All’indomani delle elezioni politiche del 2013, con moltissima umiltà, ho scritto una lettera aperta a Beppe Grillo per proporgli una mossa spiazzante: proporre un programma politico in dieci punti molto concreti e dichiarare che il suo Movimento avrebbe votato per un governo che si impegnasse a realizzarli. Ovviamente, l’umiltà era ben riposta: infatti la proposta non è stata presa in considerazione.
Per questo devo ribadire la mia umiltà nel momento in cui mi viene in mente di scrivere una lettera analoga per il PD. Una umiltà tale da indurmi a prepararla con questi appunti.
In cinque anni, il PD è riuscito a raccogliere i voti parlamentari sufficienti a governare e i risultati sono stati relativamente positivi. L’economia è migliorata. La società non è stata stravolta dalle tensioni che si aggiravano per il paese. Poteva andare molto peggio di così. Eppure il rancore è aumentato. La frammentazione sociale si è accentuata. L’incomprensione per il ruolo degli altri è peggiorata. La mobilità sociale si è fermata. La polarizzazione tra chi ce la fa e chi fatica a stare a galla si è fatta sentire. Sicché non si è formato un consenso stabile intorno al PD: gli imprenditori e i lavoratori dipendenti, statali e privati, non hanno dimostrato lealtà nei confronti del PD, nonostante il piano Calenda e gli 80 euro. Hanno forse preferito le sirene della flat tax e la prospettiva del reddito minimo garantito per tutti. Oppure hanno deciso di accettare il frame della moralizzazione del ceto politico. Nessuno ha vinto, ma di certo il PD ha perso.
Ora il problema è che cosa il partito vuole ottenere per il futuro. Si vuole riconfezionare il PD per preparare una nuova offerta politica da presentare alle prossime elezioni o si vuole garantire che il governo del paese vada nella direzione auspicata dal PD e dai suoi elettori residui e potenziali?
Certo, capisco il dubbio politicante: visto che il paese non ha votato un partito che aveva ottenuto risultati positivi, non si vede perché cercare nuovi risutati positivi alleandosi con altri, col rischio di dare il merito a questi eventuali altri. Ma si fa politica nel PD solo per cercare risultati positivi per il paese, no? Ci sono altri motivi? E allora di conseguenza bisogna cercare la soluzione che provoca i maggiori vantaggi al paese.
La proposta è semplice. Fare una lista di provvedimenti molto concreti che possano essere utili per il paese e dichiarare la disponibilità a votare per il governo che si impegni a realizzarli. Non voglio elencarli: va oltre il limite della mia umiltà. Ma di certo deve comprendere il mantenimento dei conti pubblici in ordine, senza se e senza ma, la permanenza dell’Italia nell’euro, senza se e senza ma, una politica dell’immigrazione inclusiva e ferma, sulla scorta di quanto fatto recentemente, una semplificazione dei sistemi fiscali e degli aiuti per le frange povere della popolazione (in modo da andare incontro alle istanze degli avversari ma in una chiave razionale: in fondo gli aiuti ai poveri, ai giovani, al Sud e agli imprenditori che non vogliono pagare le tasse ci sono ma sono poco conosciuti oppure poco equi). Ripeto: non credo di poter minimamente fare io le proposte di policy, sto solo facendo una proposta di metodo.
Una volta realizzati i punti proposti e fissati nell’accordo si passerebbe a una diversa fase e si andrebbe di nuovo a votare, suppongo.
Scegliendo bene le policy, nei binari descritti, si arriverebbe a qualche risultato positivo per i cittadini, senza rischiare che un governo senza queste istanze produca policy negative e tali da esacerbare le tensioni sociali striscianti. Peggiorando tra l’altro le possibilità future del PD: in un paese ancora più arrabbiato, quel partito non migliorerebbe i suoi consensi.
Nei cinque anni passati c’è stata una mutazione antropologica nel PD. Il tessuto sociale e territoriale tradizionale che lo sosteneva è stato abbandonato, per essere sostituito dalla benevolenza di gruppi e individui che si sono dimostrati molto meno leali e costruttivi del previsto. E la pletora di avventizi del ceto dirigente degli anni scorsi si è dimostrata tanto esagerata nelle lodi quando cinica nel disimpegno. Passare a una policy per programmi e non per appartenenze potrebbe essere una soluzione adatta alla contemporaneità. Forse.
Nel frattempo si potrebbe preparare una strategia.
Guardando al futuro, il lavoro si concentrerà probabilmente in tre categorie: il lavoro che genera valore nell’economia della conoscenza (ricerca, design, manifattura innovativa, tecnologia, industrie creative, e così via); lavoro per la tenuta del tessuto sociale, al servizio delle categorie più deboli e soprattutto dei beni comuni ambientali, sociali e culturali; lavoro indipendente per servizi di mercato organizzati da piattaforme più o meno avanzate ma sostanzialmente legato alla professionalità e alla domanda del momento. Guardando a queste prospettive il PD potrebbe tentare di ricostituire una sorta di rappresentatività, intercettando i bisogni formativi, organizzativi, contrattuali e di prospettiva di queste nuove “categorie” di lavoratori. Il lavoro è la dimensione più sentita dell’economia e del futuro e il PD potrebbe pensare di essere il candidato ideale a occuparsene.
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