Impressioni basate soltanto sull’esperienza: l’entrata in campo di Facebook e di Twitter ha mei primi tempi messo in difficoltà i blog. L’attenzione dei blogger e l’accuratezza delle relazioni tra i blog si è sulle prime sfilacciata perché in qualche modo la rete si è riprodotta in più livelli. Negli ultimi tempi però l’ondata Facebook sembra relativamente rallentata. E la rete delle relazioni si sta ricomponendo a un livello multipiattaforma ma di nuovo più ordinato.
Riadattamenti nei social media
In sintesi. C’è meno frenesia Facebook. C’è l’effetto calmieratore di Twitter. C’è la sintesi in diretta di FriendFeed. I blog sono dedicati a una maggiore riflessione ed evolvono una sorta di “linea editoriale”. Ma nel complesso la rete delle relazioni si è allargata e ricomposta in un’unità che comprende le diverse piattaforme. E la conversazione riprende.
Manca peraltro ancora un sistema per favorire l’agenda emergente del popolo della rete. Forse non è questo il compito della conversazione. O forse è ancora presto. I filtri personali restano prioritari per leggere ciò che si dice in giro. E i filtri collettivi, dove si formerebbe eventualmente un consenso sull’ipotetica agenda, non sono ancora abbastanza credibili.
Impressioni.
Filtri collettivi… c’è poco, ma qualcosa c’è…
http://www.frontieredigitali.it/online/
… aspetto anche io tempi migliori, adesso è ancora troppo faticoso.
impressioni che (immagino) abbiano a che fare con i feeling personali
anch’io vedo un rallentamento facebook e mi chiedo da un bel po’ se esiste una misura oggettiva dell’attivita’ in essere sul social network indipendente dal mio feeling (che ne so … numero di post al minuto, cose cosi’ …)
mi sembra anche di vedere una maggiore profilazione dei social network.
Twitter utilizzato per breakin news e per celebrities che rimangono in contatto col loro pubblico.
Facebook più ludico
Linkedin sembra avere accentuato la sua vocazione di network professionale.
La (novità?) è la circolarità degli aggiornamenti: un blog viene aggiornato, lo strillo è su Twitter e su Facebook e si risponde attraverso FB o sullo stesso blog.
Il guaio è il tempo, per seguire aggiornare,conversare,ecc ci manca appunto la risorsa scarsa:il tempo
Ma quanti blogger hanno ormai iniziato a sfruttare la visibilità acquisita per retribuire in qualche modo la loro attività?
E’ vero, forse c’è un pò meno frenesia nell’uso di Facebook. Sarà perchè l’effetto “hype”, relativo all’entusiasmo che esplode quando si diffonde un nuovo social media, è alle spalle.
I social network stanno diventando così importanti perché dietro questi strumenti di relazione partecipativa c’è un fenomeno sociale inarrestabile e legato alla rinascita di quella “cultura della partecipazione” che i media tradizionali per anni ci hanno negato, relegandoci al ruolo di spettatori passivi.
C’è anche da dire che le persone, e sopratutto i più giovani, sanno muoversi molto bene con questi nuovi strumenti del socializzare e del comunicare; non è da escludere la possibilità che la gente, già da oggi, sia in grado di costruire la propria “agenda mediatica” in senso 2.0 attribuendo il giusto peso a ciascuno strumento…..
vedremo!
Buon lavoro!
Aggregatori di aggregatori, come diceva Luca si stanno sviluppando più livelli di flussi di comunicazione forse la soluzione è in servizi come: http://friendfeed.com/ ma fino a dove possiamo spingerci? questi flussi si autoregolano in qualche modo?
Alessandro Prunesti wrote:
>dietro questi strumenti di relazione >partecipativa c’è un fenomeno sociale >inarrestabile e legato alla rinascita di quella >”cultura della partecipazione” che i media >tradizionali per anni ci hanno negato.
E’ una lettura affascinante e credo ci sia del vero, ma penso che la crisi dei media tradizionali abbia ‘un’eziologia’ un po’ più complessa di così (non mi getto in analisi/sintesi che altri hanno già sviluppato in questo blog e altrove). C’è però un’altra cosa che mi colpisce in questo scambio ed è l’osservazione di De Biase:
>Forse non è questo il compito della >conversazione. O forse è ancora presto.
La prima osservazione centrata su quali sono i compiti ‘canonici’ della conversazione. La seconda più aperta a un’ipotesi evolutiva degli stessi.
A proposito di filtri collettivi e ipotesi di formazione di consenso/agenda, mi viene in mente un’osservazione di George Steiner in ‘After Babel’ sui contesti associativi. Dice Steiner: […] non esistono due esseri umani che abbiano in comune un identico contesto associativo. Poiché tale contesto è composto della totalità di un’esistenza individuale […] non solo la somma della memoria ed esperienza personale, ma anche la riserva di quel particolare subconscio, differirà da persona a persona. […] Tutte le forme e notazioni del discorso, pertanto, implicano un elemento latente o realizzato di specificità individuale. Esse sono in parte un idioletto. Qualunque gettone di scambio comunicativo comporta un aspetto potenziale o esternalizzato di contenuto personale”
Così commenta Donald P. Spence citando proprio quel passo di Steiner nel suo ‘Verità narrativa e Verità storica (ed. PSYCHO, G.M & C. Firenze) a proposito di linguaggio pubblico e linguaggio privato: “quando abbiamo una conversazione, condividiamo le stesse parole, ma non gli stessi significati. UNO dei paradossi della comunicazione sta nel fatto che il lessico di ciascuno è il prodotto della sua esperienza personale.”
Mi pare difficile ipotizzare che l’incontro di tanti idioletti reso possibile da Internet possa dar vita (e consolidamento) ad agende valutabili secondo gli attuali criteri categoriali. Tipo: l’agenda è di chi? Chi ne risponde?
D’altro canto resta l’idea di conversare in quanto ‘trattenersi in amichevoli colloqui’. Crea le basi per confronti aperti e utili anche se a bassa intensità, e per considerare orizzonti di senso anche lontani che diversamente potremmo non contemplare. Purché resti spazio per la riflessione, che non è necessariamente sempre ‘amichevole’.
Un conto sono le sensazioni personali un altro sono le misure reali, che in Italia, al momento sembrano non esserci. Per questo magari si sovrappone una impressione data dall’abitudine.
Una ricerca Nielsen online, riferita al Regno Unito e pubblicata il 21 di maggio, dice che cresce il tempo passato dagli utenti su Facebook e su altri siti sociali. In particolare il tempo passato su Facebook dalle persone aumenta del 258% (aprile 2009 su aprile 2008).
Una ricerca simile di Comscore, riferita agli US, di fatto dice le stesse cose: a fronte di un calo delle ricerche su Facebook del 28% ci sono aumenti considerevoli in altri siti sociali. Tra questi comprendo anche eBay che sul concetto di community ha costruito la sua fortuna.
Se invece mi baso sulle mie impressioni trovo un deciso aumento di interesse delle aziende che usano le pagine fan di Facebook in modo migliore di prima. Le più interessanti sono anche in grado di separare i contenuti delle fan pages da quello dei blog.
Dopo di che la strada è ancora molto lunga.
Tamara, il punto di vista sulla carenza di strutturazione del linguaggio, non dipende dall’essenza del linguaggio. Alla soggettività interpretativa della fruizione non sono esclusi i media meanstream. Non a caso però questi la limitano con la propria storia, la linea editoriale, le routine di produzione standard, l’identità degli autori, ecc ecc.
E’ con queste procedure che viene arginata la deriva interpretativa.
L’agenda dipende dal ruolo istituzionalizzato che queste hanno conquistato nella pratica e nell’immaginario sociale come loro legittima funzione. Ciò che non hanno i media digitali, anche perché media non sono, e forse non vogliono neanche avere. E’ come se ci fossero una pluralità di salotti à la Habermas, tutti possono dire e conversare ma solo sporadicamente qualcuno rompe il velo. La possibilità di scegliere propri interessi, congenialità tematiche, stile e tutto ciò che accentua l’identificazione, non dovrebbe esser un limite alla formazione dell’agenda setting, ben altro.
I rapporti di forza entrano in campo in questo caso, ammesso e non concesso che sia quello lo scopo.
>carenza di strutturazione del linguaggio, non dipende dall’essenza del linguaggio.
Sì, Emanuele, è nell’agire comunicativo che entra in campo la dimensione linguistica.
Vero, solo sporadicamente nella conversazione si va oltre la mera rappresentazione reciproca, risalendo da una dimensione più pulsionale, a una compiutamente relazionale capace di dar vita a un’agenda. Però accade, e se il fenomeno si proietta su più ampia scala e si sviluppa nell’incontro (e possibilmente intesa) fra soggetti che diversamente non si sarebbero incontrati si determina appunto quell’ampiezza di scelta che discende dalla varietà di interessi rappresentati. Certo, altrettanto ampia, e vaga, è la gamma di ipotesi che si possono formulare ora sulle dinamiche di formazione del consenso, come pure quelle che regoleranno il rapporto fra più agende contemporanee e non di rado contrastanti (per dirne una: la dinamica che interessa la censura dei blogger, da un lato, e la spinta alla libertà di espressione dall’altro, laddove non esiste; troppo pulsionale?); oppure quelle che potranno formularsi sui meccanismi di tenuta di questa o quell’agenda. In altre parole, spannometricamente, mi pare che mutando le dinamiche e allargandosi il campo, ci sia uno spostamento da evoluzioni deterministiche variamente prevedibili a scenari di possibile rinuncia a pretese di prevedibilità. In questo senso avevo parlato di difficile applicazione di criteri categoriali tradizionali. A giudicare da ciò che vedo (o forse da ciò che guardo perché mi interessa 😉 è nei paraggi dell’autorità e della tradizione che in certi luoghi del globo pare profilarsi la ‘battaglia’. Spero non si leggano overtones moralistici. Osservo (e ammetto anche di non voler indugiare oltremodo su questa o quella prospettiva teorica, temendo di perdermi il bello della diretta). Insomma trovo utile agganciare le riflessioni al mondo empirico. Per esempio: questa protesta contro la nomenklatura in Cina da cosa nasce? Dalla conversazione, dal pettegolezzo? E’ destinata a restare un fenomeno isolato?
http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/tecnologia/internet-numeri/rivolta-cinese/rivolta-cinese.html
Trovo interessante osservare l’effetto degli strumenti partecipativi nei paesi emergenti.
Comunque, tornando alla conversazione ‘amplificata’, riflettendo (conversando?) fra me e voi 😉 credo che le persone dovranno orientarsi con crescente efficienza attraverso un processo circolare che non è affatto nuovo, e che va dall’esplorazione (scoperta) alla realizzazione (azione), passando attraverso fasi intermedie di cristallizzazione (comprensione) e specificazione (gerarchizzazione e scelta), con tutte le competenze cognitive e affettive che ciò comporta. I campi tematici che si intersecano sono quelli del sé, (storia personale, personalità), dell’ambiente umano (famiglia, relazioni personali, micro-culture), delle attività umane (relazioni produttive e loro meccanismi di funzionamento, e poi ‘politiche’ e ‘politica’ prima ancora che ‘Politica’, forse). Voilà, ho scoperto l’acqua calda! Very complex indeed.
Hai reso bene l’idea Tamara. Ora comprendo pienamente cosa intendi con “categorie tradizionali” per intepretarli. Non c’è dubbio che il determinismo tecnologico sia refluito, lasciando il posto ad incontri teorici inauditi.
Che dal paradigma conversazionale si formeranno delle nuove “procedure”, se così si può dire, efficaci e legittime per definire temi di dibattito pubblico, è plausibile. Dico procedure, perché senza queste è tutto aleatorio e senza stabilità è difficile immaginare istanze rilevanti.
Come ricordavi, è arduo ora prospettare quali saranno i meccanismi di formazione dell’agenda setting. Come meno chiaro, proprio per le modalità organizzative non piramidali, saranno gli attori sociali che ne prenderanno parte, concorrendo per l’agenda building. Per ora dipendono più da un allargamento dei criteri di notiziabilità delle testate tradizionali. Questo non significa che debbano esser sostitutivi o conflittuali. A puro titolo di esempio, se un’iniziativa che volesse fare advocacy, arrivasse al grande pubblico tramite una testata giornalistica sensibile alle proprie istanze, non avrebbe raggiunto il proprio obiettivo?
Per una piattaforma di blogger, non è indispensabile infatti l’accredito per la copertura dei lavori delle commissioni parlamentari. La concorrenza è l’editoria tradizionale che la subisce in un qualche modo, mentre le iniziative dal basso hanno tutti gli incentivi a collaborare. L’assurdo è che buone iniziative spontanee propendano per il conflitto e la critica al giornalismo invece di ricercare la cooperazione.
Quello che rimane incerto dal mio punto di vista, sono non tanto le risorse (in fondo il vantaggio è proprio nelle basse barriere d’accesso) e le modalità con cui potrebbero avvenire (l’esplorazione è incentivata), ma lo spazio che conquisteranno attraverso i media tradizionali. Quindi da una evoluzione dettata più dalle posizioni che intraprenderanno questi ultimi: dalle mosse per ricollocarsi nel loro ambiente di riferimento (i network digitali informativi ma anche di socializzazione insieme ad altri soggetti come i lettori, l’innovazione tecnologica, la regolamentazione, ecc); dalle loro necessità (non solo economiche ma anche di consenso, credibilità, come per rivolgersi ai giovani).
Condivido completamente la portata del cambiamento che evidenzi, nei processi, nelle competenze, nelle sfere pratiche dell’agire e in quelle relazionali, fino ai cambiamenti dell’identità personale.
Rendendomi conto di sfoltire molto il campo, al costo di una eccessiva semplificazione, credo che la variabile indipendente si delinei molto più indirettamente, di conseguenza alle strategie dell’editoria tradizionale cioè, e osservata nella prospettiva dell’economia dei media.
Ho l’impressione che la cornice delle regole del gioco, dipendano più dal posizionamento che assumeranno i media tradizionali che devono confrontarsi con innovazioni apportate dalle tecnologie abilitanti, tra queste anche le nuove forme di conversazione.
Mi sembra di capire che parti da un orientamento più socio-antropologico della comunicazione piuttosto che economico. Sicuramente più affascinante della scienza triste.
>Questo non significa che debbano esser >sostitutivi o conflittuali.
è quello il senso, sì..
>se un’iniziativa che volesse fare advocacy, >arrivasse al grande pubblico tramite una >testata giornalistica…
non lo troverei sacrilego. Sarebbe come dire: più spazio alla società civile… ma da una testata giornalistica non mi aspetterei che abbracciasse questa o quella causa.. solo che fosse sensibile a far conoscere ‘ciò che c’è’ (per quanto incompleto e contradittorio) e non solo ‘ciò che dovrebbe essere’ ricercando conclusività ‘trascendentali’ anzi tempo 😉 (sono cosciente del fatto che sto semplificando al massimo…)
Tempo fa in un suo post (Cambiare il mondo – Innovatori cercansi) De Biase diceva che ‘l’innovazione nasce quasi sempre da un atto di ribellione […]da un pensiero spiazzante.’
Ecco, anche aprire il dibattito su cosa sia il giornalismo a chi ‘consuma’ notizie penso sia, rispetto agli schemi tradizionali che volevano la definizione di giornalismo confezionata ed esaurita all’interno della ‘famiglia giornalistica’, un ‘rischio’ catalogabile come micro-atto di ribellione potenzialmente ‘fruttifero’. Interessante, in proposito, il link al discorso di Nicholas Lemann nel post Reinventare il giornalismo di lunedì scorso.
http://www.shirky.com/weblog/2009/05/guest-post-of-sorts-nicholas-lemann-at-columbia-journalism-school-graduation/
Proseguiva però De Biase, in ‘Cambiare il Mondo, Innovatori cercansi:
‘Che cosa fa la differenza? La qualità intellettuale del progetto che trasforma il gesto ribelle in un processo abbastanza ampio e profondo, abbastanza coinvolgente, da essere capace di generare conseguenze di lunga durata’
E qui torniamo alla complessità del compiersi di quel processo di comprensione e accoglimento da parte del contesto che – citando ancora De Biase – passa attraverso ‘coordinate culturali, sociali, economiche, tecnologiche, ecologiche’…
Sono coordinate che si giocano su tempistiche non intrinsecamente armoniche, pertanto, ogni ipotetico equilibrio non può essere che dinamico per definizione
>le iniziative dal basso hanno tutti gli >incentivi a collaborare. L’assurdo è che buone >iniziative spontanee propendano per il conflitto >e la critica al giornalismo invece di ricercare >la cooperazione.
un certo livello di conflittualità direi che è fisiologico, all’inizio… ma siccome è verosimile che ognuno di noi si formi percezioni diverse anche in base al proprio universo di interessi, mi spingo a dire che percepisco una certa forma di chiusura alla cooperazione (o forse, ancor prima, alla sperimentazione) anche da parte di alcune testate giornalistiche italiane che stanno, per così dire, online, facendo esattamente quello che facevano prima e lasciando uno spazio molto esiguo ed estremamente pilotato all’interattività, per esempio..
Ciò terrà al riparo dal caos e rassicurerà chi teme la banalità, ma non incentiva ‘intrinsecamente’ la qualità intellettuale del dibattito..
>orientamento più socio-antropologico
beh, volendosi orientare sì (ma non sottovaluto l’importanza di modelli economicamente sostenibili, ovviamente)
>Sicuramente più affascinante della scienza triste.
sursum corda! 😉
sto spostando di qualche grado la discussione, me ne rendo conto, ma mentre riflettevo il mio pensiero ‘è rimbalzato’ più volte sul concetto di cittadinanza post-moderna e di conclusività come l’ho letto in Gianfrancesco Zanetti (denso). Giro qui il link a un suo discorso, solo come potenziale food for thought per eventuali usi futuri
http://www.ethicaforum.it/intervento-zanetti-p5.pdf
@ Tamara l’ho letto, è un mattone però.
In tutta onestà all’inizio ho creduto sostenesse un relativismo più spinto. Quella visione del pluralismo si schianta più che con problematiche di ordine concettuale, con pratiche fondazioniste radicate, la chiesa. Magari fosse una diatriba intellettuale. Sinceramente il dubbio è su un aspetto: perché un coerentista debba sentire il bisogno di aprire al giusnaturalismo, quando in realtà è pleonastico che è una contraddizione di principio. Ok , la risposta è perché altrimenti non sarebbe pluralista. Ma dal mio limitato scibile, credo sia una forma di cedimento di responsabilità, nel senso di chi si pone obiettivi troppo alti per dirsi che era impossibile raggiungerli. Nel senso che si può pretendere un pò meno (senza volere mediare istanze incommensurabili) ma mantenere il criterio dell’oggettività anche nell’etica, come questione di metodo argomentativo. L’autonomia a cui mi riferivo nel giudizio morale ne da una versione Carla Bagnoli, in Autorità della morale.
Bella l’etica.