Nel 1995, vent’anni fa, solo un terzo degli abitanti degli Stati Uniti aveva un computer. E solo 100mila italiani avevano un accesso a internet.
Oggi tre miliardi di persone sono nell’infosfera, un ambiente arricchito da informazioni digitali alle quali le persone accedono con protesi digitali che si portano sempre appresso e che lasciano sempre accese, sicché molte cose che fanno ogni giorno – spostamenti, pagamenti, chiacchierate – sono registrate in digitale. Le piattaforme principali sono diventate proprietarie e l’interoperabilità è retrocessa.
Ma l’email è andata avanti.
L’email è interoperabile, non è proprietaria, è utilizzabile in modi molto diversi. Ed è tanta. La gente se ne lamenta come non mai. Ma il ritorno in termini di click dei link pubblicati con l’email è ancora più alto di quello che – in genere – ottengono i banner pubblicitari dei siti web. L’email è lavorativa, ma non solo. L’email è corta, lunga, percepita come personale anche quando è rivolta a moltissimi utenti. L’email non è tanto usata dai giovani, sostituita in molte occasioni da una quantità di app che fanno cose più precise: Facebook e Twitter, Whatsapp e Instagram, Wechat e Slack… Eppure, l’email continua e persevera.
Non cambierà. Casomai le piattaforme private che la offrono dovessero tentare di ridurne l’interoperabilità, perderebbero utenti. L’email è internet aperta e neutrale nella sua forma primordiale, anche se aggiornata dai servizi web e dalle app che la maggior parte della gente usa. Ma resta tanta e ingestibile per molti. Una bella idea che rispetti la sua originalità e personalità ma arrivi a renderla davvero più facile da usare sarebbe benvenuta: se non è ancora arrivata significa che non ci si è pensato ancora abbastanza bene. Imho.
Vedi:
The Triumph of Email
Why does one of the world’s most reviled technologies keep winning?
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