Come cambia il ruolo dell’intellettuale in un contesto culturale in rapida evoluzione? Questo post è scritto nell’intento di condividere qualche riflessione nata anche da esperienze personali. Ma sarebbe fantastico poter contare sul contributo dei commentatori. Naturalmente ciascuno può riconoscere come il proprio vissuto sia intercettato da queste questioni. Eccone alcune:
1. Il senso del lavoro intellettuale cambia in un contesto nel quale le istituzioni culturali sono assediate e spiazzate dalle nuove forme della dinamica culturale, accelerate e ridefinite dalla rete?
2. Continua ad esistere una distinzione significativa tra il lavoro degli intellettuali e qualunque lavoro nell’economia della conoscenza?
3. Ogni forma di finanziamento del lavoro intellettuale può avere conseguenze sulla qualità del suo risultato. Come si traccia il confine tra l’indipendenza di giudizio dell’intellettuale e la logica del finanziamento del suo lavoro?
4. Ci sono casi in cui il potere politico chiede agli intellettuali un contributo. Come si traccia il confine tra l’indipendenza di giudizio dell’intellettuale e l’attrazione esercitata sulle loro idee dagli interessi del potere politico?
5. Esiste ancora un senso nell’idea di “gesto politico” di un intellettuale?
Ecco qualche ipotesi di risposta.
1. Il senso del lavoro intellettuale cambia in un contesto nel quale le istituzioni culturali sono assediate e spiazzate dalle nuove forme della dinamica culturale, accelerate e ridefinite dalla rete?
Il dizionario Treccani è forse il punto di partenza per definire quello che non è più l’intellettuale: «Riferito a persona, colto, amante degli studî e del sapere, che ha il gusto del bello e dell’arte, o che si dedica attivamente alla produzione letteraria e artistica». Innanzitutto, questa idea “umanistica” è superata dalla “terza cultura” della quale siamo pervasi, nella quale la dinamica del sapere e della ricerca è generata da un insieme di percorsi che vanno dall’arte alla scienza, dalla pratica della vita quotidiana alla tecnologia che la accelera. In secondo luogo, questo intellettuale-treccani non presenta nella sua costituzione definitoria il problema di mantenersi, come se vivesse all’epoca del mecenatismo o dell’aristocrazia, il che è chiaramente superato dagli eventi. In terzo luogo, il gusto del “bello” si mescola oggi con la necessità di partecipare alla costruzione del “giusto”, di favorire l’emergere del “vero”, di liberare in sé stessi e negli altri la creatività, e così via. Ma una radice definitoria rimane: l’intellettuale è uno spirito indipendente, altrimenti non riesce a portare il suo senso critico nella lettura della realtà. Le novità emerse nel ruolo dell’intellettuale – che deve lavorare, che si deve “sporcare le mani” – non annullano la necessità che egli sia condotto da “amore del sapere”, da “gusto”, che sia spinto insomma da dinamiche culturali non definite dai suoi interessi economici o politici.
2. Continua ad esistere una distinzione significativa tra il lavoro degli intellettuali e qualunque lavoro nell’economia della conoscenza?
Nell’epoca della conoscenza il valore si concentra sull’immateriale: i prodotti hanno un costo definito dalla produttività dei macchinari, dell’organizzazione, delle persone; ma hanno un prezzo definito dal loro contenuto immateriale, generato dalla ricerca, dall’informazione, dall’immagine, dal design e così via. Questo significa che il lavoro intellettuale si estende oltre i confini delle istituzioni culturali del passato e entra in pieno in altre organizzazioni produttive che vogliono generare valore. Ma esiste una distinzione tra l’intellettuale che lavora per una multinazionale e l’intellettuale che lavora per un’università? Se a caratterizzare il suo lavoro c’è soprattutto il senso critico e l’indipendenza di giudizio la risposta è no. Certo, occorre che l’organizzazione che impiega intellettuali sia consapevole del fatto che essi portano valore solo se sono indipendenti e critici. E soprattutto occorre che gli intellettuali siano consapevoli della loro “missione” costitutiva critica, essendo disponibili al conflitto e alla gestione delle conseguenze della loro indipendenza culturale. La pratica della diplomazia in questi confilitti non è da escludere. Ma il compromesso può arrivare solo fino a un punto che non intacca la loro indipendenza di giudizio. IL che significa che il metodo della generazione di sapere diventa il centro organizzativo della loro azione: se è riconosciuto il metodo, diventa riconosciuto anche il suo risultato.
3. Ogni forma di finanziamento del lavoro intellettuale può avere conseguenze sulla qualità del suo risultato. Come si traccia il confine tra l’indipendenza di giudizio dell’intellettuale e la logica del finanziamento del suo lavoro?
Appunto. L’intellettuale ha bisogno di costruire i progetti che verranno finanziati e che lo manterranno. Non bastano le difese erette dalle istituzioni culturali a soddisfare la quantità crescente di intellettuali della quale c’è bisogno nell’epoca della conoscenza. Il metodo di lavoro dell’intellettuale, fattuale, empirico, aperto, criticamente indipendente, capace di teorizzazione, verifica, sperimentazione, è il nuovo baluardo della sua indipendenza: non è un muro che lo separa dagli altri, è una rete di relazioni e valutazioni perr-to-peer, è una condivisione di percorsi non necessariamente definiti da linee disciplinari. La narrazione del metodo, la sua incarnazione in piattaforme culturali, la sua comunicazione, costituiscono i modi attraverso i quali il metodo della ricerca intellettuale si diffonde e cerca consenso. La prova dell’indipendenza intellettuale sta nei suoi risultati in termini di generazione e comunicazione di idee. Il pregiudizio secondo il quale l’intellettuale diventa interessato e perde indipendenza se è finanziato da un’organizzazione dotata di un’agenda è, appunto, un pregidizio: viene abbattuto se si lavora sul metodo; se il metodo non è espresso e affermato esplicitamente prevarrà il pregiudizio.
4. Ci sono casi in cui il potere politico chiede agli intellettuali un contributo. Come si traccia il confine tra l’indipendenza di giudizio dell’intellettuale e l’attrazione esercitata sulle loro idee dagli interessi del potere politico?
A questa domanda verrebbe da ispondere in modo simile a quello che si diceva sopra per quanto riguarda il finanziamento del lavoro intellettuale. Vale il risultato. E il risultato si valuta in base al metodo di ricerca. E la difesa dell’indipendenza di giudizio dell’intellettuale si valuta in base al suo coraggio nell’esprimersi e alla sua creatività nel generare idee adatte ad accelerare l’evoluzione culturale e l’adattamento sociale al nuovo contesto storico. Forse, però, data la sottigliezza della politica, in questo caso oltre all’epistemologia entra in gioco l’etica. Che è forse collegata a trasparenza di intenti, azioni ed espressioni, in aperto confronto con gli altri.
5. Esiste ancora un senso nell’idea di “gesto politico” di un intellettuale?
Come risponde il metodo e l’etica intellettuale a questa domanda? Vediamo. Se l’intellettuale fa un lavoro indipendente e critico ha un senso. Altrimenti non ce l’ha. Nel momento in cui cambia statuto e comincia a fare gesti politici può essere costretto a diventare un politico a sua volta. Fino a che non lo è, i politici non hanno a cuore i gesti politici degli intellettuali, perché non li vedono come concorrenti. Se vogliono fare politica, gli intellettuali possono diventare politici e a quel punto gli altri politici ne terranno conto. Ma fino a che restano intellettuali dicono quello che pensano. I politici che chiamano gli intellettuali a fare gli esperti non sono obbligati ad ascoltarli. Gli intellettuali che non sono ascoltati dai politici che li hanno chiamati come esperti sono inutili e possono restare o andarsene nell’indifferenza generale.
Bellissimo articolo che condivido in tutto
Qualche riflessione sparsa.
(1) Il problema non è tanto l’indipendenza che l’intellettuale perde percependo una ricompensa. Il grave problema è il fenomeno di “idolatria” (si, lo ammetto, è una parola forte) tra quanti (potremmo definirli seguaci per non “ridurre tutto alla Rete” parlando di follower) cercano di guadagnare punti e consensi astenendosi dal criticare il lavoro dell’intellettuale. Sono pericolose, cioè, le dinamiche del tipo “l’ha detto tizio, quindi non lo critico!”. Ognuno cerchi il suo personale campo di applicazione; io ne avrei almeno un paio.
(2) In questi giorni ho letto e riletto il libricino di Hessel e Morin (Il cammino della speranza –> http://www.ibs.it/code/9788861902824/hessel-stephane/cammino-della-speranza.html ) e sto terminando il saggio di Dirac (La bellezza come metodo –> http://www.ibs.it/code/9788897404187/dirac-paul-a-/bellezza-come-metodo.html ): il lavoro intellettuale deve tornare a mescolare il punto di vista scientifico e quello umanistico tendendo al bello come fine ultimo (che solo apparentemente potrà sembrare “fine a se stesso”). Non credo sia semplice ma così penso si potranno avere nuove prospettive e tornare a dare senso a parole come “innovazione”, “startup” e – perché no – spendere meglio i fondi disponibili.
Parlando del ruolo dell’intellettuale nella società italiana è impossibile non notare le intersecazioni sempre più complesse ma evidenti tra il portato storico, ad esempio la Controriforma e la storica ostilità del popolo italiano alla lettura e alla formazione di una coscienza propria e non eterodiretta, e le trasformazioni globali della politica, e dell’esistenza, dovute al consumismo, alla società spettacolarizzata e in ultimo dalla Rete. Il risultato, secondo me, è una spaventosa dittatura basata sul “piano delle equivalenze”: tutto è uguale, tutto è parimenti valido e quindi di nessun valore, il parere di uno scienziato e quello di un passante, il report di un centro studi e i complotti raccontati su un blog. Questo e soprattutto questo rende difficile il lavoro intellettuale. Le persone che partecipano in forma ingenua alle discussioni della Rete credono che la Rete sia per natura egualitaria e orizzontale, ma in realtà è composta di nodi, di rapporti molto discontinui di potere, insomma, nutre le solite illusioni di neutralità che sono la giustificazione – in realtà reazionaria – di chi dice di pensare in modo libertario-progressista “niente per noi, tutto per tutti”, ma in realtà parte dal perimetro confinato del proprio ego e diventa “tutto per chi la pensa come me e niente per gli altri”, perché tutta la retorica del basso-alto, della partecipazione senza adeguate misure è una formidabile deresponsabilizzazione: si distrugge il senso di comunità, si considera perdita di tempo valutare le visioni alternative e si riduce tutto al conteggio. Come sempre, l’Italia è l’avanguardia del nuovo peggio e mai del possibile meglio.
Tuttavia, restano motivi positivi e di fiducia, come considerato da De Biase. Soprattutto se si è chiari in metodi e aspettative.
Luca, dovresti esplicitare meglio cosa intendi per ‘metodo’ sennò è difficile risponderti. Un’ osservazione marginale: condivido molte cose che dici ma secondo me devono restare aperti degli spazi per la ricerca ‘non finalizzata’ (economicamente). La difficoltà è di capire come, e in che modo. Personalmente sono preoccupato?spaventato? anche da un altro fenomeno: il dilagare sul web (es facebook) di un qualunquismo acefalo che si rifiuta di fare i conti con la realtà (economica, politica) la complessità e gli orizzonti temporeli, e che produce però fenomeni e forze politiche e sociali reali. Seguo (anche per esercizio di autoverifica) alcune persone e blog di questo tipo cercando di riportare rabbie e qualunquismi ai fatti, ma le conclusioni sono disperanti.
“Ma una radice definitoria rimane: l’intellettuale è uno spirito indipendente”
Guarda che devi aver letto male: il signor Treccani non parla di indipendenza, quella te la sei aggiunta tu a gratis. E sì, non pone il problema di mantenersi, ma che doveva scrivere? “Ama le arti, ma deve mangiare il pane sa, signora mia”? Almeno non dicendolo si è evitato una tirade sul fatto che chi lavora per un’azienda è indipendente, ma forse no, insomma sì, diciamo che dipende.
In ogni caso è dura bagnargli il naso al signor Treccani, che quando meno te l’aspetti taglia corto: “Intellettuale ha spesso valore iron. o limitativo, per indicare ostentazione di gusti e superiorità, non di rado solo immaginaria”. Dunque: lavoro immateriale, cognitivo, sì, ma bastano questi di termini credo. D’altronde il maggior designer mai nato è stato quel Robinson che nel 1887 ha inventato il logo della Coca Cola. Ed era un ragioniere (indipendente, quello sì, era il proprietario).
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