 anni). Quei 60 anni nel mezzo non reggono: non regge il sistema, ma non reggono neanche le competenze per 60 anni! Quindi la vita dovrebbe essere organizzata ad “ondate” in cui si affrontano esperienze e lavori anche molto differenti l’uno dall’altro, intervallati da momenti di ri-education, di aggiornamento, di investimento sulle competenze più soft e vuoi anche su altri valori (famiglia, amici ecc). Questo ti permetterà, alla fine della vita lavorativa, di avere quella che si chiama una “portfolio activity”, con qualche giornata ancora pagata (da consulenze, da attività part-time) e il resto dedicato a volontariato piuttosto che ad altre attività non remunerate (mentorship di persone più giovani, associazioni e via dicendo) in modo da “ridare” al sistema un po’ di quanto si è preso ed aiutarlo comunque ad evolvere.
Quando dico ripensare il sistema, intendo anche le attività di servizi: le banche per esempio dovrebbero inventare nuovi prodotti finanziari che permettano di supportare quei periodi inattivi di cui sopra, ormai non si risparmierà più ( almeno non solo) per la pensione!
In tutto questo la tecnologia deve rimanere quello che è sempre stata: un abilitatore (di nuovi mercati, di nuovi prodotti, di nuovi processi) dove le idee e la gestione vengono comunque dalle persone e non dalle macchine.
Credo sia facile nascondersi dietro la paura dell’evoluzione della tecnologia e degli impatti che avrà sul mondo del lavoro: è esattamente l’inverso, il mondo del lavoro dovrà evolvere in base alle nuove esigenze dell’umanità e la tecnologia lo dovrà supportare in tal senso.
Dal punto di vista della politica si dovrebbe quindi a mio avviso ragionare in tal senso, avendo il coraggio di contrastare non i robot ma le istituzioni obsolete (sindacato, corporazioni ecc) che sono il vero freno dell’innovazione.
Ma siete sicuri che “futuro sia un po’ il frutto di una narrazione sul futuro”? Io invece sono convinto che il lavoro nel futuro dipenda da quello che programmano le imprese per sé e dalla politica economica del governo e, in parte minore, degli enti pubblici. Il problema è che le imprese programmano nel breve periodo e che il governo e gli altri enti si adattano alla situazione data.
Per un certo tempo mi sono occupato di gestione del mercato de lavoro. In questa funzione mi è capitato di coordinare una ricerca sulle previsioni di occupazione a sei mesi (quantità e qualità) fatte dalle imprese in una provincia del Veneto, cercando di creare un quadro riscontrabile con le assunzioni effettive per come risultavano nei sei mesi successivi alla ricerca negli uffici di collocamento della stessa provincia. Il risultato corrispondeva alle previsioni espresse per quanto riguardava il tipo di occupazione ricercata mentre la quantità delle assunzioni effettive risultava circa il doppio delle previsioni. L’unico motivo che può spiegare questo risultato era che le imprese, in assenza di una situazioni di crisi, avevano espresso una previsione a tre mesi e non a sei come era richiesto nel questionario. Cioè le imprese non pensano al lavoro futuro, ma a quello a breve e, se c’è bisogno di innovazione tecnologica, preferiscono utilizzare personale interno che, almeno, conosce l’azienda e la sua organizzazione.
Per la politica invece ci sarebbe bisogno di una visione del futuro sulla quale orientarsi per facilitare il suo avverarsi assumendo provvedimenti opportuni. Infatti tutti gli ultimi governi hanno individuato nel turismo il settore di sviluppo abbandonando di fatto una qualsiasi politica industriale, a parte forse l’azione dell’attuale ministro. Una scelta di adattamento alla situazione attuale, fatta senza pensare minimamente alle conseguenze: distruzione del tessuto sociale (Venezia), distruzione del territorio a causa della cementificazione e dell’abbandono della manutenzione, precariato organico.
Con questo panorama desolante ci sarebbe da rifugiarsi in un lavoro futuro per come lo si immagina soggettivamente. Invece io resto abbastanza convinto che il futuro si può immaginare se si conosce e si fa riferimento al presente anche perché l’innovazione nelle imprese, dove si è verificata, non è stata un cambiamento improvviso, ma una utilizzazione di nuove risorse razionale e opportunamente utilizzate.
Il fproblema è che il presente è dato da un mercato del lavoro nel quale ci sono circa il 10% di lavoratori stranieri quasi tutti extracomunitari che non sembrano svolgere lavori di alta specializzazione mentre gli italiani cercano lavoro all’estero, in quota inferiore, o sono disoccupati. Mi sembra evidente che esiste un disallineamento tra le aspettative di lavoro degli italiani e quello che la struttura di produzione di beni e di servizi offre. Del resto la cosa appare chiara quando si fa notare che i lavoratori specializzati mancano, ma che le retribuzioni che sono offerte sono troppo basse: qui non funzionano neppure la leggi del mercato.
Forse sarebbe il caso di pensare che la composizione del lavoro in Italia è orientata verso posizioni di bassa qualità. Sarebbe interessante vedere se la recente fase di crisi ha cambiato qualcosa in questo senso per lo meno nelle regioni più sviluppate. In Veneto, nell’industria, ma non in altri settori, forse sta cambiando qualcosa, ma qui bisogna andare a spanne perché tutti si affannano a dire che la pressione fiscale è troppo alta e, magari a recuperare i distretti che ormai hanno perso la funzione di diffusione di innovazione.
Qualcosa potrebbe venire dalla scuola soprattutto se si comincia a pensare che essa, da quando ha assunto una dimensione di massa anche nelle superiori, è finalizzata alla comprensione della società in cui si vive e del lavoro in senso generale, anche se è orientata a una qualche specializzazione condizione indispensabile per favorire l’innovazione. Invece si pensa che “non serva niente” e che comunque dovrebbe essere orientata all’inserimento diretto nel lavoro. Per quale stravagante motivo un genitore o uno studente dovrebbero essere in grado di programmare il loro futuro a cinque anni se le aziende programmano a tre mesi? Da parte loro i governi si adattano anche in questo caso alla situazione e tendono a diminuire le spese senza occuparsi minimamente della costruzione di futuro che esiste al suo interno.
In conclusione il panorama è nel complesso difficile, ma questo non vuol dire che non si debba avere una visione del futuro su cui orientarsi e i piedi nella realtà facendo scelte che certamente non la realizzeranno ma che possono contenere anche piccoli elementi di avvicinamento. Quindi non solo una narrazione, ma atti orientati.
ps In questi giorni sto leggendo il libro di Andrew McAfee e Erik Brynjolfsson Machine, Platform, Crowd: Harnessing Our Digital Future. Una delle loro tesi è che abbiamo superato la fase in cui usavamo i computer solo per raccogliere e analizzare dati, demandando alla fine le decisioni agli esperti umani: abbiamo ora la possibilità di demandare molte decisioni – grazie a big data, machine learning ecc. – alle “macchine” che arrivano a soluzioni spesso migliori (per esempio non essendo influenzate da pregiudizi ( a meno che i dati in entrata non ne siano “contaminati”…). Si riuscirà a collaborare con loro in questo nuovo contesto?
Buongiorno Dottor De Biase,
sono Walter e, contrariamente a quanto si penserebbe, sono un laureato in Filosofia che lavora nel mondo digitale, ho 37 anni e ritengo di aver sempre sperato e lavorato nel mondo del futuro.
Dal 2001, anno in cui ho iniziato l’Università mi sono sempre interessato di internet e tecnologia, un po’ per interesse personale (sono un appassionato lettore di fantascienza e di tutte le narrazioni che hanno ipotesi interessanti sui tempi che verranno), un po’ perché mi è sempre interessato il progresso delle tecniche.
Ho utilizzato troppo tempo per completare i miei studi: è vero ho fatto tre esami in più del dovuto (islamistica, storia delle dottrine politiche, storia sociale), ho contribuito a costruire un paio di hacklab, un internet point per l’alfabetizzazione informatica dei migranti, due portali di informazioni sul web ed una web zine, ma il tempo che ho perso in tutte queste attività, le esperienze accumulate mi hanno consentito, una volta uscito dall’Università di avere conoscenze e saperi all’avanguardia per quello che era il mondo produttivo del 2009.
Posso dire quindi che gli studi filosofici e gli interessi personali mi hanno consentito di inserirsi agevolmente nel mercato del lavoro di allora e, ancora oggi, mi consentono una capacità di comprensione delle dinamiche tecnologiche che mi accorgo utile alla mia azienda.
Nel tempo ho svolto le più disparate mansioni: ho aiutato la prima azienda che ha creduto in me a dotarsi di efficaci strumenti di web marketing e ad offrire ai propri clienti prodotti all’avanguardia, ho contribuito a creare e regimentare la presenza on line di destinazioni turistiche, eventi sportivi, sempre accompagnando a tutto questo una buona dose di pazienza e formazione per le strutture ed i clienti con cui lavoravo, portando sempre a casa buoni risultati (quando non ottimi).
Però oggi, Dottor De Biase mi trovo in estrema difficoltà. Nonostante l’esperienza (decennale oramai), nonostante i risultati, sembra che il mondo del lavoro non sia più interessato a figure come la mia, o almeno a lauree come la mia.
Quando mando curricula o parlo con i clienti sembra che il peccato originale (una laurea umanistica) non sia espiabile. La narrativa sul web infatti sostiene che ci vogliano solamente profili scientifici, non importa poi se abbiano contezza del processo nel quale siano inseriti e si limitino a risolvere semplici equazioni. Tutto il resto è scartato apriori come non competente.
Sembra quasi che la narrativa sulle nuove professioni del web sia un po’ come la narrativa della Silicon Valley: “nel mondo del futuro tutto sarà perfetto, a patto che si adotti la nuova tecnologia sul mercato” – “il mercato del lavoro sarà perfetto quando avremo sufficienti fisici, statistici, e profili scientifici da immettere nel processo produttivo”
Potrebbe sembrare una difesa di parte, ma in realtà sono veramente convinto che i fisici di oggi saranno gli operai della tecnologia del futuro.
Quindi la domanda è dove stiamo andando? Qualcuno è in grado di padroneggiare questa narrazione o, semplicemente, la stiamo subendo?
Ecco il punto allora, credo che un certo manicheismo sia il vizio della nostra epoca e del nostro paese dottor De Biase, ovvero credere e far credere che in un mondo dominato da processi complessi ci siano ricette semplici da leggere in tempo per il TG delle 13.30.
Come giustamente ha segnalato nel suo articolo è un problema di narrazione del Futuro che sia nella sua versione distopica che entusiasta a mio avviso mancano clamorosamente il bersaglio, ovvero una società avvenire in cui la tecnologia sarà certo un terreno di scontro, ma che rimarrà sostanzialmente uno strumento nella mani dell’uomo tutto da scoprire ed inventare, siano questi uomini scienziati o umanisti.
salutoni
Manca una visione comune, sì, ma ancora di più un cambio di visione. Il flusso del mercato del lavoro va invertito: oggi e ancora più in futuro devono e dovranno essere i lavoratori ad “assumere” le aziende. Vanno riscoperti, nobilitati e alimentati i lavori “di cura” e “improduttivi”. Ma soprattutto va rivisto l’approccio al lavoro: non più impiego con la sola funzionalità di produrre reddito, ma l’attività per esprimere la propria persona nel mondo e perseguire valori di lungo periodo. In definitiva, oggi e ancora più domani lavorerà chi saprà adattarsi, reinventarsi, “creare” in senso ampio, e questo lo si può fare solo in un lavoro “che piace”. Spiace notare invece che la “narrazione” sociale e mediatica è quasi sempre invece opposta a questa, e le persone ne soffrono e si avvitano nella spirale della disattivazione.
Sembrano grandi discorsi senza concretezza, ma sono le basi della filosofia e del metodo Job Club, progetto da me fondato, aperto a tutti e gratuito, che aiuta le persone a cercare lavoro insieme seguendo un programma di 10 incontri. Un metodo che ha dimostrato di riuscire ad occupare oltre il 50% dei partecipanti e riattivarne la totalità in collaborazioni quali quella con il Comune di Milano e di Alessandria. Sul sito si possono trovare tutte le informazioni e le testimonianze. Nonostante questo, da oltre 4 anni il progetto viene portato avanti solo da me come secondo lavoro, senza finanziamenti (privati o pubblici) e senza supporto. E’ inutile continuare a cercare soluzioni nuove se non riusciamo nemmeno a “mettere a sistema” e diffondere le pratiche che hanno già dimostrato di funzionare.
Oggi è veramente difficile riuscire ad immaginare il futuro
Lo è per gli esperti, che si azzardano sempre meno a disegnare scenari anche a pochi anni; e lo è ancora di più per i giovani inesperti e le loro famiglie
Avendo dei figli piccoli, che si inseriranno nel mondo del lavoro tra almeno 10 o 15 anni, mi trovo anch’io spiazzato a cercare di immaginarli in un contesto definito
Io solitamente cerco di consigliare le persone o i giovani a non cercare di pensare al “lavoro” che vogliono fare “da grandi”, ma al tipo di vita cui aspirano e poi cercare quali occupazioni possono più facilmente aiutarli a realizzarlo
Vorresti sentirti utile per la società?
Ti piace viaggiare e conoscere posti nuovi o cerchi stabilità e sicurezza?
Preferisci una vita dinamica e attiva o ti trovi a tuo agio con attività più statiche e tranquille?
Pensi di riuscire a lavorare in squadra, dare il tuo contributo e rispettare la gerarchia, o per te é importante sentirti libero, indipendente e autonomo?
I soldi sono importanti, ma relativamente: se ti piace viaggiare, puoi fare un lavoro meno gratificante ma ben retribuito, che ti consenta di passare il tuo tempo libero girando il mondo; oppure fare un lavoro magari meno retribuito, ma che ti permette di esplorare paesi diversi.
Certo che se una persona è appassionata di gioielli o auto sportive, senza una ricchezza alle spalle, non dovrebbe seguire percorsi che portano verso professioni sature, non stabili e poco retribuite, anche se sul momento possono sembrare affascinanti
Da domande come queste, si può intanto cominciare a costruire un percorso formativo, culturale e caratteriale, che prepari ad inserirsi in un certo contesto.
Quelle che saranno le professioni che esisteranno ancora e che saranno richieste nel 2030-40-50 pochi sono in grado anche solo di immaginarle; quello che ci aspettiamo dalla vita, invece, ognuno di noi ha il dovere di immaginarlo e provare a realizzarlo
E’ interessante partire dal report di WEF 2016 (non credo che sia stato pubblicato quello 2017) e analizzare le competenze, da li è possibile desumere nuove tipologie di lavoro tenendo in considerazione le indicazioni sui nuovi settori emergenti che trovi in altri documenti che posso segnalare http://www3.weforum.org/docs/WEF_Future_of_Jobs.pdf. Vale la pena pertando valutare più punti di vista: i diversi studi sul futuro del lavoro, quelli sulle competenze che le aziende innovative stanno richiedendo e che richiederanno in futuro, insieme ad uno sforzo immaginativo su ciò che potranno essere le nuove tematiche afferenti alle varie dimensioni del lavoro. Durata, intensità, tipologia, mansioni, mobilità, modalità di collaborazione, valutazione dei risultati, produttività ecc.
Rivoluzione tecnologica: un’alternativa al basic income statunitense
Negli Stati Uniti, si fa strada la convinzione che il reddito minimo garantito per tutti, c.d. basic income, sia la contropartita dell’automazione dei lavori ripetitivi e manuali in conseguenza della rivoluzione tecnologica.
E dunque, ad esempio, come ho avuto modo di riscontrare nel mio recente viaggio, dell’automazione della produzione di hamburger della Monumentum Machines, o ancora delle catene di supermercato come Kroger Company o, infine, della distribuzione di farmaci presso il polo ospedaliero di San Francisco.
Tale convinzione sembra avere appeal anche nel nostro Paese, che però, se messo a confronto con gli Stati Uniti, non è pronto per questa misura per almeno tre ragioni. Analizzatele brevemente, suggerirò una soluzione alternativa
In primo luogo, il reddito minimo garantito non tutela il diritto al lavoro.
Negli Stati Uniti, tale diritto non è, al pari di quello italiano, un diritto fondamentale di rango costituzionale a garanzia della libertà, della dignità sociale e dello sviluppo della personalità dei cittadini. Nemmeno la Dichiarazione di Indipendenza del 1776, del resto, vi fa riferimento quando enuncia il diritto alla felicità del popolo statunitense.
A tale fondamentale diritto al lavoro, in Italia, fa da pendant un sistema assistenzialista che tutela periodi di “non reddito” nell’arco della vita lavorativa del singolo, che prende le mosse dal modello novecentesco bismarckiano e dunque di segno contrario a quello beveridgiano, fatto proprio dai fautori del reddito minimo garantito.
In secondo luogo, il reddito minimo garantito rischia di cristallizzare la diseguaglianza sociale perché, in quanto non progressivo, priva il cittadino della possibilità, che invece deriva dal lavoro, di ottenere una retribuzione maggiore, di ridurre di conseguenza il divario di diseguaglianza rispetto a coloro che sono più in alto nella piramide sociale e, quindi, in definitiva, di attivare processi di redistribuzione della ricchezza.
Negli Stati Uniti, la retribuzione non ambisce ad essere strumento di tale redistribuzione al contrario che in Italia, dove in tale prospettiva si muove la contrattazione collettiva.
Infatti, negli USA, è molto accentuato il problema della diseguaglianza sociale. Secondo l’ultima indagine dell’American Federation of Labor and Congress of Industrial Organizations, nel 2016, il compenso medio dei top manager è stato di 13 milioni di dollari ovvero 343 volte quello di un dipendente d’azienda (c.d. pay ratio).
Ad esempio, Thomas M. Rutledge, ceo di Charter Communications ha incassato un compenso di 98 milioni di dollari, Robert Iger, ceo di Diseny, uno da 40,9 milioni di dollari mentre, secondo i dati di Philip Kotler (in “Ripensare il capitalismo”), nel 2013, Larry Ellison, ceo di Oracle, uno di 78,4 milioni di dollari.
Per questo, secondo Kate Pickett and Richard Wilkinson ( in “The Spirit Level: Why Equality is Better for Everyone”), gli Stati Uniti sarebbero anche all’ultimo posto al mondo per mobilità sociale, con buona pace del famoso “american dream”.
In terzo luogo, il reddito minimo garantito, nel confinare il consumo entro i limiti di una disponibilità economica invariata, rischia di incoraggiare l’indebitamento di coloro che ambiscono a consumare oltre tali limiti.
Negli Stati Uniti, tutti i lavoratori consumano ma non tutti i consumatori lavorano dal momento che è facile, per consumare, indebitarsi con banche o con società di credito. Come hanno rilevato nel 2014 gli economisti Barry Cynamon e Steven Fazzari dell’Università di Washington, la quota di indebitamento dei consumatori statunitensi meno abbienti, compresi quelli privi di occupazione, è salita del 95% dal 1987 al 2007.
Secondo Krugman, peraltro, anche se coloro privi di occupazione non consumassero, la domanda di mercato statunitense non subirebbe erosioni perché si reggerebbe su quella dei più ricchi e/o dei top manager, in quanto muniti di grosse disponibilità finanziarie.
Nel nostro Paese, viceversa, il reddito da lavoro, malgrado qualche tentennamento, resta ancora il principale strumento che rende possibile il consumo. E così, la domanda di mercato varia a seconda del tasso di occupazione registrato e del reddito degli occupati, che più reddito da lavoro percepiscono nel tempo più consumano (c.d. teoria del reddito permanente).
Se cosi stanno le cose, sul piano di una soluzione alternativa a quella del basic income statunitense, al nostro Paese si impone di conciliare gli effetti dell’innovazione tecnologica con il fondamentale diritto al lavoro, con il diritto alla mobilità sociale, con il diritto a “vivere del proprio lavoro” lontani dalla spirale dell’indebitamento.
In tale prospettiva, dunque, conviene guardare alla rivoluzione tecnologia da un punto di vista propositivo per trarre i benefici che derivano dalle sue potenzialità costruttive piuttosto che escogitare soluzioni contro il rischio di sostituzione dell’uomo con la macchina. In altri termini, governarla.
E dunque ambire, non tanto ad un reddito minimo garantito per la scomparsa dei lavori, ma ad occupare i lavori che nasceranno in conseguenza dell’innovazione e che vedono l’uomo e la macchina alleati e non competitors, come li ritrae un recente cortometraggio che racconta la vita di un nano all’interno di una macchina distributrice di caffè, ma anche a formarsi per svolgere tali lavori.
Certo, questa prospettiva richiede di restare uomini nel confronto con la macchina e quindi di non perdere la capacità di riconoscere ciò che è unicamente “umano, come l’empatia, la creatività e l’intuizione.
In fondo, si tratterebbe di prendere semplicemente atto delle specificità che differenziano il nostro Paese dal continente statunitense e, soprattutto, di costruire un modello di società “win win” in cui uomo e innovazione vincono insieme.
Provengo da generazioni di lavoratori autonomi e piccoli imprenditori e sono cresciuto con la ferma convinzione che il lavoro non sia qualcosa che cerchi, trovi e ti sistemi, ma piuttosto qualcosa che ti costruisci in modo molto personale giorno dopo giorno, costruendo proprio, il lavoro del futuro.
Senza dubbio una visione miope, che da un lato rende più dinamico il percorso ma dall’altro non permette una crescita professionale “pulita” e “lineare”.
Mi trovo ora, dopo alcuni anni di attività (lavoro nel web dal 2000) ad essere io, sempre più spesso, alla ricerca di figure professionali preparate da inserire in contesti lavorativi con alto potenziale di crescita ma non è semplice.
Le figure con buone hard skills, normalmente provenienti da contesti formativi di alto livello, hanno soft skills quasi nulle, mentre persone con ottime soft skills, hanno normalmente bisogno di tantissima formazione e tempi di inserimento davvero lunghi. Credo che questo scollamento sia dovuto in parte al mondo accademico che crea una svalutazione delle competenze trasversali a favore di una esaltazione troppo spinta della ricerca di specializzazione.
Mi piace pensare al lavoratore del futuro immaginandolo come una persona pragmatica, capace di arrivare alla conclusione dei problemi rapidamente, grazie a forti fondamenta tecniche e ad una esperienza personale sul campo. In grado di evolversi alla velocità della luce, perché ciò che avrà imparato oggi, sarà obsoleto prima di sera.
Credo che l’unica soluzione per non sprecare la propria vita sia di crearsi un lavoro per il quale abbia senso vivere.
Una missione che va oltre al guadagnare del denaro per “sopravvivere” e mantenersi.
La via della liberazione è estremamente più difficile e meno “sicura” ma al tempo stesso per molti l’unica percorribile.
Qualora il percorso non si riuscisse a farlo da soli si deve ricorrere a professionalità complementari, cooperando, con valori e obiettivi concreti e condivisi, per facilitare e sopportare lo sforzo competitivo e creativo per raggiungere il fine.
Fino a quando non invertiremo la percezione di chi siamo e perché facciamo quello che facciamo non vi sarà liberazione. Pragmaticamente se una teoria non ha un applicazione reale è inutile o non ancora matura per una sua possibile realizzazione ma se grazie alla tecnologia e al cambio di mentalità questa teoria diventa applicabile siamo di fronte all’inizio di una nuova evoluzione dell’uomo e del sistema economico, e questo è il tempo per riprovare.
Qui quello che stiamo facendo per fare la nostra parte nell’evoluzione di una “Nuova Economia Meritocratica” che mette al centro i reali artefici del valore creato: http://academy.starboost.it/planet-idea
La tecnologia esiste da e accompagna l’uomo da migliaia di anni, da quando Prometeo regalò il fuoco all’umanita, o meglio regalò la consapevolezza del “potere” del fuoco, perchè il fuoco in natura esisteva già. Comunque da quel momento è stato un rincorrersi di scoperte e di consapevolezza, gli antichi greci giocavano con strumenti a vapore poi per l’utilizzo industriale abbiamo aspettato diversi secoli. Probabilmente è così anche oggi, abbiamo fatto delle scoperte di cui non siamo consapevoli e verranno sviluppate dai nostri pronipoti, no non sono un novello Asimov però penso…..
Caro Luca. Mi hanno molto colpito i commenti al tuo appello e spero che riuscirai a sintetizzarli e portarli in dono a chi ha visione e risorse per costruirlo questo futuro che desideriamo. Mi ritengo un testimonial del “lavoro del futuro” ed oggi il mio scopo e’ condividere la mia trasformazione con il maggior numero di persone possibili. Per me la chiave di volta e stato il concetto di TALENTO. Non come si intende in TV ma come quell’insieme di forze e caratteristiche che ci rendono UNICI. Ho abbandonato l’attaccamento alle mie competenze, ho centrifugato la mia educazione universitaria e mi sono rimessa in gioco con una narrazione completamente diversa di me stessa partendo dalla mia passione. Il percorso non e’ facile, la tua iniziativa e’ preziosa: spero che riuscirai a portare valore concreto creando una community tra le persone che stanno reagendo al tuo appello. Cosi’ facciamo tribu’ e… magari possiamo diventare un punto di riferimento per le migliaia di persone che si stanno trasformando come noi.
Spesso si riflette poco su Industria 4.0 e su che opportunità strategica sia per il “capitale umano”. Partiamo da un presupposto: questa nuova rivoluzione industriale a mio parere non toglierà lavoro, ma contribuirà a riqualificare le risorse che in molti casi non svolgeranno più azioni semplici e ripetitive, ma useranno “tecnologia” e gestiranno “big data”.
Il capitale umano assumerà quindi un ruolo più centrale con nuove competenze.
Il problema è che ci sono i soldi e gli incentivi del Governo, c’è il taglio dell’Ires e dell’Irap, la detassazione dei premi di produttività e nel 2018 è previsto ancora tanto altro, ma forse non ci sono le competenze tecnologiche (e sicuramente mancano anche quelle trasversali). Quindi si genera “mismatch” ovvero il paradosso che in un periodo di alta disoccupazione, le imprese cerchino ma non trovino quelle professionalità di cui necessitano.
La scuola e l’università avranno un ruolo importante per costruire le competenze che mancano. Ma poi sarà necessario che il mondo della scuola e del lavoro “dialoghino” con l’alternanza scuola/lavoro e l’apprendistato.
Le aziende dovranno rivedere le loro strategie di “attraction”, i loro iter selettivi e i piani formativi. Serviranno seri programmi di riqualificazione e di rafforzamento delle competenze.
Dobbiamo infine chiederci se all’interno delle aziende ci sia chi ha competenze di leadership per guidare questa profonda rivoluzione: una persona che sia capace di far dialogare gli innovatori e sfruttare gli input creativi delle risorse in azienda, capace di dialogare con il mercato e con gli stakeholder esterni, intercettare e anticipare i bisogni dei clienti e capace di creare engagement all’interno dell’azienda. Un leader che dovrà gestire risorse ma anche rivoluzionare agevolmente le tecnologie dell’impresa per sopravvivere in un mercato che cambia alla velocità della luce. Ci sarà da divertirsi, se e solo se si riusciranno a cogliere le opportunità offerte da Industria 4.0.
Ma purtroppo quello che noto è che ci sono sempre più aziende i cui azionisti si concentrano su profitti istantanei, manager che si concentrano su bonus a breve termine e clienti che vogliono un prodotto sempre migliore ad un prezzo più basso.
Potrebbe interessare: La forma del lavoro che verrà, articolo “Le Scienze”/”Nature”, ottobre 2017
[…] gli articoli qui sul blog: Il lavoro del futuro. Una ricerca. (Vuoi contribuire?) Il lavoro del futuro. La ricerca continua… Lavoro del futuro. Oggi una puntata sul gioco di […]