Prendo in prestito il titolo proposto da Miic per sottolineare la morte di Claude Lévi-Strauss. E riportare un pezzo da Antropologia strutturale, 1958. Lévi-Strauss era un maestro nell’individuare i percorsi che portano il pensiero dall’antropologia delle società extraeuropee alla cultura umana più in generale. E quindi anche a noi. Qui c’è una discussione sulla relazione tra la follia e la ragione: nella quale il leader sciamanico assume il ruolo di ponte professionale tra la generazione di risposte alla domanda di senso e la ragionevole normalità del pensiero quotidiano che di senso avverte costantemente la mancanza.
I tropici più tristi
“Curando il suo malato, lo sciamano offre al suo uditorio uno spettacolo. Che spettacolo? A rischio di generalizzare imprudentemente certe osservazioni, diremo che questo spettacolo è sempre quello di una replica, da parte dello sciamano, della chiamata, ossia della crisi iniziale che gli ha procurato la rivelazione del suo stato. Ma la parola spettacolo non deve trarre in inganno; lo sciamano non si contenta di riprodurre o di mimare certi avvenimenti; li rivive effettivamente in tutta la loro vivacità, originalità e violenza. E siccome, al termine della seduta, egli ritorna allo stato normale, possiamo dire, prendendo a prestito dalla psicanalisi il termine essenziale, che egli abreagisce. È noto che la psicanalisi chiama abreazione quel momento decisivo della cura in cui il malato rivive intensamente la situazione iniziale che è all’origine del suo squilibrio, prima di superarlo definitivamente. In questo senso, lo sciamano è un abreatore professionale.
Abbiamo ricercato altrove le ipotesi teoriche che sarebbe necessario formulare, per ammettere che il mondo di abreazione particolare a ogni sciamano, o per lo meno a ogni scuola, possa indurre simbolicamente, nel malato, un’abreazione del suo squilibrio particolare. Se, tuttavia, La relazione essenziale è quella tra lo sciamano e il gruppo, bisogna anche porre la questione da un altro punto di vista, quello cioè del rapporto tra pensiero normale e pensiero patologico. Ora, in ogni prospettiva non scientifica (di cui nessuna società può vantarsi di non essere partecipe) pensiero patologico e pensiero normale non si contrappongono ma si completano. Il pensiero normale, di fronte a un universo che è avido di comprendere, ma di cui non riesce a dominare i meccanismi, richiede sempre alle cose il loro senso, ed esse glielo rifiutano; invece, il pensiero cosiddetto patologico abbonda di interpretazioni e di risonanze affettive, di cui è sempre pronto a sovraccaricare una realtà altrimenti deficitaria. Per l’uno, esiste il non verificabile sperimentalmente, vale a dire l’esigibile; per l’altro, esistono esperienze senza oggetto, vale a dire il disponibile. Adottando il linguaggio dei linguisti, diremo che il pensiero normale soffre sempre di un deficit di significato, mentre il pensiero cosiddetto patologico (almeno in talune sue manifestazioni) dispone di una pletora di significante”.
Bellissimo, come sempre, e anche una grande descrizione dell’impostazione politica di Massimo D’Alema, sempre lì a voler rivivere e farci rivivere il suo climax, sul palco del congresso provinciale la consegna a Togliatti dei fiori in divisa da Pioniere.