Aldo Bonomi (nella foto) ha spiegato ieri a Vicenza, nell’ambito del convegno su Creatività High-Tech, la sua visione di quello che aspetta il capitalismo italiano. Bonomi ha trovato le parole che servivano a vedere realtà invisibili ai concetti precedentemente utilizzati, come il capitalismo molecolare dei piccoli imprenditori del Nord Italia e la città infinita che hanno costruito nel tempo. Ma sa aggiornare la sua visione.
In Europa, dice Bonomi, ci sono cinque capitalismi.
1. Il capitalismo anglosassone, quello che vede l’impresa come una molecola della finanza, per il quale il movimento è tutto nella circolazione del denaro: questo capitalismo ha puntato tutto sulla relazione tra finanza e consumo, mettendo al margine la manifattura.
2. Il capitalismo renano, fatto di grandi banche, grandi imprese e grandi sindacati, nel quale la concertazione e la cogestione hanno consentito di mantenere un equilibrio organizzato, in grado di lanciare le sue grandi strutture economiche a costruire reti lunghe, a investire precocemente in Cina, a finanziare la ricerca di base, a partecipare alla globalizzazione in modo strutturato.
3. Il capitalismo francese coordinato dallo Stato in base a un sistema relativamente efficiente nel quale lo Stato stesso non perde e non disperde soldi.
4. Il capitalismo anseatico fondato sulla ricerca e l’innovazione
5. Il capitalimo di territorio basato sulla manifattura e l’imprenditorialità diffusa.
Il nostro capitalismo, il quinto, quello dell’imprenditorialità diffusa che è riuscito con accorgimenti di ogni genere a restare dentro la ragnatela del valore, ha usato la tecnologia digitale per gestire la rete dei subfornitori, per controllare l’andamento delle vendite, per trovare nuovi clienti nel contesto della globalizzazione, a partire da grandi piattaforme produttive territoriali che nel loro complesso avevano dimensioni da grandi aziende ma erano formate da reticoli di microimprese.
Ebbene, quella fase è finita. Bonomi, nel dirlo, sa che sta aprendo a se stesso e a chi lo conosce una porta verso un percorso sconosciuto. Ma con la sua sincerità intellettuale non cessa di stupire: le categorie che lo hanno reso indispensabile per capire le piccole imprese reticolari italiane, non sembrano reggere alla grande trasformazione in atto. Lui vede però che al mondo tradizionale delle microimprese produttive si vanno aggiungendo nuove figure e tensioni: le avanguardie che esplorano le reti lunghe e le filiere non necessariamente territoriali, anche grazie a internet, i protagonisti dell’immobilismo, e gli imprenditori per necessità, quelli che si mettono in proprio perché hanno perduto un precedente lavoro, i migranti e quelli che, giovani, non immaginano di trovare un’occupazione stabile se non se la costruiscono da soli.
Non è una crisi da attraversare, dice Bonomi: è una metamorfosi. Che sfida ci attende, dunque?
Per Bonomi ci sono tre interpretazioni di quello che ci attende concentrandosi su idee che possono avere un’ispirazione in qualche modo positiva:
1. La decrescita à la Latouche. Bonomi non parla di declino perché in qualche misura sta proponendo una visione “scelta” dalla società, non subita. E un’ipotesi che a Bonomi sembra improbabile. Gli italiani non sceglieranno scientemente una strategia di riduzione dei consumi.
2. La delega ai nuovi leader che risolvono i problemi. In base a questa interpretazione, finita una fase di cattiva organizzazione dello Stato, i nuovi capi sapranno ridefinire il sistema e porteranno il paese fuori dalla spirale negativa nella quale si è avvitato. Bonomi non ci crede.
3. La riconversione. Una profonda trasformazione del capitalismo italiano centrata sull’integrazione nelle sue maglie costitutive del senso del limite. L’equilibrio ambientale viene incorporato nella produzione. La strategia aziendale si sintonizza con le necessità e il valore economico della sostenibilità (non usa questa parola, Bonomi, forse troppo sintetica, ma in un riassunto la può accettare). Niente a che fare con l’ecologismo valoriale. Ma la scoperta delle opportunità della “green economy” e delle sue declinazioni sistemiche. La ricostruzione delle città in chiave sostenibile. Il ridisegno dei territori. “E chi nel Veneto ce ne sarebbe un gran bisogno”. L’occupazione del suolo a base di capannoni è una fase terminata. Ma la nuova fase potrebbe essere estremamente produttiva e interessante.
Già. La nuova definizione di progresso, come si dice spesso in questo blog, non può che essere concentrata – oltre che sulla crescita quantitativa – anche sullo sviluppo qualitativo: qualità della vita di relazione, qualità dell’ambiente, qualità della dinamica culturale. Come sempre, una crisi profonda è anche una grande possibilità: dalle macerie culturali e sociali lasciate dal bombardamento insensato dell’epoca consumistica si avvia una fase guidata dall’energia della ricostruzione. La ricostruzione della qualità ambientale, sociale e culturale.
Vedi anche:
Dalle macerie alla ricostruzione – 14 novembre 2011
Una road map per gli italiani – 10 novembre 2011
Vergogna – 9 settembre 2011
Il peso e la leggerezza – 20 ottobre 2011
Individuo e comunità – 2 settembre 2011
La qualità non è decrescita – 19 novembre 2010
Riflessioni sulla qualità – 23 ottobre 2010
Il filo intermentale – 13 ottobre 2010
Qualità, quale qualità… – 11 ottobre 2010
Libri:
Zoja – Prossimo – 19 dicembre 2010
Clark – Rifare le città – 13 dicembre 2009
Latouche – Decrescita – 2 marzo 2008
Davvero molto interessante.. Ottimi spunti da approfondire 🙂
Grazie, un bel report (come sempre è di qualità tutto quello che appare sl blog).
Molto condivisibile l’analisi, forse un po’ pochi lumi in termini propositivi.
E’ almeno dall’inizio della crisi che alcune avanguardie culturali pungolano gli imprenditori sui temi della green economy, della social innovation, etc. Alcuni rari esperimenti si iniziano a vedere, e nel caos alcune condizioni iniziano ad essere paradossalmente favorevoli.
Ma se sono chiare le direzioni verso le quali bisognerebbe andare, sembrano ancora latitare imprenditori che si siano sintonizzati sul cambiamento culturale. Non lo dico in tono polemico (non è una domanda retorica, ma un invito alla riflessione e – spero – al superamento) ma questi industriali dei distretti che si convertono all’open innovation ed all’impresa sociale dove sono? Chi sono i soggetti che metteranno in atto la trasformazione?
Proprio per le differenze di cui parla Bonomi è difficile immaginare di poter seguire percorsi mutuati da altri paesi (una struttura come NESTA in Italia non c’è, e forse non ci sarà mai, perché si rivolge ad un’altra cultura d’impresa).
Forse è necessario raggiungere una fase successiva nel percorso verso la sostenibilità.
Molto interessante. Ma perché non metti il link in twitter? Stavolta come altre mi ha salvato Nicola Mattina ma non riesco a star dietro ai feed rss e penso siano molti come me. Me lo sono incollato sul blog (citando la fonte) a futura memoria. Unico dubbio: questo modello economico, della piccola-micro impresa, l’abbiamo dato per spacciato tante volte, ultima quella dell’entrata nell’Euro e lui invece è sempre sopravvissuto, trasformandosi ma restando se stesso. Chissà stavolta