Morozov smonta l’eventuale coerenza filosofica di Jobs evidenziandone alcune contraddizioni, sul suo pensiero nel campo del design, sulla sua relazione con i valori della controcultura californiana e l’ossessione del controllo che si è diffusa dopo l’11 settembre, sulla condizione dei lavoratori della sua azienda.
In realtà, Steve Jobs non si sarebbe mai pensato come un filosofo. E del resto, alcune delle questioni apparentemente contraddittorie evidenziate da Morozov non lo erano poi troppo. Per esempio, la mania del controllo non emerge solo dopo l’11 settembre ma è un suo tratto specifico fin dai primi anni Ottanta, quando progetta il Mac, e si confronta da subito con il pensiero più “libertario” di Steve Wozniak. E quanto al design, certamente il suo debito nei confronti di Bauhaus e Braun è importante, come del resto nei confronti di alcuni tratti della sensibilità giapponese, ma sarebbe difficile pensare che abbia deciso di volerne testimoniare tutta la filosofia sottostante: la relazione tra forma e funzione regge sempre fino a un certo punto nelle macchine che servono a far girare programmi prodotti da altri e questo vale sia nei telefoni con le apps sia nei computer con i software.
Ma il contributo “smitizzante” di Morozov è benvenuto soprattutto se aiuta a considerare le conseguenze delle innovazioni con un metodo libero dalle incrostazioni ideologiche.
E la riflessione sulla semplificazione nell’uso della tecnologia voluta e realizzata dalla Apple, per esempio, può generare qualche riflessione. Da un lato, conduce persone che non hanno alcun interesse nella tecnologia a farne uso per ottenere risultati creativi nuovi. Dall’altro rischia di diffondere una cultura della passività nei confronti della tecnologia, una sorta di analfabetismo tecnologico che può riservare qualche problema. Morozov stesso però esclude che la Apple possa per questo avere avuto un effetto frenante sull’innovazione. Casomai, dice, può contribuire alla banalizzazione del web attraverso la logica delle apps. Una conseguenza che peraltro è possibile emerga dalla logica che stanno seguendo tutte le grandi piattaforme attualmente vincenti, da Amazon a Google, da Apple a Facebook. Ma non si può peraltro negare che accelerando la dinamica di adozione dell’html5, mentre faceva nascere il mercato delle apps, la Apple abbia anche rafforzato il progresso del web.
Insomma. La critica di Morozov è utile per alimentare la consapevolezza critica e contrastare la passività nei confronti della tecnologia. Non è rivolta particolarmente contro Steve Jobs, ma piuttosto con alcune esagerazioni che sono state compiute da lettori troppo elogiativi. E di certo non tenta di smontare l’importanza del contributo economico e culturale di Jobs, anche quando accenna alle sue sue bizzarrie caratteriali. Alla fine, storicamente, nella figura pubblica di Steve Jobs prevale la sua capacità ispirare chi percorre la difficile strada dell’innovazione.
Luca,
la prima metà del testo (che non dimentichiamolo si intitola paraculamente “Contro Steve Jobs” è una analisi semicolta e un po’ pretenziosa del rapporto fra il design apple e il bahuaus) un po’ come se tu dedicassi una cinquantina di pagine a colti ragionamenti sul come mai io non sono un olimpionico dei 400 piani. Il resto del libro fruga come puo’ nelle (tante) contraddizioni di Jobs basandosi su piccoli frammenti ed interviste marginali. Tutto il testo è fastidiosamente composto in un tono di lieve dileggio nei confronti di Jobs di Ive e di tutto il cucuzzaro. Io l’ho trovato complessivamente molto spiacevole. Di solito i libri brutti li chiudo e non ne parlo più. In questo caso non ce l’ho fatta.