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L’attacco via internet alla fabbrica in Germania. E la responsabilità di dare le notizie

Un attacco violento via internet contro una fabbrica siderurgica in Germania ha provocato danni fisici all’impianto (Secutiry Affairs). Il pericolo è sempre stato parte dell’attività umana ma quello che preoccupa è la nuova dimensione tecnologica della violenza: i gruppi terroristici o criminali possono realizzare azioni devastanti semplicemente sapendo come usare internet.

Una notizia come questa ha diverse conseguenze. Aggiunge paura, rende maggiormente consapevoli della delicatezza di tutte le procedure di sicurezza che si impongono in azienda o nelle altre organizzazioni, può generare emulazione da parte di altri gruppi più o meno organizzati per fare del male… Bilancio? Forse serve più alla difesa che all’attacco: perché in fondo la violenza ha funzionato perché qualcuno è cascato in una trappola spear-fishing (mail fraudolenta mirata a un’organizzazione); mentre non offre particolari informazioni in più a chi vorrebbe emulare quell’azione ma non sa come fare un attacco del genere. E’ bene pubblicarla dunque. Ma…

Dare le notizie quando ci sono (verificate, documentate, accuratamente descritte): sembra una responsabilità ovvia di chi fa informazione, ma ormai non è più una regola sufficiente. Perché le notizie hanno conseguenze diverse nei diversi contesti nei quali arrivano. E possono avere conseguenze positive o negative sull’azione umana. Conseguenze? Occorrono tre approfondimenti seri e importanti nella cultura della produzione di informazioni (imho):

1. Mondi di senso. I casi delle decapitazioni o della brutale freddezza dell’assassino del poliziotto a Parigi (Mante) insegnano che non tutto viene pubblicato da tutti. Perché le notizie sono molte e una scelta delle notizie costituisce un mondo di senso che ha delle conseguenze sull’identità dell’organo di informazione e sulla qualità della comunità che lo utilizza. In rete, più o meno, c’è tutto: ma i diversi organi di informazione creano mondi di senso scegliendo le notizie e la forma con le quali vengono date. I click-bait creano mondi di senso di bassa qualità intellettuale e alta efficacia nella generazione di traffico. Ma non sono l’unica strategia possibile per il successo di un organo di informazione. Per favorire la diversità, occorre moltiplicare le forme di valutazione del successo in rete e altrove: la misurazione della quantità di traffico non può essere l’unica base analitica da utilizzare. Su questo occorre una riforma degli analytics che vada verso la misurazione anche della qualità.
2. Bilanciamento. Le redazioni e le persone che fanno informazione e selezionano le notizie da offrire al pubblico fanno – implicitamente o esplicitamente – un bilancio delle conseguenze positive e negative delle notizie. Se tengono conto solo degli effetti positivi o negativi per le organizzazioni stesse non sono organi di informazione civicamente sensati: sono soltanto meccanismi tecnologici adatti a raccogliere traffico e attenzione o potere e denaro. Se tengono conto anche degli effetti positivi o negativi per la comunità alla quale si rivolgono entrano in una dimensione di ragionamento ipercomplessa che merita una quantità di nuovi capitoli per sviluppare la “cultura giornalistica” e il metodo dell’informazione. Oltre a documentazione, verifica, indipendenza, accuratezza, completezza, questo genere di disciplina ha bisogno di una riflessione metodologica sull’analisi del bilancio delle conseguenze della pubblicazione.
3. Responsabilità. Una scorretta gestione della coerente costruzione di mondi di senso e una imprecisa o poco meditata analisi del bilancio delle conseguenze della pubblicazione implica delle responsabilità per l’organo di informazione e le persone che lo portano avanti? Le regole del gioco che ci sono già sono più che sufficienti per la maggior parte delle situazioni. Non vanno modificate a caso (vedi ad esempio #nodiffamazione). E probabilmente vanno rese ancora più chiare e stabili, con la bussola ispirativa dei diritti umani. Nel nuovo contesto servono fondamentalmente nuove autoregolamentazioni, basate su culture professionali e civiche più avvertite dal punto di vista epistemologico e su pratiche trasparentemente dichiarate nella costruzione dei mondi di senso (incarnate nelle promesse contenute nelle linee editoriali). Forse anche il bilancio tra i pro e i contro della pubblicazione può essere reso esplicito.

Di certo c’è solo una considerazione. Fare informazione è più facile – le barriere all’entrata si sono abbassate, le tecnologie sono disponibili, le cose interessanti e importanti da dire sono nella disponibilità di moltissimi cittadini – e la diversità delle fonti di informazione è un arricchimento. Ma il pensiero metodologico che sottende questa attività, la conoscenza delle strutture mediatiche e delle regole da seguire, l’amore per i diritti umani e per la conseguenza pubblica dell’informazione, discendono da discipline che occorre rendere contemporaneamente più sofisticate e più conosciute. Non sono questioni da giornalisti. Sono questioni da cittadini. Non è una faccenda che possa restare confinata nel mondo del giornalismo professionale (che tra l’altro ne avrebbe certamente bisogno): deve diventare cultura condivisa. Anche perché il pubblico consapevole riconosce gli organi di informazione consapevoli. E alimenta il successo della qualità.

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  • Piccola considerazione a latere sul modo in cui vengono raccontate le spaventose vicende nigeriane di questi giorni.

    Possibile che dei professionisti della parola definiscano “kamikaze” alcune bambine imbottite di esplosivo verosimilmente fatto esplodere dagli stessi che di esplosivo le avevano imbottite? Il kamikaze si sacrifica volontariamente per definizione: è ragionevole supporre che una bambina di dieci anni voglia sacrificarsi per il califfato (o per qualsiasi altra cosa, se è per questo)?

    Non riesco a decidere in quale delle tre fattispecie citate nel post rientri l’esporre i fatti usando concetti fuorvianti.
    http://www.treccani.it/vocabolario/kamikaze/

  • Finalmente un articolo che ha colto il problema centrale. Il fatto che è un “metodo”, con conseguente consapevolezza di quello che sono i mezzi di informazione, è difficile da diffondere e far conoscere. Il dubbio è che avesse ragione McLuhan: in un mondo dell’oralità abbiamo perso il “senso critico” tipico della cultura della scrittura. Forse…

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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