Ethan Zuckerman gives us a vastly informative post about the advocacy organization Invisible Children and their video called “Kony 2012“. The video is a call for action against Joseph Kony, who they say is terrorizing four countries in Africa using children as soldiers. The video has conquered enormous attention online and has won a huge success as a viral piece of advocacy content. Ethan, co-founder of Global Voices and leader at the Civic Media Center at Mit-MediaLab, explains why the video gives an oversimplified view of the matter, underlines how well crafted the video is, shows how the narrative should be improved while admitting that a more fact-based and a less emotion-based narrative would be much harder to get to go viral. At the end, Ethan asks a quite provocative question:
«I’m starting to wonder if this is a fundamental limit to attention-based advocacy. If we need simple narratives so people can amplify and spread them, are we forced to engage only with the simplest of problems? Or to propose only the simplest of solutions?
As someone who believes that the ability to create and share media is an important form of power, the Invisible Children story presents a difficult paradox. If we want people to pay attention to the issues we care about, do we need to oversimplify them? And if we do, do our simplistic framings do more unintentional harm than intentional good? Or is the wave of pushback against this campaign from Invisible Children evidence that we’re learning to read and write complex narratives online, and that a college student with doubts about a campaign’s value and validity can find an audience? Will Invisible Children’s campaign continue unchanged, or will it engage with critics and design a more complex and nuanced response.
That’s a story worth watching.»
There are lots of other examples. And some commenters to Ethan’s post give even more information about the matter.
Activism is always somehow manipulative. But Seth Finkelstein, anti-censorship activist and programmer, wants to twist the matter in a discussion about the internet:
«… it seems little late to be discovering that the Internet is really good at spreading appealing stories without regard to truth, and manipulators with money can exploit this for their agendas.»
Evgeny Morozov, anti-cyberutopian and anti-technocentric thinker, didn’t forget to note this comment while twittering… And as a matter of fact, the whole question of the internet being a “good” or a “bad” medium has been covered since quite some time, such as in a book called “edeologia” (sort of electronic ideology) which my publisher wanted me to write in 2003.
Manipulatory strategies and disinformation have been there for a long time before the internet appeared. Both the pro-power and the anti-power political action is often based on disinformation strategies. Italians know how television can be used to manipulate information. And the Economist has recently published and article about authoritarian regimes using television to steal elections. To state that the internet is particularly good at disinformation is another way to oversimplify things.
What we learn from this story, of course, is that the internet is not an automatic liberation tool. And we knew that already, didn’t we? Ethan is not talking much about that: in my opinion, he is talking about the possibility to liberate ourselves from emotion-only-based activism.
Is that a real possibility? Activists can always say that power uses any kind of tools for keep itself where it is. And they could add that activism needs to respond with the same token. Machiavelli could agree, perhaps, by saying that «ends justify the means». Gandhi would not agree, though. He would say: «The end is in the means as the tree is in the seed».
Daniel Kahneman shows that people usually decide on an intuition-based process, while reason-based decision making is rare. Thus, emotion-based information can have more impact on action than more rational-based information. But is that the end of the story?
If we lived in a world made only by small pieces of information surrounding us in a random movement, we would choose more and more only on emotions. We would move in small pieces of action, with no long term view about where to go. But that is not the real story. There is more in culture. There is framing, there is interpretation, there is ethics and there is strategy. These come also from a sort of sedimentation of rational thoughts and controlled information that happen to generate a sort of progress in human knowledge. Maybe, a critical view on single pieces of disinformation doesn’t have a short term impact, but it is clear that in the long term it works (or it can work): methodological instances educate, they generate the need for demonstrations, they contribute to a form of media literacy that helps people to see what is information and what is disinformation. Patience is not weakness: active, critical patience it is strenght.
Is long term a sum of short terms? No. But education and culture, history and epistemology, which work in the long run, must be a major priority for any real innovator.
The internet is a very complex contest for information making. It needs continuous improvement. With the “filter bubble” and the “net delusion” debates, we have understood that some more innovation needs to be done to improve its structures, platforms and priorities, to contribute to the generation of better educational consequences of the internet. Imho.
Ci sono tante variabii, tante situazioni da tenere presente. Quando stavo in Africa spesso mi chiedevo come potevo raccontare l’Africa e la sua gente. Meglio il sorriso di un bambino o la sua pancia gonfia perchè piena di vermi? Ho sempre scelto il sorriso perchè anche un bambino con la pancia gonfia trovava un secondo nella sua enorme sofferenza per sorriderti. E quando in Congo un ragazzetto ti viene incontro senza gambe su un asse di legno marcia con sotto 4 rotelle e scopri che le gambe le ha perse su una mina antiuomo messa dai belgi o dai francesi per difendere le loro miniere di coltan che fai? Lo riprendi sulla sua asse o lo intervisti e gli chiedi che è successo, che si aspetta, se ce l’ha con noi occidentali, che futuro vorrebbe? Ho sempre scelto la via meno emozionale ma con il tempo mi sono reso conto che sbagliavo. Perchè li non hanno tempo e io non potevo permettermi di avere pazienza, ogni momento della mia pazienza era una pancia gonfia in più. È cosi lontana quella gente, quella cultura da noi che per iniziare a rendere consapevoli le persone avrei dovuto iniziare dalle riprese emozionali. Ne avrei colpiti di più e gli avrei fatto conoscere il problema. Un inizio di consapevolezza, un piccolo inizio. Ma c’era fretta di farlo.
Tante variabili, tante situazioni. Le distanze, la consapevolezza, la diversità culturale, il tempo; lì non potevo avere strategie, non c’era il tempo. In altri contesti si ma lì non avrei potuto proprio. E ho sbagliato.
Anche fare senza far sapere è importante. Il mondo si regge sulle azioni e sui comportamenti di coloro che dinteressatamente agiscono per il bene comune. Risvegliamo l’interesse sopito verso la concretezza dell’agire; più che di forti emozioni abbiamo bisogno di sane emozioni. Le persone come Michele esistono. Non si notano perchè sono impegnate ad agire!
Anche fare senza far sapere è importante. Il mondo si regge sulle azioni e sui comportamenti di coloro che dinteressatamente agiscono per il bene comune. Risvegliamo l’interesse sopito verso la concretezza dell’agire; più che di forti emozioni abbiamo bisogno di sane emozioni. Le persone come Michele esistono. Non si notano perchè sono impegnate ad agire!
Anche fare senza far sapere è importante. Il mondo si regge sulle azioni e sui comportamenti di coloro che dinteressatamente agiscono per il bene comune. Risvegliamo l’interesse sopito verso la concretezza dell’agire; più che di forti emozioni abbiamo bisogno di sane emozioni. Le persone come Michele esistono. Non si notano perchè sono impegnate ad agire!
Anche fare senza far sapere è importante. Il mondo si regge sulle azioni e sui comportamenti di coloro che dinteressatamente agiscono per il bene comune. Risvegliamo l’interesse sopito verso la concretezza dell’agire; più che di forti emozioni abbiamo bisogno di sane emozioni. Le persone come Michele esistono. Non si notano perchè sono impegnate ad agire!
Anche fare senza far sapere è importante. Il mondo si regge sulle azioni e sui comportamenti di coloro che dinteressatamente agiscono per il bene comune. Risvegliamo l’interesse sopito verso la concretezza dell’agire; più che di forti emozioni abbiamo bisogno di sane emozioni. Le persone come Michele esistono. Non si notano perchè sono impegnate ad agire!
Splendido saggio non solo sul video #Kony 2012, su Internet, sulla tecnologia nella comunicazione ma più in generale sui rischi della deriva emozionale. La statura dell’articolo si nota ancor meglio raffrontandolo con l’analogo articolo di John Naughton, sull’ Observer, http://www.guardian.co.uk/world/kony-2012 tecnicamente brillantissimo ma, quanto a profondità concettuale, assai più pallido. Perché la questione, come puntualizza perfettamente De Biase, è proprio l’attivismo e e più i generale la comunicazione basata solo sulle emozioni. Il video Kony diviene allora una sorta di test di Rorschach non solo e non tanto della nostra ingenuità/pigrizia morale quanto piuttosto della nostra capacità di percezione. Fino a che punto riusciamo e siamo disposti a cogliere correttamente le forme (i fatti, le connessioni logiche e razionali) e quanto invece ci lasciamo “impressionare” dai colori delle emozioni, a maggior ragione nei tempi sempre più frenetici di un clic? E ciò senza alcuna svalutazione delle emozioni, che sono anzi evoluzionisticamente chiamate a darci un primo rapido e fondamentale orientamento di fronte al nuovo stimolo. Orientamento che è però per lo stesso motivo impreciso e spesso fallace. Questa è la lezione di Freud, che ci ha rivelato gli istinti sotto il velo della morale, e di Kahneman che più recentemente ha svelato l’irrazionalità/emozionalità dell’apparentemente razionalissima economia. Più in generale si potrebbe dire il fragile terreno su cui poggia l’edificio della cultura. La soluzione non può ovviamente essere la ghettizzazione delle emozioni a favore di un’informazione razional-matematica quanto piuttosto la consapevolezza della nostra fragilità e della bias emotiva che è in noi soprattutto nella frenesia della rapidità. L’atteggiamento critico dunque, non però cinico, nei confronti tanto delle emozioni travestite da morale quanto di “magnifiche sorti e progressive”, scientiste o digitali che siano. Nella consapevolezza che la liberazione è prima di tutto interiore.