L’immigrazione nel Veneto secondo i dati elaborati dalla Fondazione Nordest.
2002 nuovi iscritti 26.668 saldo 23.207
2003 nuovi iscritti 54.949 saldo 50.455
2004 nuovi iscritti 48.506 saldo 43.272
2005 nuovi iscritti 37.834 saldo 31.927
2006 nuovi iscritti 34.184 saldo 27.502
2007 nuovi iscritti 58.880 saldo 51.840
2008 nuovi iscritti 58.265 saldo 49.354
In Veneto, dove l’immigrazione è fondamentale per molte lavorazioni industriali, questo tema è sentito come un problema sempre più pressante, per la scuola e la vita quotidiana. I numeri certo aiutano a capirlo. Anche perché riguardano soltanto i casi di persone ufficialmente registrate. Tra dinamiche dell’emergenza e mancanza di profondità del progetto collettivo, l’argomento sembra sfuggire di mano. Con tutta l’umiltà che occorre di fronte a un tale problema, si percepisce nell’aria che è tempo di fare un salto di qualità civile. Da dove emergerà?
Semplifico tanto: non dalla politica ma dall’impresa che ne ha bisogno. Qualche voce ogni tanto si sente, anche se fioca. E a ben vedere non servono di certo a imprenditori come Tomat, che li assumono per onorare obblighi di legge, ma a buona parte dell’elettorato della Lega, almeno al nord. C’è il problema che molti italiani dequalificati si sentono sotto assedio. Dal mio punto di vista se il cambiamento arriverà, partirà dall’efficienza del mercato del lavoro per tutti.
Visto che Marx sembrava tornato di moda, tiriamolo in ballo. Se un certo tipo di lavoro (manuale, ripetitivo, disagevole, soprattutto quest’ultimo, bravi tornitori non si trovano, punto, e nessun immigrato viene preso perchè è un bravo tornitore) può essere sostituito dalle macchine, oppure dal lavoro immigrato, le aziende hanno di fronte due strade: automazione o immigrazione. Confindustria ha spinto su immigrazione, magari non esplicitamente, ma implicitamente. Perchè? Perchè sapeva benissimo cosa sarebbe successo a tutto il mercato del lavoro (non è a isole, ma a vasi comunicanti, vi ricordate i messaggi mafiosi quando gli informatici alzavano le pretese: “sapete quanto guadagna un ingegnere indiano”? In Italia non ci sono ingegneri indiani, ma quelli italiani guadagnano un peperone e una carota: messaggio arrivato). La Lega non c’entra Emanuele, non c’entra. C’entra il ceto imprenditoriale italiano.
Ho forzato la presa Marco con la Lega. Rimane in sospeso il motivo per cui debba esser tale partito a cavalcare l’onda del malcontento, quando ne verrebbero incassati i tornaconti dal ceto imprenditoriale, il quale non mi risulta esser sostenitore leghista. Almeno se non comprendiamo la piccola impresa e gli autonomi, i quali non potrebbero automattizzare alcunché, tanto meno investire per la formazione di abilità artigianali, le quali da un giorno all’altro non si apprendono.
Per Confindustria è chiara la posta e per ora è stata gestita con svariati vantaggi e qualche ipocrisia. Posso anche dire che mancano tali mestieri per assumere 100 extracomunitari su 300 anche se sbandiero un brand di eccellenza e tutto intriso di maestria artigianale. Altri settori hanno vie più agevoli perché ad intensa automazione produttiva. Altri ancora mandano all’estremo la flessibilità per problemi di concorrenza. Infatti per dirlo in modo duro, vengono sfruttati e difesi per esserlo. Senza tralasciare chi li assume per obblighi regolementari e non li vorrebbero neanche sfruttare. Con questo non si può dire che il problema è dell’industria che li utilizza nei più svariati modi né della sola Lega che utilizza risentimenti molteplici e contrastanti con i primi per convogliarli nello straniero. Continuo ad esser convinto che l’immigrato venga vissuto e gestito come problema di pancia, quando nella realtà incide ben poco, se non come paura da scaricarci. E su questo non puoi negare che la maestria è della Lega.
La reazione verso l’immigrazione selvaggia (perchè questa è, e accelera) ha diverse motivazioni: sociale (la società multirazziale può esistere, forse anche quella multietnica, dipende dale etnie, quella multiculturale no, la società si spezzetta in tante minicomunità, e la società che resta è una specie di framework in decomposizione, finchè o una comunità non prende il sopravvento e sottomette le altre o le comunità si lasciano proprio); economica (pensare che il mercato del lavoro sia a compartimenti stagni è un errore capitale, che tra l’altro il sindacato di una volta ha sempre combattutto. Ora è rimasta solo l’opposizione alle gabbie salariali); culturale/religiosa. La Lega sta cercando di intercettare almeno parte di queste reazioni, che sono prepartitiche e forse anche prepolitiche, e incanalarle. E’ la strategia del PCI verso la classe operaia (da cui la guerra sorda e anche sporca contro il sindacalismo di matrice socialista e cattolica, che continua, anche in luoghi insospettabili: a guardare le statistiche dei morti ammazzati, il sindacalista comunista antimafia di Baaria sarebbe dovuto essere socialista), che funziona alla grande perchè tutti gli altri non capiscono nemmeno il problema (come quei liberali che si stupirono del numero dei voti al Partito Popolare e ai Socialisti nel 1913 con il suffragio universale). Le norme che sono state introdotte sull’immigrazione rompono le scatole a molti imprenditori (come le norme sul Made in Italy, che sono state infatti boccate in CDM dalle lobby confindustriali, o almeno alcune) e ai sindacati, che di fronte al declino degli iscritti si sono ridotti a inseguire gli immigrati, nn capendo che con l’immigrazione clandestina sono già sconfitti.
E poi, scusate, dopo tutte le chiacchiere sulla decrescita e che bella che bella che bella, ancora gl intellòs non trovano di meglio che andare in sdiliquio perchè è solo grazie agli immigrati che la popolazione italiana cresce, e l’economia, e le pensioni. Ma, chi l’ha detto che in Italia si debba essere in 60 milioni con 15 milioni di disoccupati, sottoccupati, inoccupati, fantaoccupati etc. ? ma se fossimo in 45 milioni e ci fosse piena occupazione senza immigrati non sarebbe meglio ? Essere meno per lavorare tutti.
Concordo con questa visione della realtà. L’analogia della Lega con il PCI è calzante, cambia il metodo ma nella sostanza ci sono le affinità che delinei. Sul multiculturalismo bisognerebbe fare un discorso che esca dalle sacche della contingenza storica. Nel senso che rimane un modello nel quale determinate vicessitudini storiche possono esser soddisfatte. L’esempio è la politica americana degli ultimi trent’anni. In un contesto di estrema flessibilità del lavoro con bassi tassi di disoccupazione, c’è eccesso di domanda di lavoro e le imprese vanno in concorrenza con rialzi di salario, questo porta ad una rincorsa nell’attrazione dei migliori e le scuole competono per formarli. I nuovi ingressi insomma sanno che o si qualificano per stare alle regole del gioco o vivono ai margini senza alcun tipo di assistenza, ciò che ne degrada la condizione e ne accelera la fuoriuscita sociale. In teoria in questo sistema gli incentivi sono l’impegno e il merito, l’altra via è l’illegalità, duramente punita. Questo non sarà il multiculturalismo per come la teoria lo definisce ma considerando che il valore attribuito alla persona fa perno alla realizzazione professionale, razza o etnia di fatto rimangono armi più spuntate per la costruzione identitaria.
Da noi in mancanza di tali incentivi si apre la via della mediazione tra più interessi, troppi e spesso discordanti, questo credo sia il problema.