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Qual è il vangelo dell’Evangelist? Finale di trilogia

Finisce con questo post una trilogia dedicata a una questione minima che però consente di riflettere sulla strategia digitale italiana. I precedenti post sono linkati in fondo al pezzo.

Resta un tema. Serve un evangelist per sostenere un piano digitale italiano? Alcuni commentatori lo hanno sostenuto. Senza spiegare in che cosa consisterebbe il vangelo dell’evangelist. E allora vediamo qualche ipotesi.

Partiamo da un esempio magistrale. Il più grande “evangelist” della storia della tecnologia è stato Guy Kawasaki. (Sembra un buon modo per iniziare creando un po’ di attenzione, no?). Un vero maestro, per la verità. La sua storia comincia con un grande insegnante di inglese, del quale ricorda: «mi ha insegnato che la chiave della scrittura è l’editing». Prosegue con studi di altissimo livello: psicologia a Stanford e management a Ucla. Comincia a lavorare in un’azienda di gioielli, esperienza che apprezza: «Ho imparato una lezione di grande valore, come vendere». Raggiunge l’apice della notorietà come “evangelist” alla Apple, dove comincia nel 1983, quando sta per arrivare il Macintosh, il computer che ha cambiato la storia dell’informatica. Riusciva a entusiasmare per un computer contagiando l’audience in un affetto intelligente per il Macintosh che andava ben oltre il tifo o il fanatismo: era vero amore. (Parole esagerate si dirà, ma servono a dare un’idea da evangelist…). Insomma, era un grande professionista della vendita, quasi un artista. Chissà se è stato lui stesso a inventare quella carica di “evangelist”: di certo se l’è portata dietro per tutta la carriera (Wikipedia e il suo sito). Nel suo libro “Enchantment” spiega come influenzare quello che le persone faranno mantenendo un alto standard etico. Dice che il mestiere è basato su tre componenti: occorre piacere, meritare fiducia e lavorare per una grande causa. La sua innata simpatia e la sua grandissima preparazione sono state impegnate quasi sempre sull’evangelizzazione all’uso di prodotti precisi che però significavano qualcosa di più grande di loro: il Macintosh era un genere di prodotto così. E successivamente i prodotti per i quali ha lavorato erano piuttosto importanti. E suoi risultati erano comunque misurabili: in fin dei conti, doveva vendere.

Ebbene: c’è un possibile parallelismo tra un evangelist così e il lavoro che dovrebbe svolgere il digital champion italiano? A parte la piacevolezza della persona, il suo problema sarebbe quello di trovare un giusto equilibrio tra la credibilità e la causa da vendere.

Per vendere con credibilità un pezzo di piano digitale italiano si devono alzare le aspettative ma non oltre il realistico, fare apprezzare un piano ma non andare oltre il possibile, convincere all’uso delle tecnologie pubbliche ma senza presentarle meglio di quello che sono. Insomma, che cosa potrebbe vendere un grande evangelist? Si può solo immaginare qualche risposta, per puro titolo di esempio.

Se puntasse sull’importanza di adottare le tecnologie attuali della pubblica amministrazione digitale dovrebbe assumere un tono contrito e simpaticamente connivente con il pubblico: ma venderebbe ben poco perché ci sarebbe poco da vendere. Se puntasse a vendere le tecnologie che stanno uscendo adesso dai cantieri della pubblica amministrazione, tipo la fatturazione elettronica, potrebbe trovare qualche ascolto, anche se abbastanza settoriale. Ma non ci sarebbe un vero e proprio grande “prodotto” da vendere almeno fino a che una nuova visione non sarà espressa dal governo e dalle persone chiamate ad articolarla e fino a che l’Agid non l’avrà interpretata e realizzata in modo eccellente superando le enormi difficoltà che ci si possono immaginare. Ci vorrà più di una settimana. Più di un mese. Magari un anno per le prime cose davvero nuove. Se puntasse a vendere quello che oggi su internet funziona bene si troverebbe a proporre soluzioni di aziende, organizzazioni non profit, cose fatte all’estero da qualche amministrazione illuminata. Ma sarebbe un lavoro da digital champion dell’agenda digitale italiana? E allora magari, per evitare di andare lontano, potrebbe far notare con forza che adesso la dichiarazione dei redditi arriva precompilata grazie all’ottima piattaforma del fisco italiano: ma forse non riuscirebbe davvero a fare amare questo prodotto.

Evidentemente non avrebbe senso – ora – tentare di fare l’evangelist delle realizzazioni digitali della pubblica amministrazione italiana. Sarebbe bello che avesse senso: cioè sarebbe bello – e non è escluso che succeda – che si arrivasse ad avere un’interfaccia elegante, pratica e intelligente della pubblica amministrazione italiana, con funzioni pensate per gli utenti, veloci, semplici ed efficienti. Ma ci vorrà un po’ di tempo. E si può scommettere che quando gli italiani vedranno qualcosa del genere saranno davvero disposti ad amarlo, forse senza bisogno di un evangelist.

Allora escluso questo, a che cosa si potrebbe dedicare un evangelist? A diffondere la cultura digitale, si dirà. In che senso? Varie accezioni sono possibili. A diffondere l’uso di internet. Oppure a diffondere la conoscenza della scrittura di software. Oppure a diffondere l’idea che internet è inclusiva e che è un grande investimento per il futuro e che tutti dovrebbero usarla. O a sostenere che internet è la più grande occasione per rigenerare collaborazione tra le persone. O a dire che internet consente l’accesso a una ricchezza culturale senza paragoni. Per questi obiettivi si può pensare che occorra un evangelist perché sarebbero tutte grandi e giuste cause da sostenere: ma sarebbe possibile perseguirle senza perdere credibilità? Forse sì. Senza manipolare gli ascoltatori? Forse anche. Senza generare un’evangelizzazione uguale e contraria da parte di chi sostiene altre cause, tipo: internet è difficile ed è una cosa per tecnici; l’economia vera è quella che produce beni materiali come si è sempre fatto non questa cosa delle app per i telefonini; internet è piena di pedofili e pirati; internet è violenza; internet è piena di americani che ti spiano e di aziende che ti sfruttano? No, questo non sarebbe possibile. Un’evangelizzazione pro internet finirebbe per generare una evangelizzazione uguale e contraria. Perché non si può negare che internet non è solo rose e fiori. E si presta a campagne pro e contro.

La pensava così anche Aaron Swartz, un ragazzo meraviglioso che amava molto internet e che ha contribuito a costruirla. In una delle sue ultime interviste, disse: «Di internet ci sono opinioni molto polarizzate. C’è chi dice che è una cosa magnifica, liberatoria… E chi dice che è terribile, che riduce la libertà… Il fatto è che tutte e due le opinioni sono vere. E quale sarà la strada che prendiamo dipende solo da noi». Cioè dipende dalla diffusione di una vera, sana, ricca, attiva, consapevole cultura di internet. Che in Italia richiede un percorso articolato: alfabetizzazione basilare e insegnamento a forme di utilizzo della rete elementari ma tali da migliorare immediatamente la vita; educazione alla conoscenza dei modi con i quali si può distinguere il sano e l’insano che si incontra in rete; ispirazione alla passione per la tecnologia da scrivere e manipolare non solo consumare; conoscenza delle opportunità di business connesse al commercio internazionale in rete e alle mille altre opportunità economiche che offre l’innovazione per le startup e per le grandi aziende mature; apprezzamento e difesa delle caratteristiche fondamentali della rete come la net neutrality; conoscenza delle caratteristiche del marketing online e delle operazioni svolte dalle grandi piattaforme che usano i Big Data; invenzione di nuove soluzioni per il dibattito civico, per la ricostruzione di una società decente e autodifesa dalle forme ideologiche di manipolazione… e così via. Questa cultura sana, bella attiva della rete è possibile, ma non si sviluppa con l’evangelizzazione (che anche nei casi in cui è veramente credibile genera altrettanta foga contraria che a sua volta si basa su elementi di verità): si sviluppa con l’esperienza, il lavoro a scuola, la sperimentazione, l’iniziativa di business… e così via.

Le narrative, in tutto questo, sono importantissime. Ma non ce ne può essere una che valga per tutte come se fosse il vangelo.

Insomma. Non è l’evangelizzazione che ci serve. Ci serve esperienza, consapevolezza, sincerità. Ci serve informazione.

ps. Se non serve un evangelist onesto (sul modello di Guy), a maggior ragione non serve un evangelist disonesto, che non punta sulla credibilità ma sulla manipolazione, attraverso ogni genere di trucco, adulazione, minaccia, vittimismo: un personaggio il cui unico vangelo è se stesso non servirebbe certo al paese. Lo ricordo solo qui nel ps perché è inutile analizzare questa ipotesi dato che di certo nessuno la sostiene. Adesso però forse ne abbiamo parlato abbastanza di questa storia. Faranno quello che riterranno opportuno, alla fine. E avranno le loro ragioni. Ma qualunque decisione non cambierà, imho, il fatto che quelli che fanno la storia, innovando ogni giorno sapranno che i champions sono loro.

Vedi anche:
We are the champions
Comunicazione, informazione e il piano digitale italiano

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  • E se il titolo del racconto fosse : “risolvi i tuoi problemi e conoscerai la tua terra” ? Le interessa parlarne?

  • Post che da parecchi spnti di riflessione , grazie.
    Evangelist e’ un termine che ho sentito pronunciare la prima volta da Richard Stallman, non ricordo pero’ in che anno, forse 1988.
    Purtoppo non riesco a comprendere il concetto dell’internet e delle nuove tecnologie orientate alla “vendita” ,sarà che sono vecchio.
    Vint Cerf, uno dei “padri” dell’internet, diceva: “L’internet è un luogo, un ambiente, fatto di persone e delle loro miriadi di interazioni. Non è meramente una tecnologia ma un modo di collaborare, condividere e aver cura gli uni degli altri.
    È radicata nella realtà e la realtà ha la radice nei nostri cuori.”

  • Sono molto d’accordo e mi piace il riferimento a Guy Kawasaki: non sapevo avesse studiato psicologia, ora mi spiego molte cose. Mi permetto di aggiungere che, a mio avviso, un settore in cui l’evangelizzazione servirebbe esiste: la PA, a tutti i livelli, dal micro al macro. Non so quanti siano i dipendenti della PA, di sicuro sono cittadini italiani che potrebbero disseminare a livello capillare e in tutto il territorio nazionale un nuovo modo di vedere e agire.
    Vorrei anche sottolineare una cosa: la vulgata che vorrebbe l’impiegato pubblico refrattario all’innovazione probabilmente ha un fondamento, ma se si osservano i dati che definiscono lo stato e l’efficienza della pubblica amministrazione è evidente che la resistenza determinante all’innovazione è al livello dei decisori. Chi metterà le mani in questo ginepraio dovrà avere nervi di diamante (per qualità e resistenza) e un vero talento in fatto di intelligenza emotiva (sto giusto rileggendo il libro di Goleman).

    • Ciao, grazie del commento che mi dà modo di fare una precistazione: non serve l’evangelista nazionale, ma di certo la funzione di evangelizzazione nel pubblico serve eccome magari svolta da chi innova con il suo team per convincere i colleghi a cambiare o il pubblico ad adottare una soluzione.. un’evangelizzazione bottom-up che viene da chi fa le cose è positiva… imho

  • Due spunti su Kawasaki.

    1. Il ruolo di evangelist non era rivolto al pubblico ma alla comunità di sviluppatori. La sua “mission impossible” era riuscire a convincere le aziende che producevano software per Apple II a iniziare a scrivere software per questa cosa nuova, che non era espandibile, che aveva poca ram, che usava una serie di formati e interfacce completamente nuovi, non aveva le freccette sulla tastiera ma aveva una cosa nuova chiamata “mouse”. In modo simile, mentre la comunicazione nei confronti del pubblico generale non mi sembra abbia senso per una singola persona, l’evangelizzazione nei confronti delle migliaia di funzionari pubblici, che in ufficio usano IE7, non sanno fare chiamate a 3 con i cellulari e ogni tanto mandano ancora un fax, sarebbe una cosa buona e giusta. Il motivo principale per cui i servizi della pubblica amministrazione fanno schifo è che dentro la pubblica amministrazione non c’è una singola persona che sia in grado di valutarli (o abbia la minima voglia di usarli).

    2. alla base dell’idea di “evangelist” c’è il concetto che i tuoi interlocutori diventano a loro volta evangelist. Roba non da poco 😉

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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