Philippe Aigrain ha fatto tradurre un pezzo uscito sulla Repubblica e scritto da Stefano Rodotà sui beni comuni. (Bellissimo leggerlo nella lingua dei grandi intellettuali dei tempi di Parigi). È di una lucidità straordinaria. Sottolinea come il concetto di “beni comuni” rischi di perdere senso se allargato troppo e applicato a troppe situazioni diverse. E propone una riflessione da tenere sempre a mente.
Mentre nella cultura definita dalla teologia economicista, ogni relazione tra le persone e il mondo delle cose era sottoposta al potere del mercato e dunque della proprietà, pubblica o privata, oggi si tenta di riaprire la strada anche all’attenzione verso la funzione delle cose per la società. E quindi i beni comuni ritrovano una centralità come beni che contribuiscono ai diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità e che devono essere sottratti alla logica distruttiva del breve termine per proteggere il mondo delle generazioni future.
I beni comuni sono a “titolarità diffusa” nel senso che appartengono a tutti e a nessuno, prosegue Rodotà. Nel senso che tutti devono potervi accedere e nessuno se ne può appropriare in via esclusiva. Devono essere gestiti secondo il principio di solidarietà e non quello di mercato. Sono strumenti essenziali di cittadinanza e sono argomento di materia costituzionale.
Le società, peraltro, devono imparare a svilupparli con efficienza pari a quella cui si tende per i beni di mercato. E a farne una delle risorse centrali per il progresso sociale in un’epoca in cui le dimensioni dell’economia statale e dell’economia del capitalismo sono in netta crisi.
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