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Attenzione a Russo

Ringrazio Massimo Russo per il tempo e la competenza che ha dedicato al mio piccolo paper sull’ecologia dell’attenzione. E tento di contribuire con alcune ulteriori considerazioni.

Russo teme che le promesse della rete possano essere tradite nei prossimi anni. 

E come si può negare una simile possibilità? Il timore che le promesse della rete possano essere tradite è condiviso da molti. Le condizioni che garantiscono un equilibrato sviluppo dell’ecosistema della conoscenza che si è sviluppato nell’ambiente internettiano possono essere inquinate, consumate, rovinate da molti cambiamenti possibili.

Il pericolo può arrivare dall’esterno: una possibile politica orientata all’abolizione della net neutrality, leggi che vietino la libertà di espressione online, lobby favorevoli a media diversi e più tradizionali… Ma Massimo Russo si domanda se non ci sia anche nello stesso ecosistema della conoscenza, per come si sta sviluppando, una potenziale contraddizione che lo condurrà fatalmente al collasso.

Il problema è, mi pare: il percorso di sviluppo del medium delle persone che cresce su internet è sostenibile?

Russo cita volentieri lunghi passi del mio paper che contengono chiaramente la consapevolezza dei rischi che l’ecosistema corre nel caso che i parassiti superino le specie che vivono in modo simbiotico.

Ma Russo sembra temere che questo sia destinato ad avvenire per quello che immagina sia il fatale conflitto tra le piattaforme (da Google alle telco) e i produttori di contenuti. Russo coltiva tre perplessità. Come può crescere in modo equilibrato un ecosistema nel quale esistono fortissime asimmetrie nei rapporti di forza? Come possono convivere operatori tanto diversi come quelli che si trovano online? Come fanno le specie deboli ad accaparrarsi le risorse vitali per prosperare?

Penso che l’idea che le piattaforme siano destinate per una loro dinamica interna a volersi mangiare i produttori di contenuti o a ridurli a uno stato di commodity proponga uno scenario possibile ma non attuale e neppure molto probabile.

Le piattaforme hanno interessi e potere molto diversi da quelli dei generatori di senso che vivono in rete, dice mi pare Russo. E questo è innegabile. Ma il punto è capire se le piattaforme possono vivere senza i generatori di senso (oppure mangiandoseli). Russo dice che le piattaforme non hanno interesse a veder crescere contenuti di qualità e hanno il potere di omogeneizzarli dal punto di vista qualitativo. Ma è vero? Il potere di Google è immenso, ma finora è stato esercitato contro le piattaforme concorrenti (concessionarie di pubblicità, altri motori di ricerca, altre società di software…) più che contro i produttori di contenuti. E questo sembra indicare che finora Google è consapevole che la sua forza discende dalla grande disponibilità di contenuti interessanti. Non ha un incentivo interiore a moltiplicarli o a governarli verso la qualità, ma non ha neppure un incentivo a ridurli o a peggiorarli. Fino a che si comporta così è simbiotico. E’ stato accusato di essere parassitario in qualche caso da alcuni giornali (in Belgio per esempio per Google News) ma sta di fatto che un buon terzo dei visitatori dei giornali online arriva da Google. I parassiti casomai sono altri. Come quelli che sfruttano l’algoritmo di Google per salire nel ranking senza aggiungere contenuti originali ma solo riproponendo automaticamente contenuti altrui. Cosa che per esempio Tumblr ha deciso di combattere. Insomma: i grandi e potenti possono sempre cambiare atteggiamento, ma per ora sono stati attenti a non penalizzare i contenuti perché la loro crescita è dipesa da coloro che li producono. E se poi dovessero cambiare, siamo certi che non ci sarebbero alternative? Il timore di Facebook quando gli utenti si arrabbiano come nei giornl scorsi è di perderli a favore di qualche altra piattaforma. Certo, non si cambia velocemente piattaforma, ma finora nessuna piattaforma internettiana ha raggiunto il potere di impedire agli utenti di abbandonarla a favore di qualche concorrente. (Ricordiamoci – benché visti i risultati tendiamo a dimenticarlo – che poi esistono anche le autorità antitrust….).

In realtà, i conflitti latenti nel mondo dei contenuti non sono quelli che – come dice Russo – opporrebbero le piattaforme ai produttori: i conflitti più importanti sono quelli che oppongono certi produttori di contenuti nati e cresciuti fuori dalla rete al loro pubblico quando va in rete. Le lobby delle major – soprattutto musicali – hanno combattuto duramente il loro pubblico in rete tentando di difendere le vecchie forme di fruizione dei contenuti. Sono queste lobby che possono indurre le piattaforme a controllare gli utenti, limitando la network neutrality: ma finora le piattaforme hanno più o meno resistito, anche se hanno dovuto fare qualche concessione (come nel caso di YouTube). Altri nemici della rete possono arrivare da certe ideologie politiche o da certi interessi televisivi, cinematografici, pubblicitari. Ma finora, bisogna pur ammetterlo, queste forze non sono riuscite a sconfiggere la rete.

Comunque, fin qui si tratta di valutazioni sui fatti e sulle loro conseguenze, sugli scenari e le loro probabilità. Tutto discutibile. Il punto sul quale vorrei davvero cercare un po’ più di chiarezza è l’ultimo. 

Dice Russo: «L’attenzione e la sua principale forma di monetizzazione, la pubblicità, sono una risorsa scarsa. Tutti gli attori del sistema ne hanno bisogno per sopravvivere, non esistendo al momento significativi modelli di business alternativi. Chi, se non il più forte, ha secondo voi le maggiori chance di sopravvivere?». 

Ebbene. La gran parte dei produttori di contenuti, la maggior parte delle persone attive in rete, quelle che sono interessate essenzialmente a esprimersi e a connettersi ad altre persone, non lo fanno per guadagnare soldi: sviluppano più spesso, casomai, un egoismo altruista per il quale donano un po’ di ciò che sono o di ciò che sanno in cambio di un riconoscimento da parte di altre persone. In generale la maggior parte delle persone stanno in rete per coltivare relazioni con altre persone. Non per guadagnare. In questo caso, l’attenzione è dedicata alla costruzione di relazioni, all’espressione di sé, all’ascolto degli altri. Non si genera – nella maggior parte dei casi – per venderla alla pubblicità.

Inoltre, non è necessariamente vero che gli inserzionisti pubblicitari cerchino proprio l’attenzione. Anzi: chi vuole sostenere un sistema di comportamenti nei consumatori potrebbe, argomentavo nel paper, puntare sulla disattenzione addirittura più che sull’attenzione. 

Considerando l’insieme del sistema dei media tradizionali, della pubblicità, delle major, può essere che la dinamica monetariamente interessante non sia quella dell’attenzione ma quella della disattenzione. Molte entità che vogliono imporre il loro punto di vista sanno che le persone distratte hanno comportamenti automatici quando sono sottoposte a un martellamento di messaggi semplici e ripetitivi. 

Nella rete, queste cose possono avere un effetto inquinante. E produrre uno sviluppo non sostenibile. Mentre è proprio la dinamica dell’attenzione, quella che si dedica alle altre persone, che può ripulire la rete da quelle forme inquinanti.

Casomai, ci si può chiedere se le piccole imprese di contenuti possano svilupparsi in rete, competendo con i grandi per le risorse pubblicitarie. E a questa domanda la risposta è ovviamente che è difficile. Ma meno difficile probabilmente in rete che su altri media.

Il problema dunque non è quello di capire se la rete internet sia intrinsecamente capace di crescere in modo armonico ed equilibrato: è capace di difendersi ma non è immune da rischi. Il problema è che la rete deve crescere abbastanza da contrapporsi ad altri sistemi mediatici che non hanno le stesse caratteristiche e nei quali gli squali sono molto più feroci. 

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  • Alcune domande a De Biase (e non solo) su simbiosi e attenzione

    Caro De Biase,
    la tua reiterazione stilistica sul cognome mi fa capire che preferisci mantenere le distanze, e dunque volentieri faccio un passo indietro.
    Un  maestro una volta mi ha detto che nella migliore tradizione rabbinica il modo più utile per…

  • Sul pericolo di blocchi alla rete non vedo grandi problemi e per tre motivi:
    1) la rete è di fatto gestita dagli USA, da aziende USA, con macchine USA o costruite su brevetti USA, e non credo che gli USA, con la crisi che lievita, si possano permettere diminuzioni di fonti importanti di redditività;
    2) il Primo Emendamento protegge la libertà di parola e ci sono sentenze che proteggono l’anonimato in rete e fuori della rete; siccome la rete è stata concepita per funzionare sempre, utilizzando le rimanenti tratte operative, ci sarà sempre un modo di connettersi;
    3) oggi la rete è basata su un’infrastruttura il cui mezzo trasmissivo è proprietà di qualcuno, quindi ricattabile (sopratutto oggi per via finanziaria) e controllabile, ma dopo domani avremo reti mesh, via wireless, che saranno impossibili da controllare da parte di un governo;
    La costituzione di una rete non più governata, diretta e influenzata (anche culturalmente) da entità centrali, porta alla dissoluzione dei classici meccanismi di passaggio delle informazioni dal centro verso la periferia; abbiamo già oggi molti centri, molto più piccoli, che trasferiscono notizie dal loro centro alla loro periferia, con occasionali trasferimenti al di fuori, solo e se la notizia è di interesse in altri gruppi.
    In questo scenario gli altri media vedranno ridursi gli spazi man mano che il tempo delle persone (risorsa non comprimibile) sarà sempre più parcelliazzato su attività diversificate e, sopratutto, paritarie; il social networking ne è l’esempio al momento più avanzato, che trova nel SN su mobile il più grosso pericolo per i media tradizionali: se posso interagire con le mie comunità tramite un mobile mentre sono in tram, è ovvio che non leggerò la free press, oppure, letto un titolo, andrò a commentarlo su FB o su Twitter senza dedicare quell’attenzione alla lettura che ha come corollario un occhio anche all’inserzione.
    Cmq, il futuro, ancora una volta, è nel grembo di Giove, ed è difficile immaginare dove ci porterà l’innovazione che, in tempi di crisi, diventerà più urgente (per guadagnare quote di mercato a scapito di chi deve scomparire) e sarà perciò ancora più pervasiva.
    Immaginavi nel 1994 di poter avere la posta elettronica su un mobile al costo di 5 euro/mese?
    5 euro al mese quando una pizza ne costa sette! E siamo solo all’inizio della guerra dei prezzi.
    Se poi un iPhone o similiare scendesse a 100 euro, il futuro degli altri media è già determinabile adesso: sono aspiranti cadaveri!

  • Ho ancora l’idea che le “cose” debbano avere un valore d’uso. In questo caso la capacità di produrre conoscenza utile, in qualche modo. Dipende da chi partecipa, ma dipende anche dal media, ovviamente. L’articolo di Nicola Carr “Google ci rende stupidi?” forse a molti internettiani non è piaciuto, ma credo sia proprio nei meccanismi interni alla fruizione della rete, e alle modalità di relazione che rende possibili, il nodo della questione. Forse non l’unico, ma uno dei più importanti.
    E’ una questione complessa, e non ho idee in alcun modo definitive. Però, in anni di lavoro su internet e sulle community non sono riuscito a vedere molto di più che la capacità di produrre semilavorati di conoscenza, tranne che in case ancora minoritari, come in questo blog. Per andare oltre il semilavorato servono grande competenza e grande energia. Condizioni non sempre facilmente realizzabili. Questo potrebbe essere un pericolo per lo sviluppo della rete.

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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