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Libri – WIKIBRANDS – Sean Moffit, Mike Dover

wikibrands.jpgIn un contesto nel quale la scarsità non è più nella capacità di produrre e nello spazio degli scaffali sui quali vendere, ma nel tempo e nel budget di chi domanda, le informazioni commerciali sono in piena trasformazione.

In un contesto nel quale le nuove generazioni sono più abituate all’iperpresente di Facebook che al palinsesto della televisione, i punti di riferimento stabili come i marchi diventano molto rilevanti e assumono una funzione esistenziale che serve al pubblico tanto quanto serve a chi offre beni e servizi. Sicché spesso il pubblico genera il senso dei marchi di più efficacemente di quanto possa fare chi li rappresenta. Purché questi lo capisca. E stia al gioco.

I testi di marketing avvertiti sono importanti per digerire il grande cambiamento che stiamo vivendo. E Wikibrands di Moffit e Dover può risultare piuttosto utile in questo compito culturale. Il testo è tutto da discutere e in qualche caso discutibile. Ma teso nella direzione giusta. Quella avviata più di dieci anni fa da Cluetrain Manifesto.

Come nell’esordio, dove gli autori tentano una definizione. Wikibrands: «Un insieme avanzato di organizzazioni, prodotti, servizi, idee e cause che attingono al potenziale della partecipazione, dell’influenza sociale e della collaborazione dei consumatori per dirigere il business e accrescerne il valore». C’è un sapore vagamente antico in questa idea di definire il concetto e in questo modo di definirlo. L’esordio continua con una promessa, anch’essa vagamente antica, ma termina con una domanda ingenuamente ben posta: «I wikibrand rappresentano il futuro degli affari – un futuro che richiede un cambiamento paradigmatico dei principi manageriali più radicati circa il modo di relazionarsi con i consumatori. Siamo entrati in una nuova era della costruzione del brand. La prova del nove di un business fiorente, nel mercato di oggi è questa: “Il tuo brand genera un’autentica partecipazione?”». Dove la parola chiave è “autentica”.

Già il Cluetrain Manifesto poneva il tema della credibilità del marketing tradizionale. E osservava che la voce delle aziende appare troppo spesso “falsa”. L’autenticità avviene nella relazione tra una storia aziendale vera e l’adozione dei prodotti da parte del pubblico: un’adozione che è insieme pratica e culturale, emotiva e razionale.

Sul filo di questa tensione, Wikibrands evolve dal concetto di “collaborazione dei consumatori”, che appunto è vagamente antico, al concetto un poco più contemporaneo dell'”engagement”: cioè il comportamento attivo del pubblico nella generazione del senso del brand. Gli autori citano L’onda anomala di Charlene Li e Josh Bernoff: «I brand che puntano sull’engagement aumentano il loro valore del 18 per cento; quelli che non lo fanno scendono del 6 per cento». E naturalmente questo è connesso con il fatto più rilevante dal punto di vista mediatico del nuovo millenno: «Avremmo potuto prevedere, anche ottimisticamente, che l’uso di internet avrebbe superato di slancio quello del campione in carica dei pesi massimi mediatici, ovvero la televisione? Bene, lo ha fatto». Tra il 1995 e oggi la gente che usa internet si è moltiplicata per cento. E nel 2010 le persone hanno passato sui social network l’82 per cento di tempo in più rispetto all’anno prima.

«Dobbiamo riconoscere che è un vero paradosso. Per le aziende, i brand non sono mai stati tanto importanti quanto lo sono oggi, in una situazione in cui i consumatori hanno preso il controllo». Invece di imporlo con campagne martellanti in televisione, i cui rendimenti sono decrescenti perché avvengono nel contesto di una generalizzata strategia della disattenzione, le aziende che capiscono quello che sta succedendo tantano di favorire l’emergere di fenomeni che inducano il pubblico a parlare dei loro brand e a dialogare intorno ai messaggi connessi a quel brand. Si tratta di un elemento della Wikinomics di Don Tapscott e Anthony Williams, dicono gli autori.

Gli scolastici del marketing si divertono a sintetizzare con quattro lettere uguali le loro idee. L’approccio tradizionale era concentrato sulle quattro P: prodotto, prezzo, punto vendita, promozione. Oggi Brian Fetherstonhaugh, presidente e ceo di OgilvyOne, ci sono quattro E: esperienza, espansione, equilibrio, evangelizzazione. In ogni caso si tratta di condividere i ruoli di tester, sviluppatore direttore e innovatore, perché il pubblico sia parte integrante del processo di generazione di valore e sia dunque anche impegnato a farlo sapere in giro. Ma tutto questo non avviene se non c’è un’autentica empatia che alla fine è una sorta di vero rispetto reciproco tra aziende e pubblico.

Il che forse porta alla conclusione che il wikibranding non è altro che una ricomposizione con una storia economica di più lunga durata, nella quale la fase dell’industrializzazione di massa, accompagnata dal consumo di massa pubblicizzato con i mezzi di comunicazione di massa, appare come una bolla temporanea. Mentre rispetto, autenticità e riconoscimento del valore dei prodotti, sono dimensioni antiche che stiamo recuperando. In un contesto nel quale tutto il modello di crescita infinita nella produzione materiale si applica in modo diverso se non addirittura tende a essere messo in discussione, se non altro per la consapevolezza dai limiti del consumo delle risorse del pianeta.

Se fosse per digerire il cambiamento, basterebbe. Ma qui stiamo parlando alla fine di marketing. E dunque non può mandare un modello e una sigla. Gli autori sostengono il metodo FLIRT, che allude a qualcosa di empatico per dire: focus, linguaggio, incentivi, regole, tecnologie. E questo, per gli interessati, diventa un programma e una roadmap.

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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