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Due notizie da mettere assieme. Due errori contrapposti. Facebook come servizio pubblico. Wikipedia come punto di vista privato. Le nuove istituzioni della rete vanno pensate meglio

La prima notizia riguarda Facebook che offre connessione gratuita in alcuni paesi africani ma limitando la navigazione ai siti e ai servizi che considera adatti. La seconda notizia è che Wikipedia è considerata parte dei siti il cui link può essere eliminato in nome del diritto all’oblio. Le decisioni in materia sono tutte prese da piattaforme private che fanno le regole per la vita delle persone nell’epoca di internet.

Attraverso internet.org, Facebook dunque offre connessione gratuita non a internet ma a una sua selezione di internet (Sole). Evgeny Morozov invita a riflettere su questa interpretazione pubblica della strategia molto privata di Facebook e tenta di smascherarne l’intento. Sta di fatto che Facebook è convinta che la sua idea sia corretta dal punto di vista pubblico e che porti valore alle popolazioni che non si possono permettere l’accesso pieno a internet.

Intanto, il Guardian fa sapere che un link a Wikipedia potrebbe essere eliminato da Google nel quadro di un’operazione di applicazione del diritto all’oblio: la Corte Ue ha imposto a Google di occuparsi delle esigenze di chi chiede l’applicazione di quel diritto e la società americana tenta di interpretare l’obbligo a modo suo. Google si è dotata di un gruppo di consiglieri indipendenti per far fronte a questo obbligo e Jimmy Wales di Wikipedia ne fa parte. Wales è ipercontrario all’eliminazione del link a Wikipedia da Google perché sostiene che l’informazione contenuta nell’enciclopedia è ottenuta legalmente e scritta accuratamente. Lo stesso si può pensare, peraltro, dell’informazione prodotta da molti giornali. Del resto la ratio dell’eliminazione dei link in nome del diritto all’oblio non è quella di censurare l’informazione ma quella di correggere l’immagine distorta che di una persona ricercata su Google può emergere dalla concentrazione di link negativi sulla prima pagina restituita dal motore di ricerca: quei link possono creare un’identità digitale distorta per una persona che ha avuto un guaio in passato e che lo ha superato, perché i link si concentrano sul guaio e non sulla sua soluzione. Ma Wales è convinto che lo spirito enciclopedico di Wikipedia non dovrebbe essere coinvolto da questa questione. Se Wikipedia è costruita per dare una storia equilibrata delle vicende personali di chi ne merita una voce, pensa Wales, non dovrebbe essere parte delle informazioni che vanno nascoste applicando il diritto all’oblio. Un’interpretazione del ruolo pubblico e super partes di Wikipedia che merita ascolto: ma che ogni singolo giornale o blog ben fatto potrebbe dichiarare applicabile anche al suo servizio. Non è questo il punto: il punto è che Wikipedia si è organizzata come un servizio pubblico, o almeno come bene comune. In questo, forse, c’è la differenza.

I grandi protagonisti della rete sono coinvolti nella strutturazione delle grandi decisioni sulla vita delle persone che usano la rete. Lo sono a livello pratico e lo sono a livello normativo. I termini e le condizioni di utilizzo dei loro servizi sono talmente indiscutibili e ignorati dagli utenti – a fronte dei vantaggi che le piattaforme offrono – da essere di fatto “leggi” imposte in modo relativamente arbitrario dai privati cittadini che le governano. Si adattano alle leggi nazionali e internazionali, ci mancherebbe. Ma le usano come meglio ritengono, giocando tra l’altro sulle differenze tra i diversi sistemi legislativi. E delle differenze si avvantaggiano, spesso, come avviene per esempio in modo evidente per quanto riguarda il fisco.

Se i governi e i parlamenti fossero capaci di dotarsi di una comprensione adeguata di internet e di una policy conseguente, se sapessero e potessero accordarsi per imporre un punto di vista democratico a un livello internazionale ed efficiente simile a quello nel quale si muovono le piattaforme, allora ci sarebbe da sperare nel loro intervento per rendere meno arbitrario il sistema normativo che di fatto – attraverso le piattaforme private – governa internet. Per esempio potrebbero dichiarare che le piattaforme usate da tutti possono essere considerate delle utility a forte valore pubblico e come tali devono comportarsi a vantaggio del pubblico prima che dei loro azionisti: e il pubblico apprezzerebbe, forse. Il problema è che non c’è molta fiducia in giro sulla capacità dei sistemi politici di generare norme efficaci e giuste che riguardano la rete.

Siamo nella situazione prevista da Lawrence Lessig nel suo Code. Le leggi le fa il software. La sfiducia nella politica impedisce di ritenere possibile e sensato un intervento democratico.

Che fare? Una Carta dei diritti non è fatta per regolare i cittadini: è fatta per regolare le istituzioni. Una Carta dei diritti internet non è un insieme di regole che le istituzioni impongono ai cittadini: è un insieme di regole che i cittadini impongono alle istituzioni per difendersi dalle loro decisioni arbitrarie, per dare linee guida alle istituzioni in modo che le loro decisioni siano prima di tutto rispettose dei diritti dei cittadini.

Chi sono queste istituzioni? I governi e i parlamenti, ovviamente. Ma non solo.

Nicholas Negroponte, incontrato ancora una volta all’epoca in cui giocava con la balzana campagna di marketing di un editore americano che chiedeva di assegnare a internet il premio Nobel per la pace, ebbe un’intuizione, come spesso gli succede: «Le grandi piattaforme e in grandi siti globali, come Google, Facebook, Wikipedia, vanno considerate come “istituzioni”». Perché? Perché fanno le regole della convivenza e sono i punti di riferimento stabili nell’organizzazione politica, sociale e culturale della vita in rete.

Una Carta dei diritti deve arrivare a regolare le istituzioni in modo che quando scrivono le leggi e il codice che regola la vita di chi usa delle persone all’epoca di internet rispettino i diritti umani, rispettino l’equilibrio tra i diversi interessi, rispettino la libertà di innovare garantita dalla neutralità della rete. Il copyright non può prevaricare il pubblico dominio. La privacy e la libertà di espressione non possono essere normate in modo che appaiano come interessi contrapposti. L’accesso non può essere garantito a scapito della neutralità. E ogni argomento che la legge normale già regola non deve essere sottoposto a leggi speciali per internet. Imho.

Le notizie degli ultimi giorni dimostrano che le piattaforme stanno facendo leggi e politica. Stanno scegliendo per tutti. E poiché offrono un servizio tanto efficiente, le persone accettano le leggi. Anche se non emergono da un processo democratico. Si può far meglio. Probabilmente partendo da un servizio pubblico altrettanto efficiente. E proseguendo con una forte azione di acculturazione internettiana del ceto politico. Con l’umiltà richiesta dalla grandezza del compito. Senza fuffa. Senza tifoseria acritica. Senza promozione esagerata. Ma con il forte e ragionevole ottimismo di chi sa che il futuro non è fatto da chi la spara più grossa ma da chi lavora per costruirlo. Questo è il senso del pubblico.

Vedi anche:
Il codice è codice
Chiose
Carta dei diritti all’epoca di internet

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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