Claudio Giua chiede giustamente di riprendere il discorso sull’elusione fiscale delle grandi piattaforme come Google, Apple e compagnia. Sottolinea come recentemente ne abbia parlato anche il FT. E chiama in causa anche questo blog, probabilmente per il post: Commento costruttivo sulla raffica di misure relative a internet prese in questi giorni in Italia.
Giua non tiene conto della raffica (in quella settimana la web-tax è arrivata al parlamento mentre si introducevano diverse altre nuove norme a forte impatto digitale, compresa la tassa per chi compra memorie a favore della Siae, i vincoli a chi linka un articolo di quotidiano, la discriminazione tra libri digitali e cartacei e così via), ma solo della web-tax. E sostiene che qualcosa va fatto sull’elusione delle grandi piattaforme. La raffica invece era da tenere in conto: perché induceva a pensare che ogni misura tra quelle fosse dovuta alla necessità di soddisfare qualche lobby che difende un suo business poco innovativo e ha contaminato anche la logica che motivava la web-tax.
Ma andiamo al punto: come del resto si diceva nel post citato il tema dell’elusione è grosso e vero. Casomai ci sono differenze nel giudizio sulla web-tax: per quanto mi riguarda faceva più male che bene all’economia italiana, mentre per Giua era almeno un modo per porre la questione dell’elusione. Per quanto mi riguarda poneva la questione in modo tale che si sarebbe trasformata in boomerang. Per Giua era un buon tentativo. Ma il punto è: posto che una web-tax come è stata immaginata difficilmente si può fare e se di fa ha conseguenze dubbie sull’economia italiana o almeno da valutare, che cosa di si fa sull’elusione di Google ecc ecc?
Vediamo i temi retrostanti con calma:
1. Il primo problema è la competizione tra i sistemi fiscali dei paesi europei che è una delle colonne della costruzione del mercato unico; si pensa che possa creare una virtuosa spirale di miglioramenti nei diversi paesi; ma chiaramente può essere sfruttata dagli imprenditori – americani ed europei – per eludere le tasse.
2. Il secondo problema è che nelle piattaforme digitali si vince almeno tanto sull’innovazione quanto sul prezzo e gli imprenditori poco innovativi perdono a qualunque livello di tassazione: se Google pagasse il triplo delle tasse che paga sarebbe battuta da un editore italiano nella raccolta pubblicitaria? solo se l’editore italiano fosse più innovativo. Gli imprenditori italiani hanno fatto tutto il possibile per essere più innovativi di Google? Qualcuno ricorderà quell’impresa di computer italiana che evadeva l’iva: anche così però non ha battuto la Dell o la Apple.
3. Il terzo problema è che il sistema pubblico americano sostiene l’innovazione con investimenti statali giganteschi e l’Europa non fa altrettanto. Quella sì che è una differenza politica rilevante. Ma le lobby private europee fanno abbastanza per chiedere un aumento nella spesa pubblica destinata all’innovazione oppure si concentrano sulla richiesta di misure di sapore protezionistico?
4. Il quarto problema è che i centri media fanno scelte più o meno favorevoli all’innovazione nella pubblicità. Sono pochi e concentrati. Chiedono soldi, in Italia, alle concessionarie per assegnare loro dei budget. E per lunghissimo tempo hanno chiesto più soldi alle concenssionarie che vendono spazi pubblicitari su internet che a quelle che vendono spazi pubblicitari su carta o in televisione. Qualche editore ha davvero chiesto al legislatore di correggere questa situazione? Il fatto che le concessionarie internet hanno dovuto pagare tanto di più per avere la loro quota di budget ne ha limitato lo sviluppo e ridotto la capacità di creare piattaforme in grado di competere con i giganti americani?
5. Il quinto problema, collegato a tutti gli altri: l’innovazione nei modelli di business crea condizioni di vantaggio per lungo tempo contro i concorrenti; la difesa dei modelli di business meno efficienti non fa che alzare barriere all’innovazione e aumentare i costi per tutto il sistema, abbassando le possibilità di un sistema economico di reagire all’innovazione altrui e impoverendo tutti.
Pensiamo davvero che se Google pagasse una frazione del suo profitto in tasse italiane sentirebbe di più la concorrenza degli editori italiani nella raccolta pubbicitaria? Vabbè. Lasciamo perdere. Concentriamoci sul fatto che sarebbe giusto che questo avvenisse. Ma come ottenerlo?
Verrebbe da rispondere: chiedetelo a dei fiscalisti esperti di diritto europeo. Suppongo che si potrebbe fare subito una raccolta di idee dei veri esperti con una consultazione fatta bene. Secondo: si potrebbe fare un’operazione di sistema a livello europeo. Terzo: quello che costerebbe una tale operazione dovrebbe essere fatto solo a patto che gli editori, le imprese e le startup europee si convincano che le piattaforme americane si battono prima di tutto facendo meglio di loro. E che è possibile.
È ovvio che non sono un esperto di materia fiscale europea. Non saprei neppure come fare a valutare l’impatto della situazione attuale non solo sul business delle piattaforme ma su ogni altro business. Immagino che altri ne sappiano molto: quanti sono gli elusori europei che sfruttano il sistema a loro vantaggio in altri ambiti? la competizione tra i sistemi fiscali europei è usata per ridurre il carico fiscale da molte imprese italiane che hanno sede in Lussemburgo, azionisti in Svizzera, headquarters in Olanda, lavoratori in Irlanda e così via? Probabile. Abbattere la competizione tra i sistemi fiscali europei è una soluzione che ha conseguenze molto più grandi di quelle che si cerca di ottenere combattendo l’elusione di Google. Gli americani sfruttano quello che abbiamo pensato potesse essere un vantaggio per gli europei: la competizione tra i sistemi fiscali è un elemento della costruzione europea per come è stata pensata finora. La si può cambiare di fronte all’effetto collaterale in stile Google, ma non si può dire che sono solo gli americani ad avvantaggiarsene. I furbi europei ci sono eccome. Del resto, anche gli Stati Uniti lamentano la scarsa propensione di Google, Apple e company a pagare le tasse. Quindi un’operazione di sistema europeo in collaborazione con gli americani si potrebbe anche tentare con successo. Ma, Giua dirà, è una strada lunga: giusto, allora cominciamo a lavorarci senza perdere tempo con operazioni di scarsa prospettiva. Chi sa di fisco proponga. Chi si prepara al semestre europeo a guida italiana faccia la sua parte: andiamo in Europa pronti e facciamo passare una regola sensata.
Ma occhio: non basterà che Google e company paghino le giuste tasse.
Occorre che gli imprenditori europei si diano una mossa. Che cosa c’è di speciale nelle piattaforme che le rende tanto brave a sfruttare la competizione tra i sistemi fiscali? Ovviamente che vendono un servizio online e quindi possono facilmente mettere le operazioni in un paese e vendere in altri paesi. Scegliendo il paese più conveniente per svolgere le loro operazioni. Ma questo lo fanno anche gli europei online. Solo che gli europei hanno fatto finora in generale delle aziende meno competitive. E se invece di rivolgersi allo stato per ottenere protezione si rivolgeranno ai loro innovatori per ottenere competitività potranno anche vincere le loro battaglie con gli americani. In molti casi ce la fanno già.
Ma c’è di più.
Questa impostazione non tiene conto di una causa della competitività americana che in Europa è molto sottovalutata: le grandi piattaforme americane nascono da un paese che investe in innovazione a fondo perduto con il denaro pubblico una quantità di dollari non paragonabile a quella degli europei. A sentire Mariana Mazzuccato lo stato finanzia l’innovazione americana in modo decisivo. E a valle degli investimenti pubblici, gli americani hanno un ceto imprenditoriale che a sua volta si lancia nelle imprese più difficili, trova soldi e crea nuovi mercati. Gli europei sono troppo timidi sia a livello pubblico sia a livello imprenditoriale sia a livello bancario e di venture capital. Gli europei non si salvano con il protezionismo, ma schiacciando l’acceleratore sull’innovazione.
Gli italiani possono scegliere. Difendersi contro l’innovazione o farla. Gli europei possono scegliere. Investire insieme nell’innovazione o subire l’interventismo pubblico americano.
Gli americani hanno costruito un’industria militare che spende la metà delle spese militari del mondo. E anche per quella via investe in innovazione che arriva poi al mercato. Gli italiani non hanno per fortuna questo genere di vantaggio. Ma tanto per fare un esempio hanno una grandissima quota dei beni culturali del mondo: l’Italia potrebbe dunque essere il paese che investe più di tutti nell’innovazione che riguarda la manutenzione e la valorizzazione dei beni culturali, generando innovazioni che potrebbero poi arrivare al mercato. Ha grande spesa sanitaria: e potrebbe investire nell’innovazione in questo settore anche a livello pubblico, visto che ha anche ottimi centri di ricerca e imprese nell’innovazione medicale. Ha fantastiche industrie nell’alimentare, nell’abbigliamento, nell’arredamento, nell’automazione industriale: questi settori non aspettano altro che innovazione: potrebbe essere una strategia sensata quella di investire, anche a livello pubblico, per generarla, con forti incentivi al finanziamento di ricerca, startup, mercati online per l’esportazione. Questo potrebbe creare mercati per nuove piattaforme italiane in grado di andare nel mondo e competere. Un fiorire di startup e innovazioni – e una chiara strategia pubblica, condita con un po’ di soldi – convincerà alla fine anche il capitale europeo, troppo prudente, a impegnarsi nel venture capital. Questa è la strada maestra. La web-tax non è un modo per accelerare su questa strada: è una sosta nell’area di parcheggio. Può essere divertente. Ma non fa andare avanti di un chilometro. Imho.
vedi anche:
Ancora su Google, Year 0 P.S.
bene e bravo Luca, finalmente, dopo i bari bettibeccare digitali sulla ridicola webtax, leggo finalmente qualcosa di sensato sullo sviluppo dell’industria digitale in italia. Magari la piantiamo di andare avanti a furia di HYPE (adv,startup,innovazione) e cominciamo a fare seria impresa? Qui tutti hanno la coda di paglia ed hanno fatto i furbetti del quartierinodigitale 🙂
[…] Luca De Biase, citato da Giua nel suo pezzo, ha risposto con un lungo post sul suo blog, allargando il discorso dalla web tax alle misure a sostegno dell’innovazione: “Il sistema pubblico americano sostiene l’innovazione con investimenti statali giganteschi e l’Europa non fa altrettanto. Quella sì che è una differenza politica rilevante. Ma le lobby private europee fanno abbastanza per chiedere un aumento nella spesa pubblica destinata all’innovazione oppure si concentrano sulla richiesta di misure di sapore protezionistico?” È una questione, questa, che aveva sollevato con molta forza anche l’economista Mariana Mazzucato, il mese scorso, intervendendo a Working Capital, l’iniziativa di Telecom Italia a sostengo delle startup. […]
A cornice dell’articolo, condivisibile in ogni sua parte, segnalo il caso di un’azienda berlinese nata 4 anni fa: Sociomantic. Partita con l’idea di analizzare i big data provenienti da social media ed estrapolarne informazioni utili ai propri clienti, sono poi diventati una piattaforma di real-time bidding e stanno avendo un successo incredibile (confermato dai numeri). Un’intervista approfondita è disponibile su Venture Village.
La storia è interessante per due ragioni. Innanzitutto, mi sembra che contribuisca a rinforzare la tesi di De Biase: Sociomantic si muove sul terreno di Google (la pubblicità online) e ha vinto la sfida grazie all’innovazione (Google si sta addentrando nel real-time bidding solo in tempi più recenti). In secondo luogo, fa pensare a quel che accadrebbe se meccanismi analoghi alla webtax divenissero lo standard per combattere l’elusione fiscale. Realtà come Sociomantic allora sì che sarebbero svantaggiate rispetto ai big, i quali certamente avrebbero i mezzi per sostenere da un lato un maggiore carico fiscale, dall’altro un’eventuale complicazione burocratica così come era prevista dalla proposta di legge.
Malgrado il senso comune dei cittadini propenda per l’opportunità di un provvedimento simile, soprattutto alla luce dell’ingente giro d’affari posto in essere dalle multinazionali del web, a fronte del quale non corrisponde un gettito fiscale adeguato, ma al contrario, un generale fenomeno di elusione dell’imposizione a livello internazionale, contribuendo così ad alimentare l’indignazione da parte dei comuni cittadini costretti a confrontarsi con la grave crisi economica di questi ultimi anni, in realtà, ad una analisi più approfondita, ci si rende rapidamente conto di come il rimedio proposto, seppur meritorio, rischi di rivelarsi alla fine controproducente: se i fenomeni di elusione internazionale posti in essere dalle multinazionali del web, sono in realtà il risultato non voluto di lacune normative afferenti i differenti ordinamenti fiscali coinvolti, in modo particolare per quanto concerne il concetto di residenza fiscale, che assume profili e caratteristiche non uniformi nei vari paesi europei ed extra EU, è chiaro che la soluzione debba essere trovata in ambito sovrannazionale, come peraltro suggerito dallo stesso OCSE nel suo rapporto BEPS, orientato appunto ad un progressivo coordinamento delle normative fiscali europee verso l’emersione del fenomeno noto come “erosione della base imponibile”, riconducibile al trasferimento formale del volume di affari in paesi a fiscalità privilegiata (profit shifting).
Niente fughe in avanti, quindi, per non correre il rischio di isolare ulteriormente il nostro paese ai margini della competitività internazionale, già eccessivamente penalizzata proprio da una pletora di norme fiscali di difficile applicazione, oltre che da un livello di imposizione sensibilmente superiore alla media dei paesi industrializzati.