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Ancora su: “Abbiamo cambiato l’Italia mettendo Dallas in televisione”

Ieri, parlando della crisi attuale e della prospettiva che abbiamo bisogno di raccontarci per uscirne, Mauro Magatti (autore con Laura Gherardi di “Una nuova prosperità“) ha sottolineato come con il 2008 si sia chiusa una fase storica ventennale. Certo, la datazione dell’epoca iperliberista guidata dal capitalismo tecno-nichilista appartiene a chi ha pensato il concetto. Non ne cambia molto il senso tentare di aggiungere qualche considerazione in più, che peraltro allunga la durata di quell’epoca aiutando forse a pensarla nella sua interezza. Proprio per definirne la fine.

Ovviamente il 1989 è stato uno spartiacque straordinario, con la caduta del Muro di Berlino e l’avvio del decennio trionfale del capitalismo finanziario. In quest’ottica, però, la chiusura del ciclo avviene nel 2001 che ha segnato la fine del “nuovo ordine mondiale” centrato sugli Stati Uniti. Se la dimensione che ci interessa per datare l’iperliberismo è piuttosto quella simbolico-culturale, verrebbe da dire che l’avvio dell’epoca iperliberista è precedente e la sua fine è successiva. Il suo avvio sarebbe nell’avvento di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli Stati Uniti. E la sua fine nel 2008-2010 quando, in America prima e in Europa poi, l’attrattiva del pensiero iperliberista entra in crisi insieme alla credibilità del sistema finanziario. L’epoca che dobbiamo imparare a pensare, dunque, sarebbe lunga trent’anni. E imparare a pensare che è finita, quell’epoca, si aiuta a cercare una nuova prospettiva.

Per l’Italia, l’avvio simbolico del trentennio iperliberista potrebbe essere stato non politico ma televisivo. E’ un’immagine che è venuta in mente al leader della destra, attuale rifondatore di Forza Italia, che nel 1989 era soltanto il magnate della tv privata. E che in un’intervista di quell’anno disse: “Abbiamo cambiato l’Italia mettendo Dallas in televisione”. Era il 1981 quando quella telenovela texana è andata in onda in Italia, proprio gli anni fondativi dell’epoca avviata con l’ideologia allora vincente di Thatcher e Reagan. E Dallas era coerente: i ricchi – che in un paese catto-comunista apparivano spietati e senza scrupoli – diventavano gli eroi se si ammetteva che il contesto culturale da adottare era definito da regole fatte per consentire la prevalenza del più forte nella convinzione implicita che in questo modo si generano soldi a palate. Il successo di quella serie televisiva fu segnato dall’adesione ideologica di numerose famiglie che in quegli anni chiamarono jeiar e suellen i loro figli e figlie (fatti registrati dai giornali di allora con un bel po’ di sopravvalutazione). Una frattura ideologica fondamentale, accompagnata dal contesto internazionale e sostenuta in Italia dalla diffusione della regina dei media del trentennio che si è concluso.

Si è concluso nel mondo perché ormai non è più un presidente degli Stati Uniti o un premier britannico a dare il tono ideologico al pianeta. La Cina conta almeno altrettanto. Russia, Brasile, India, mondo islamico, sono poli culturali e simbolici che generano visioni del mondo di potenza rilevantissima.

Si è concluso perché la finanza non è più credibile. Anche se resta enormemente potente.

Si è concluso perché per uscire dalla crisi nella quale l’indebitamento al quale la finanza ha costretto il mondo occidentale non c’è altra strada che ridefinire il percorso verso la prosperità. Imparando a intendere la prosperità in modo nuovo. Come suggeriscono Magatti e Gherardi.

Si esce cominciando a guardare avanti. Come suggerisce il suffisso pro- delle parole chiave con le quali si può guardare avanti: prosperità, prospettiva, progresso, progetto, programma. Ma a queste parole occorre dedicare un post specifico.

Una chiosa. Si è discusso anche ieri in rete di quell’intervista, in uno scambio di battute su Twitter. Un’intervista di venticinque anni fa, senza più appunti che ne attestino i contenuti, si può ricordare a memoria. E per un giornalista che era presente diventa importante precisare. La frase “abbiamo cambiato l’Italia mettendo Dallas in televisione” è stata detta senza dubbio. Un’altra frase in quel contesto è stata: “Il Maurizio Costanzo Show è il circolo illuminista del nostro secolo”. Molte parole sono state spese per parlare dello speciale modello pubblicitario inaugurato dalla Publitalia. Non si è parlato per quanto ricordo di Drive In.

Altra chiosa. In questo secolo la televisione non cambia più il mondo. La fine del Grande Fratello in Uk è forse il fatto più evidente. Internet è certamente una sorgente di innovazione più importante oggi. Ma la tv è ancora un’enorme generatore di immaginario. E può darsi che l’apertura di un nuovo periodo sia stata segnata dall’aver messo in televisione Don Matteo.

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Luca De Biase

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