La Francia si interroga di nuovo sul burqa e il nikab. I veli che portano alcune donne che vivono in Francia e sono di origine musulmana, che le coprono integralmente o quasi quando sono fuori casa, pongono alla Repubblica laica per eccellenza un problema difficile.
Il velo è un segno di appartenenza a una cultura, a una tradizione, a un sistema di regole sociali. Ci sono certamente donne che lo accettano e lo portano volentieri, in base alle loro convinzioni. E ci sono certemente donne che lo portano solo per paura delle sanzioni cui le sottoporrebbero i maschi del loro gruppo sociale nel caso che lo rifiutassero.
Ci sono 65 deputati di destra e di sinistra che chiedono di avviare una commissione di inchiesta. Il presidente della Repubblica prende tempo. I giornali come Le Monde discutono.
La Repubblica laica non può ammettere che esista una repubblica clandestina musulmana che governa le scelte delle donne. Non può ammettere che gli abitanti della Francia, di qualunque origine siano, diano la priorità a un sistema di legittimità diverso da quello della costituzione.
Del resto, la Repubblica non può impedire alle donne che lo vogliono di portare il velo. Come non lo impedisce alle suore cattoliche.
Quindi il problema non sarà risolto se ci si concentrerà sul velo. Si dovrà affrontare piuttosto il tema delle libertà vere, sostanziali, delle donne. Il diritto di famiglia e il diritto alla libertà di scelta, espressione e opinione, è minacciato se le donne sono obbligate a portare un velo che non vogliono. Come lo è se le donne sono obbligate, nelle famiglie occidentali, a lasciarsi picchiare da mariti ubriachi senza denunciarli per timore delle sanzioni sociali cui andrebbero incontro.
Ma lo stato non può arrivare ovunque. Le forme sociali violente e clandestine, che si organizzano intorno a sistemi di legittimità non formali ma molto fisicamente presenti nella vita quotidiana delle persone, sono nemiche della costituzione e della repubblica. Se anche lo volesse, lo stato non potrebbe risolvere tutto con una mano repressiva. Occorre anche il softpower: i valori laici, i valori costituzionali, dovrebbero essere talmente attraenti da condurre le persone a scegliere la tolleranza e la libertà, contro la paura. L’educazione pubblica ne sarebbe il principale strumento.
In Italia il tema è meno cartesiano. Ma altrettanto importante. La privatizzazione di tutto, dalle ronde alle scuole, non promette nulla di buono.
Non esiste un burqa laico. Se esistesse sarebbe il burqa che le donne scelgono di mettersi per libera forma di espressione. Difficile distinguerlo: ma difficile anche reprimerlo. Però esiste una laicità – come patrimonio comune di cittadinanza – che sa dimostrarsi talmente attraente da mostrare quanto povera culturalmente sia una forma di tradizione che reprime le donne. E in Italia ce n’è sempre più bisogno.
In Italia si può essere laici solo nella misura in cui lo permettono papa e vescovi. E bisogna chiedere permesso. Quindi i problemi dei francesi non ci riguardano.
Non so. Provo a offrire un altro punto di vista. Io penso ci siano diversi livelli d’osservazione, e misure ipocrite per attuarlo: questa idea del Burqa sarà, in qualche misura, mitigata con l’ordine pubblico.
La stessa legge sul velo, nelle scuole francesi, è passata come legge di laicità, e la dismissione di tutti i simboli religiosi, credo fosse un male necessario.
Io credo, però, che lo stato, come chiunque di noi, possa fare una propria obiezione di coscienza, una piccola testimonianza di sé, nel proprio privato. Io posso dire: “no, a casa mia non si entra con la svastica”. Lo posso dire in ossequio al disvalore simbolico di quel soggetto.
Ora, senza sopravvalutare il limitato effetto dell’obiezione di coscienza, che è narcisistica connaturatamente narcisistica, penso che lo Stato possa dire lo stesso: nei miei edificî – perché si parlava di edificî pubblici, non di territorio nazionale – scuole, ospedali, io non permetto che la donna sia discriminata. Non permetto che s’indossi un simbolo che vuoldire la discriminazione della donna, anche se la persona in questione è consenziente.
È esattamente come vietare a qualcuno di entrare a scuola con scritto in fronte “le donne sono inferiori”, che è il preciso significato del velo, e della copertura del corpo femminile nell’Islam – è antipatico da dire, ma chiunque neghi questo fatto non sa di cosa parla, detto da uno che ha vissuto 6 mesi in Palestina – è la dichiarazione di principio che la sede dell’autocontrollo sessuale maschile, è il corpo della donna. Come nell’odioso teorema della donna in minigonna, che “merita” lo stupro.
Ci sarebbe da parlare del sopravvalutato rispetto religioso, di come le idee che si sono affermate come religioni “di moda”, intendo tutte quelle considerate “credibili” – dal Cristianesimo, all’Ebraismo, alle religioni orientali. Il fatto che un simbolo sia espressione di una propria religione non dovrebbe mettere alcuna schermatura, alla critica di tale simbolo. Che io indossi il velo, o il cilicio, per “concezione religiosa” vale quanto portare un velo o un cilicio per mille altre ragioni.
@Giovanni, imporresti l’etica della libertà con l’autorità quindi? Il discorso potrebbe reggere se avessi la sicurezza che tale costume fosse repressivo per “loro”. Il paragone delle svastica omologa il punto di vista emico con quello etico. Tra parentesi, non si pensa per il bene degli altri se non sei sicuro che effettivamete lo sia. Derivazione: obbligheresti a togliere il velo per quale scopo? Quello di esacerbare il conflitto nella loro comunità di sicuro. In merito alla critica dei simboli (espressione), non può derivarne la negazione (azione). La morale, anche la migliore che sia dovrebbe esser lontana della leggi di stato. Altrimenti critichi la religione facendone un altra, la tua. L’unico modo per combattere le morali oppressive, se realmente lo sono, è recepirne l’inesigibilità nella realizzazione dei diritti.
@Emanuele, sull’esacerbare il conflitto fra culture diverse hai probabilemnte ragione, anche se mi chiedo se in effetti non sia un palesare una certa immaturità culturale nel non accettare le critiche cercando il conflitto anzichè il confronto. Dall’altra parte, sebbene sia intellettualmente interessante filososfeggiare su questi quesiti bisogna essere concreti perchè sono problemi veri, che spesso sfociano in male e malessere fisico su persone reali, non su idee… e di questo ce se ne dimentica, parlandone, fin troppo spesso. Se vuoi l’opinione di una donna: ha ragione Emanuele, come tutte le cose, non provandolo, non puoi renderti effettivamente conto quanto sia difficile per una donna, anche in italia, uscire da certi dogmi culturali; percui se per far rispettare certi diritti, come la libertà di scelta che è diritto basilare di ogni essere umano, bisogna imporli: che sia.
@Daniela quando parlavo di conflitti alludevo nella propria comunità d’origine. Nel senso che per fare del bene poi ci rimette la pelle chi toglie il velo per decreto. Questo. Ammetto di averla presa da un punto di vista lontano dalla concretezza. E c’è un motivo, che inorridisco quando vedo la confusione tra etica e diritto. Ovviamente il bersaglio non era il multiculturalismo ma problemi di casa cattolica.
Il conflitto ben venga, ma che sia in relazione agli abusi di diritto e non a zeli su cibi, preghiere, abiti. Leggi sulla donna come quelle proposte sulle quote rosa e simili mancano il bersaglio. Rispetto altre questioni, le abominie che abbiamo in casa, sono frutto un pò della paura ma più dall’isolamento culturale che solo l’ipocrisia perpetua. Quindi è una questione che per esser imposta (diritti) bisogna che prima sia riconosciuta come valevole da voi donne. Molte però accettano meglio il vittimismo che la lotta perché rende di più. Altre addirittura cercano deliberatamente la sudditanza perché è più facile. Insomma è un problemi convincervi che i compromessi si pagano quando la strada è al ribasso.
Emanuele,
non imporrei l’etica della libertà, no. Trovo, però, un diritto degli individui decidere chi assumere: se il datore di lavoro di Torino – non era quello il caso, ma ipotizziamolo – non avesse voluto assumere la donna velata, perché nella sua azienda le donne hanno lo stesso valore degli uomini. Credo che lo Stato (ti ripeto: negli edificî pubblici) possa fare lo stesso.
Dopodiché, se mi chiedi “funziona?”, io ti dico che delle volte sì e delle volte no. Questo è il mio parere, delle volte servirà a far togliere un velo, delle altre impedir a una ragazza di andare a scuola.
Io, in quanto alla morale, sono utilitarista: secondo me è morale ciò che fa felici il maggior numero di persone. Nulla di più, e – permettimelo – nulla di meno. Chi lo decide? In genere, con dei caveat (es. l’offesa non può essere nell’occhio di chi guarda: io non posso dire che mi “offendi” se metti la maglia della Roma) le persone in questione.
Tu dici: e allora? Perché sei contrario al velo, magari è una loro libera volontà?
Io dico che ciò è frutto di una mentalità “culturalmente” (leggasi: barbaramente) inoculata, che nessuna donna considerebbe il suo corpo uno strumento del diavolo, e una dannazione, se non fosse condizionata.
Bada bene: non posso essere certo, o meglio non posso comportarmi come se fossi certo – per tutti di questo – ma, davvero, che io fondi un’altra religione, questo no.
La mia “religione” si fonda sul basarsi sulle evidenze, sui fatti, sulle prove, in tutti i campi. Dunque sì, vieterei di insegnare a scuola che Gesù è il figlio di Dio, o che Maometto è asceso in Cielo a Gerusalemme: ovviamente fino a che tali fatti siano provati.
Secondo me è questo il problema, quando parli di ricezione nell’esigibilità dei diritti: che, se ammetti argomenti di fede (cioè di convinzioni non suffragate da fatti), non solo manchiamo di un metodo comune – le mille ricette, diverse, che abbiamo per un obiettivo comune – ma manchiamo anche del fine comune: non vogliamo la felicità del maggior numero di persone, ma qualcosa che qualcuno “ha fede” essere migliore della felicità (non ricercare sulle staminali, non andare a letto con chi ti pare, non mangiare il maiale, etc).
Perché la morale non esiste, se non in relazione agli uomini, e questo è il principio stesso che dovrebbe fondare uno Stato.
Giovanni condivido gli assunti dello Stato laico da cui parti ma poi le conclusioni fanno emergere proprio la crisi del processo di secolarizzazione con cui si è trovato nell’applicare i propri principi di “neutralità” dalle religioni, sopratutto con le problematiche legate all’integrazione della cultura mussulmana. Lo Stato per mantenere le proprie prerogative (neutralità e pluralismo inclusivo) relega appositamente la sfera del religioso, sia le fedi che le pratiche, nella sfera dei fatti privati e non più pubblici. Per questo se fosse l’imprenditore che apporti ad esempio non avrebbe alcun problema, essendo legittimato nella propria libera iniziativa dal suo soggettivo interesse. L’aporia, come vedi nasce nella legittimità e in come dovrebbe esser istituita affinché primo non vengano contravvenuti i principi su cui poggia lo Stato costituzionale, in secondo luogo sul come rendere rappresentative queste istanze nelle sfera dei diritti di cittadinanza. Calarli con obblighi dall’alto vai fuori dallo Stato di diritto. Il dibattito pubblico attualmente è arenato sui presupposti e le molte condraddizioni che la democrazia porta con sé nei principi fondanti ma è nel come recepire e rendere rappresentative le voci concrete il problema. A mio parere, per uscire dallo scontro ideologico che si aprirebbe con leggi dall’alto, che mal celerebbero l’intregrazione forzosa alle proprie regole di condotta (privato) si dovrebbe partire dal riconoscimento della “LORO propria eguaglianza politica” (il pari trattamento nella disponibilità dei beni pubblici come asili, scuole, cure, sicurezza, ecc..) distanziandosi dalle proprie “differenze culturali”, almeno fin quando non sconfinano nella lesione dei diritti fondamentali.
Quando menzioni le procedure deliberative per l’istituzione dei diritti, in uno Stato pluralista non è possibile negare spazio di dibattito a risorse fondate sulla fede, anche se si potrebbe pretendere MOLTO di più sulla validità dell’argomentazione con cui vorrebbero riconoscimento in leggi. E qui non c’è spazio per qualsiasi asserto che abbia una fondazione esterna dalle pratiche umane, ultramondana insomma. Con un limite sugli insegnamenti scolastici ma non solo però. Se accettiamo solo la prova, l’evidenza e la verifica dell’ontologia materialista, potrebbe esser messa in discussione anche la validità del metodo storico e non solo delle religioni. Sono completamente d’accordo che tutte le norme giuridicamente emanabili, debbano esser comprensibili a “tutti” in un linguaggio a referenza empirica e ricacciato nel privato ogni enunciato che non possa esser tradotto in tal senso. Questo però non dovrebbe escludere dal dibattito (espressione) le risorse che attingono dalla credenza, anche religiosa. Ovviamente è il passaggio ulteriore di traduzione parlamentare che non dovrebbe ammettere tali risorse se non opportunamente tradotte nel linguaggio dell’argomentazione pubblica comprensibile per tutti. Senza metafisica, sacralità e varie insomma.
Emanuele, la prosecuzione naturale di ciò che dici nella prima parte è che lo Stato non potrebbe avere nulla a che ridire su di un bambino che entri a scuola con una svastica sulla maglietta, o la scritta “le donne sono inferiori”.
Sulla seconda parte mi sento di condividere ciò che dici, specificando che – per quello che mi riguarda – non dovrebbe essere permesso d’insegnare una religione ai propri figli. Mi fa orrore pensare che esistano dei bambini “cristiani”, per lo stesso motivo per cui mi fa orrore pensare che esistano dei bambini “marxisti”.
. Se accettiamo solo la prova, l’evidenza e la verifica dell’ontologia materialista, potrebbe esser messa in discussione anche la validità del metodo storico e non solo delle religioni
Pensa che considero ancora più scientifico del metodo scientifico, il metodo storico.
Quindi no, non sono d’accordo, perché lo dici?
Mannaggia Giovanni, ho una inclinazione preferenziale per il naturalismo epitemologico con tutti i limito che comporta, comprendendo anche l’ontologia materialista. Quindi per tali valori credo che abbiamo molto più in accordo dai distinguo etici. Nella ricerca storiografica è presupposta la prova documentale (testimonianza interpretata quindi in un testo) e la reintepretazione in prospettiva (seconda interpretazione), per questo se il metodo è scientifico, di certo non è una scienza indipendente dall’osservatore per come lo possono esser i fenomeni naturali. La domanda “che cosa esiste per lo storico” e diversa dal “che cosa esiste” per una scienziato, quest’ultimo osserva in prospettiva delle cause, lo storico con le ragioni. Ti renderai conto che c’è un abisso tra causalità e motivazione. Questo intendevo, poi per la metodologia i requisiti di scientificità vengono mantenuti, ma rimane una scienza “indiziaria”.
La svastica è considerata reato nel nostro sistema giuridico per ovvie ragioni storiche appunto. L’esempio della donna non credo, sarebbe possibile infatti, almeno ora. Prendi per esempio delle fattispecie che potrebero appartenere a reati d’espressione semmai. Infatti sostenevo sopra “(…)almeno fin quando non sconfinano nella lesione dei diritti fondamentali”.
Per la scuola neanche io farei insegnare religione per come didattica ora prevede. Ma storia delle religioni sì.