Tante cose si sentono incontrando persone che pensano e studiano e ascoltano. In questi giorni è successo con particolare intensità. Prendo un taglio, tra i molti emersi. E tornerò sugli altri.
Ilvo Diamanti raccontava di quel 50% di ragazzi italiani sotto i 28 anni che hanno la residenza nella casa della famiglia d’origine. Non vuol dire che ci abitino, spiegava. Vuol dire che sono pendolari. Che lavorano o studiano o fanno qualcosa da qualche parte e hanno la residenza a casa dei genitori. E il 50% degli italiani pensano che per trovare lavoro si debba andare via dall’Italia. Il 75% dei giovani italiani dicono “se posso vado via dall’Italia”.
Una riunione a Bologna tra decine di persone di buona volontà e grande capacità, raccolte da Michele D’Alena. Si domandavano come contribuire. Startup, imprenditorialità, racconto politico. Soprattutto il senso di insicurezza dovuto alla mancanza di un racconto sensato della prospettiva e di una struttura capace di valorizzare i risultati delle attività di innovazione sociale e unire le forze degli innovatori.
Giuseppe Ragusa raccontava degli italiani che lavorano a Londra, in startup fondate da italiani, che si sono localizzate in Inghilterra per trovare persone capaci. E che cercando hanno finito per trovare altri italiani. Erano le infrastrutture, l’ambiente favorevole, a portarli là. Forse.
Forse sta emergendo un cosmopolitismo imperfetto. La rete abilita la ricerca di nuove forme di connessione ai mondi che crescono o almeno offrono opportunità, anche senza muoversi dall’Italia e anche senza perdere contatto gli italiani. È imperfetto perché ancora non è raccontato pienamente. Ma è un fenomeno che sta accadendo. E questa è la prima puntata di una storia tutta da scrivere.
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