Che i commons abbiano un valore economico enorme è un fatto certo. Ma è anche chiaro che una risorsa comune può essere supersfruttata fino a perdere valore per tutti. Un mare pescoso può attrarre tanti pescherecci da finire per diventare deserto. A Monterey, in California, c’è un museo dedicato proprio a questo.
Internet è uno dei commons più importanti del mondo. Il successo di Google, Facebook e Twitter, tra le altre aziende internettiane, dimostra che i commons hanno un grande valore economico. Si tratta di aziende private, molto orientate al profitto, che coltivano il loro business sulla base del valore comune dell’internet. La domanda è: c’è qualcuno che sta sfruttando troppo la risorsa e rischia di desertificarla?
Per ora, obiettivamente, non si può dire che questo stia accadendo. Per due ordini di motivi: da un lato, Google e company sono piuttosto attente a non creare un “giardino completamente chiuso” con le loro piattaforme. In secondo luogo, fino a che c’è net neutrality, alternative a quelle piattaforme continueranno ad apparire all’orizzonte. Ma è anche vero che le grandi piattaforme tentano, giorno dopo giorno, di attrarre e trattenere sempre più traffico sulle loro proprietà. Ed è anche vero che le nuove piattaforme faticano sempre di più a emergere (sto provando Diaspora, ma per ora mi pare poco popolata).
Google vive se e solo se la metafora della rete resta quella del commons della conoscenza nel quale tutti possono portare valore. Facebook è già meno legata a questa metafora perché il giro di “amici” può pensare di bastare a se stesso, ma non c’è dubbio che l’immersione di Facebook nella grande internet è ancora un valore per il social network. Twitter poi è ancora molto un sistema per linkare pagine che esistono in rete (e non su Twitter): il che la rende molto dipendente dalla vitalità del commons.
Del resto ci sono altre aziende che praticano lo sfruttamento del commons. Gli operatori, fissi e mobili, sono tra questi. Come molte aziende di servizi e marketplace di ogni genere.
Infine, i commons vengono sfruttati e talvolta rovinati dagli utenti poco accorti o maleducati. Che lasciano cartacce e bottiglie di plastica dppertutto.
La tragedia dei commons non è una fatalità. E una buona manutenzione dei commons è una possibilità più che provata. Se ne parlava in due post di pochi giorni fa (I commons e l’ecosistema… e Twitter, le agenzie…). Ma una buona manutenzione dei commons dipende dalla partecipazione della comunità.
Per questo, non è possibile immaginare una ricca e vitale internet senza utenti compenteti e attivi. Ieri, Google ha aggiunto un altro tassello alla tentazione proposta agli utenti di restare sempre nel loro mondo. Da un certo punto di vista è normale, visto che le informazioni da ricercare sono anche quelle dei social network; e soprattutto visto che se non lo fa Google lo fa qualcun altro. Ma una internet che attragga troppo traffico alle piattaforme proprietarie e riduca troppo la varietà delle conoscenze che si sviluppano indipendentemente dalle grandi piattaforme proprietarie rischia di impoverirsi.
L’internet come ricco e vitale bene comune non sarà mai un facile elettrodomestico che si compra e si consuma. Resterà un mondo complesso e sfidante. E lo sviluppo di questo bene comune dipende soprattutto dalla consapevolezza degli utenti.
I commons sono (anche) sistemi proprietari non riconducibili né alle istituzioni dello stato né a quelle del mercato. Nel campo ambientale sono rimasti quali dei “fossili” della comunità (ad es. le carte di regola nelle aree alpine), ma sarebbe interessante attualizzare anche la questione proprietaria rispetto a commons digitali. Bel post!