Il tema della gamification è di moda. Si moltiplicano le iniziative, i consulenti, gli esperimenti.
Un bel pezzo di Kurai prende di petto la questione del rapporto tra marketing e gamification. Come spesso succede, quando la parola si stacca dal suo significato sulla spinta della moda, chi ne ha conosciuto l’origine, il fascino e il potenziale di senso cerca di ritrovare un filo logico.
Se il marketing trova bello dire che fa gamification, ma trasforma tutto in un concorso a premi o a punti, il senso del gioco si perde e resta solo qualcosa di desolante. Aggiungere qualche trucco da gioco a una comunicazione tradizionale è packaging, non gaming. E lascia il tempo che trova.
Kurai suggerisce, ovviamente, che per stare nel solco dello sviluppo culturale del gaming, che ha tanto impatto sull’attrazione di attenzione e impegno delle persone, ci si rivolga a chi fa giochi da tempo. E ha ragione.
In supporto a questo concetto ci può stare una visione storica più ampia: da Johan Huizinga in poi. Jane McGonigal, non è l’unica, dà un contributo. Si vede una società che lascia la realtà, amara e squallida, per immergersi in una dimensione regolata dalle dinamiche del gioco e vivere una vita più intensa. Ma d’altra parte si vede la possibilità di vivere una vita più intensa, rigenerando le organizzazioni in modo da portare le dinamiche del gioco nelle operazioni della vita quotidiana.
Attenzione: il gioco non è solo vincere e perdere, non è solo classifiche e ipercompetitività. Ci sono giochi di squadra, di intelligenza, di solidarietà. Dipende dalle regole, dallo storytelling che le inquadra, dalle scelte incentivanti, dallo spazio affidato o negato al caso e da molte altre cose. Di certo, il gioco è un percorso di apprendimento, non solo per i bambini. Può essere un percorso di socializzazione. E può diventare un modo per decidere. In questo senso la dimensione del game nella vita quotidiana è una gamification che non è un packaging ma una riflessione profonda sul senso e sul modo in cui si convive e si comunica.
Innanzitutto, Luca, grazie davvero per la citazione.
Ma soprattutto per i commenti. Trovo la tua riflessione finale (e il richiamo a una visione più ampia) davvero azzeccata.
Gamification è semplicemente un’altra buzzword. E lo sarà tantissimo in Italia. Ma a parte ciò sia il tuo auspicio che quello di Kurai è appunto l’andare oltre.
Penso che molta gente parli di gamification per sentito dire e senza aver letto l’ottimo lavoro di Jane Gonigal.
I suoi post sono sempre di grande interesse.
Su un tema prossimo, le segnaliamo la nostra newsletter Knowledge Addiction, dedicata all’approccio ludico in formazione.
http://www.eulabconsulting.it/index.php?option=com_content&view=article&id=110:newsletter06&catid=38:cat-newsletter&Itemid=60
Quello che risulta importante è che oggi è possibile applicare le dinamiche di rinforzamento operante (quelle di Skinner e tutti i suoi allievi) alle piattaforme sociali e avere impatti su quelle di alcuni business.
Oggi si riesce a gestire in maniera precisa il rinforzatore sociale (il mayor, il mi piace, lo status bar, il badge) … elemento ad altissimo impatto sulla modifica del comportamento.
Maurizio, è esattamente questo tipo di pratica che contesto (almeno in parte) nel post che Luca ha linkato 🙂
Non che voglia distruggere il condizionamento operante (che ha una sua importanza), ma ridurre tutto solo a quello oltre a essere poco etico alla lunga nemmeno funziona 🙂
Federico: Hai perfettamente ragione. La stessa Jane McGonigal nel suo libro auspica obiettivi assai più alti e interessanti del controllo del prossimo a scopo advertising. I giochi possono far imparare, far lavorare, creare relazioni inaspettate etc etc