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Appunti su Jobs act, contratti, freelance, occupazione…

Sappiamo che la nuova occupazione è prevalentemente creata dalle imprese che hanno meno di cinque anni (Ocse). E che negli ultimi anni, a un aumento della ricchezza e della produttività, non ha corrisposto un aumento dell’occupazione (McKinsey con Erik Brynjolfsson, Massachusetts Institute of Technology, autore con Andrew McAfee, di The Second Machine Age: Work, Progress, and Prosperity in a Time of Brilliant Technologies, W.W. Norton & Company, 2014). Sappiamo che la flessibilità dei contratti aiuta i sistemi economici a reagire alle variazioni di condizioni. Ma è evidente che non sono quelli la determinante della nuova stabile e sana occupazione. Quello che può aiutare l’occupazione sono gli investimenti e i finanziamenti nell’innovazione, nell’ecosistema delle startup, nel mondo dell’innovazione sociale, nella nuova formazione, con orientamento al mercato globale, alle esportazioni e al nuovo welfare.

Ma l’innovazione va fatta, non subita. Nell’industria ci battiamo anche bene, nei settori che esportano. Ma nei servizi siamo indietro. E le piattaforme della “on demand economy” che disintermediano e reintermediano il sistema dei servizi generano occupazione per i paesi che fanno quelle piattaforme, e ovviamente molto meno per quelli che le usano. Il lavoro freelance che quelle piattaforme rendono più probabile e nel tempo forse migliore non è necessariamente occupazione aggiuntiva, sana, solida. Anche se pure quello è benvenuto nei paesi che hanno il 40% di disoccupazione giovanile come l’Italia. Certo è che se fossimo capaci di fare piattaforme oltre che di usarle sarebbe meglio: non è impossibile. Non farlo è prova di un orientamento a subire l’innovazione.

Un grande servizio dell’Economist ne parla in dettaglio citando piattaforme come Handy, Uber, Homejoy, Instacart, Washio, BloomThat, Fancy Hands, TaskRabbit, Shyp, SpoonRocket:

“Handy is one of a large number of startups built around systems which match jobs with independent contractors on the fly, and thus supply labour and services on demand. In San Francisco—which is, with New York, Handy’s hometown, ground zero for this on-demand economy—young professionals who work for Google and Facebook can use the apps on their phones to get their apartments cleaned by Handy or Homejoy; their groceries bought and delivered by Instacart; their clothes washed by Washio and their flowers delivered by BloomThat. Fancy Hands will provide them with personal assistants who can book trips or negotiate with the cable company. TaskRabbit will send somebody out to pick up a last-minute gift and Shyp will gift-wrap and deliver it. SpoonRocket will deliver a restaurant-quality meal to the door within ten minutes” (Economist).

Sta di fatto che le piattaforme funzionano tutte più o meno in modo da riversare i rischi di business sugli attori del mercato che mettono in relazione (fornitori e utenti) riservando per sé solo il rischio di non riuscire a diventare “monopoliste” della nicchia di mercato che si sono scelte. Il lavoro freelance che generano è un lavoro in più, ma il rischio è ovviamente soprattutto riservato ai freelance. C’è molto da fare per migliorare questa situazione.

Altre letture tangenti a queste questioni?

Dario Di Vico e Gianfranco Viesti: Cacciavite, robot e tablet, Il Mulino (due opinioni sulla politica industriale)
Thomas Piketty, Disuguaglianze, Ube (il libro è del 1997 ma anticipa – in chiave riassuntiva – i temi del grande libro di Piketty)

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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