Ha-Joon Chang è un economista dello sviluppo molto ascoltato. E in una sua intervista su Truthout spiega come l’ideologia capitalista abbia generato distorsioni clamorose nella distribuzione della ricchezza e delle opportunità. Gli ultimi 40 anni di storia sono stati dominati da un pensiero economico che ha consentito a pochissime persone e aziende di accumulare risorse straordinarie mentre il resto della popolazione doveva ingoiare austerità e rigore, stagnazione dei salari e riduzione del perimetro d’azione del welfare pubblico. Certo, la globalizzazione ha introdotto nella classe media mondiale centinaia di milioni di persone che prima vivevano a livelli economici di poco superiori alla soglia della povertà. Ma il fenomeno della polarizzazione delle risorse è avvenuto in modo ancora più clamoroso. Le tecnocrazie economiche, private e pubbliche, hanno tenuto ingabbiati nelle regole di austerità le classi medie occidentali, mentre i potenti della finanza sono riusciti a indirizzare le politiche a loro vantaggio costruendo sistemi di potere economico inarrivabili. Lo stesso ascensore sociale si è fermato ai piani bassi di una gerarchia economica che appare separata in due tronconi non comunicanti (Truthout, GlobalPolicy).
Fernand Braudel, lo storico francese che ha guidato la scuola delle Annales alla metà del secolo scorso, riconosce una distanza incommensurabile tra la dimensione del capitalismo e quella del mercato. Il mercato è un insieme di regole che garantiscono la concorrenza e favoriscono una leale competizione economica, in relazione a un sistema sociale nel quale nessuno può approfittare più di tanto delle sue risorse e la redistribuzione della ricchezza è tendenzialmente collegata alla generazione di valore che ciascuno produce. Nel capitalismo invece alcuni – finanzieri, grandi mercanti, enormi proprietari terrieri, megaindustriali – hanno risorse straordinarie e riescono a costruire alleanze con i poteri politici che li mettono al riparo dalla concorrenza.
Il capitalismo dell’ultima parte del Novecento e dei primi anni del Duemila è stato un capitalismo capace di sfruttare la politica in modo da allargare costantemente il suo raggio d’azione a scapito di ogni regola di mercato ma riuscendo a presentarsi ideologicamente come campione del mercato: un risultato intellettuale ottenuto riuscendo a far passare il mercato non come un sistema di regole a favore della concorrenza ma come una dimensione di illimitata libertà contro l’ingerenza dello stato e delle regole. Nei paesi anglosassoni tutto questo si è tradotto nelle liberalizzazioni e nell’arretramento dello stato, mentre nell’Europa continentale ha dato luogo a forme di irrigidimento delle politiche economiche con riduzione delle opportunità di intervento degli stati.
Le crisi finanziarie ricorrenti che la liberalizzazione eccessiva ottenuta dal capitalismo dopo la fine degli anni Settanta non hanno portato a una correzione di rotta significativa nelle democrazie anglosassoni e nelle tecnocrazie dell’Europa continentale. I populismi sovranisti si sono posti come alternativa a queste logiche tecnocratiche, ma non hanno preso di mira il capitalismo che le motiva anzi: nel Regno Unito e negli Stati Uniti d’America hanno portato le tensioni populiste alla vittoria delle destre più asservite al potere economico capitalistico locale, in un’interpretazione protezionistica particolarmente lobbistica e orientata alle rendite. Intanto, nell’Europa continentale il populismo non sembra aver ancora trovato la strada di un superamento della demagogia minoritaria. E il potenziale di un’innovazione nelle politiche favorevoli alla spesa pubblica sana – in infrastrutture, istruzione, ricerca – resta aperto, pur nella difficoltà di mettere insieme interessi che i governi locali continuano a mostrare come contrastanti con quelli dell’insieme del continente.
Quello che dovremmo però cominciare a contestare è che il capitalismo sia favorevole al mercato. Vale il contrario, le considerazioni che servono al capitalismo non vanno d’accordo con il mercato: il mercato non è la libertà dei capitalisti di fare ciò che vogliono ma la normativa che garantisce a tutti la libertà di innovare e la lealtà della competizione, in un contesto nel quale la spesa pubblica abilitante è sana e possibile. Il riconoscimento del merito nel mercato avviene in un contesto di regole solidaristicamente – sportivamente – accettate più che in un contesto di prove di forza nelle quali vale tutto. Una piattaforma pubblica a prova di futuro è sempre più necessaria. Una demolizione aprioristica del pubblico non fa l’interesse del mercato. E di certo non dei cittadini. Imho.
Vedi
European Association for Evolutionary Political Economy
Truthout
Global Policy Journal
Mariana Mazzucato, the Entrepreneurial State
“Nei paesi anglosassoni tutto questo si è tradotto nelle liberalizzazioni e nell’arretramento dello stato, mentre nell’Europa continentale ha dato luogo a forme di irrigidimento delle politiche economiche con riduzione delle opportunità di intervento degli stati.”
A parte questa formulazione poco chiara (liberalizzazioni e arretramento dello Stato ci sono state anche nell’Europa continentale, eccome) non si può non notare che De Biase lavora in un gruppo editoriale che se sempre propugna riforme che amplino le disuguaglianze e che, se possibile, rendano queste disuguaglianze irreversibili.
Un ritorno a Maria Antonietta è, in sintesi, il programma di politica economica del Sole 24 Ore, ovviamente presentato come “modernizzazione”, promozione dell'”innovazione”, aumento di efficienza per reggere alle “sfide della globalizzazione” e tutto il solito armamentario che ormai troviamo anche nella stampa di paese.
De Biase non è in sintonia con questa visione? Non possiamo che esserne felici. Ma non possiamo anche non dubitarne, almeno un po’.
Non sono sicuro che interessi. Comunque il Sole 24 Ore mi ha assunto sapendo che ero stato all’inizio degli anni Novanta co-autore di “Capitani di sventura” una critica dei principali finanzieri italiani, ero andato avanti con Bidone.com per criticare l’interpretazione finanziaria della bolla internet di fine anni Novanta, e di Edeologia, altra critica di quella stagione. Ho scritto “Economia della felicità” alla ricerca di una visione alternativa a quella finanziaria. Ho scritto “Cambiare pagina” per criticare il modo tradizionale di fare i giornali e proporre un’alternativa, sviluppata in “Media civici”. E non mi sono mai sottratto alla critica dell’iper finanza e delle sue ideologie, che in “Homo pluralis” è vista alla base di una narrazione del futuro che lo costruisce in modo disumano. La mia ricerca è questa. Il Sole 24 Ore, che ovviamente ha la sua linea interpretativa, mi ha assunto, mi ha fatto scrivere, ha sopportato le mie critiche e sostenuto le mie proposte innovative per una decina d’anni. Tutto questo lo scrivo solo per aiutarla, se le va, a verificare i suoi preconcetti e a dare qualche risposta ai suoi dubbi.
Grazie dell’esauriente risposta e dell’elencazione dei suoi lavori, che in verità non conoscevo. Non mancherò di colmare questa mia lacuna già dalla prossima visita in Biblioteca Civica.