Oggi Facebook, Whatsapp e Instagram sono andate in blackout per un po’ di tempo e il titolo ha perso in borsa quasi il 6% del suo valore. Ieri era stato un giorno ancora più nero: la fonte dei file che hanno consentito al Wall Street Journal di realizzare un’inchiesta a puntate che inchioda Facebook a molte sue responsabilità ha rivelato la sua identità. Si chiama Frances Haugen, era product manager a Facebook (Wsj, Facebook Files)
Sicuramente non è perché ricordano l’esperienza di MySpace, piattaforma social che aveva raggiunto una qualche importanza prima di essere comprata dal gruppo News Corp e di essere superata da Facebook, con grande perdita di valore. Ma di certo quelli del Wall Street Journal, a loro volta comprati da News Corp, non ci vanno leggeri con le inchieste su Facebook. Raccontano di come una serie di ricerche scientifiche e testimonianze oculari dimostrino che Facebook può far male alla salute mentale di molti suoi utenti ma i suoi dirigenti, che ne sono informati, non fanno niente: per non perdere profitti.
Al New York Times non hanno nessuno specifico motivo di rivalsa contro Facebook. Ma le inchieste del giornale newyorkese sono altrettanto pesanti. Dal 2018, Sheera Frenkel e Cecilia Kang hanno pubblicato sul New York Times i risultati del loro lavoro di inchiesta. Nei successivi due anni hanno raccolto una quantità impressionante di materiale inedito. E ora escono anche in italiano con il libro “Facebook: l’inchiesta finale” (Einaudi 2021). La domanda che conduce il libro è pesante: Facebook è una specie di Frankenstein che è andato fuori dal controllo del creatore o uno strumento al servizio di un deliberato disegno di potere? Guardando gli occhi vagamente persi di Zuckerberg quando risponde a domande scomode al Congresso degli Stati Uniti o altrove si potrebbe pensare che sia vera la prima ipotesi. Ascoltando invece una voce critica come Shoshana Zuboff – autrice de “Il capitalismo della sorveglianza” (Luiss University Press 2019) – si ha l’impressione che Sandberg abbia lucidamente portato la stessa logica che aveva appreso a Google nel social network trasformandolo in una macchina per lo sfruttamento dei consumatori. (Nytimes, The ugly truth about Facebook)
I problemi di Facebook sono complessi come la realtà che si è creata intorno al grafo sociale che l’azienda ha ricostruito: dall’antitrust alla privacy, dall’elusione fiscale ai discorsi di odio, dalle fake news alla banalizzazione di qualsiasi cosa. Ma ultimamente cresce anche l’informazione sulla dipendenza che può produrre negli utenti e sulle derive depressive che può generare nei più deboli tra loro.
Nello stesso tempo, a Facebook scrollano le spalle e rilanciano. I Facebook Reality Labs sono centri di ricerca che servono a sviluppare, tra l’altro, una versione immersiva del social network, da usare con gli Oculus o un altro sistema per la realtà virtuale, allo scopo di creare un’esperienza di comunicazione ancora più coinvolgente. Facebook Horizon potrebbe essere una prima interpretazione di tutto questo. Non soltanto pagine da cliccare, ma interi ambienti costruiti al computer da esplorare per coltivare le proprie relazioni o scoprirne di nuove. L’obiettivo di business è, evidentemente, estrarre ancora più tempo e attenzione dalle riserve limitate ma importanti dei tre miliardi di utenti, da rivendere agli inserzionisti pubblicitari. Certo, la realtà virtuale è una fenice che da venticinque anni riesce a incuriosire molto più che a interessare, come dimostra il fatto che ci sono molte più persone l’hanno provata di quante la usino regolarmente. Ma probabilmente sta migliorando, come mostra il crescente utilizzo che viene fatto di questa tecnologia nei videogiochi immersivi e in certe attività di addestramento professionale: sicché l’investimento di Facebook non è necessariamente insensato.
Salvo che non è detto che gli utenti restino passivamente ancorati a quella piattaforma per sempre.
Ma sulla strada di Mark Zuckerberg e Sheryl Sandberg, responsabili rispettivamente della strategia tecnologica e aziendale del gigantesco sistema di comunicazione formato da Facebook, che ha comprato Instagram e Whatapp, si stanno allineando importanti forze di opposizione: le autorità antistrust di tutto l’Occidente, le aziende concorrenti come Apple che tentano di limitare la penetrazione degli occhiuti computer di Facebook negli affari dei loro clienti, i comportamenti delle persone più consapevoli che hanno compreso come i dati sulle loro vite servano a sostanziare l’offerta di Facebook agli inserzionisti pubblicitari. E le ragioni degli oppositori del potere di Zuckerberg e Sandberg trovano l’appoggio fattuale di una serie di indagini giornalistiche e scientifiche sempre più approfondite svolte sulla base delle informazioni che emergono dall’analisi quantitativa dei comportamenti degli utenti dei social network, dalle inchieste della magistratura, dalle ricerche di giornalisti che possono analizzare documenti e dichiarazioni che escono dall’azienda grazie a numerosissimi dipendenti e consulenti preoccupati per la piega che ha preso la vicenda di Facebook.
Mentre oggi Facebook e il resto erano giù, Jimmy Wales ha proposto a tutti di passare a Wiki Tribune, il social network che promette di non essere “tossico” (Wiki Tribune)
Intanto, su Twitter, Edward Snowden suggeriva di considerare che se tre infrastrutture rilevanti come Whatsapp, Instagram e Facebook vanno giù tutte insieme perché appartengono allo stesso proprietario, forse varrebbe la pena di dividerle con l’antitrust.
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