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Quando… da Parigi a dentro di noi

L’emozione per la strage di Parigi è ribollente. A Parigi ho studiato. Ho trovato amici per la vita. Ho sofferto la scomparsa di grandi maestri. Ho lavorato. Ho passato momenti bellissimi con i miei cari.

Piango per la strage di ieri.

Ascolto le ricette dei veri esperti e spero che trovino una soluzione sensata. Mi viene soltanto in mente di riflettere. Non è la prima volta che questo genere di cose succedono. Non siamo sempre stati le vittime. Molte volte gli europei hanno fatto provare ad altri popoli queste emozioni in passato.

Quando politici e militari inglesi hanno sparato sulla folla indiana non violenta che chiedeva l’indipendenza, il 13 aprile 1919. Quando il dittatore tedesco ha ordinato l’olocausto, a partire dalle leggi di Norimberga del 15 settembre 1935. Quando la dittatura italiana ha ammazzato la gente in Etiopia usando armi chimiche (Metaferia). Ora abbiamo cominciato a subire un trattamento molto simile, dall’11 settembre del 2001 al 13 novembre del 2015, da New York a Parigi.

Gli europei hanno provato vergogna. E in futuro anche i popoli mediorientali proveranno vergogna per questo orrore.

Chiamarlo guerra è una scelta. Offre l’occasione di rafforzare il potere europeo e il potere statale. Offre la chiave di lettura del conflitto organizzato tra “stati”. Ma non è sufficiente.  E non è esatto. Occorrono le parole giuste per definire che cosa dobbiamo fare. Certo, da quando c’è l’Isis che si finge uno stato si può dire che questa sia anche una guerra, ma non è soltanto una guerra. Chi la dichiarerà terminata?

Non è una questione solo di stati. È una questione di società, di gruppi di potere, di reti di relazioni basate sulla paura, l’omertà la prepotenza, la credulità, la disperazione. Per noi è una questione di affermazione di valori civili. Individuare il nemico è la sola strada per vincere. Si calcola che i colpevoli dell’olocausto sono stati circa 200mila su circa 65 milioni di tedeschi all’epoca dei fatti (Dan Stone, Histories of the Holocaust. Oxford New York, 2011). E i terroristi sono una minoranza tra le centinaia di milioni di persone che vivono in Medioriente. Lo sappiamo com’è con la mafia: bastano 2000 persone armate per influenzare il destino di un popolo di 5 milioni di persone in modo terribile. Il nemico non è un popolo mediorientale, ma un’organizzazione di potere.

Connivenze, paure, abitudini, pigrizie, rendono i pochi violenti decisi a conquistare il potere enormemente più forti. Le dimostrazioni di violenza come quelle perpetrate in Europa dall’Isis servono a rafforzare quel potere e quelle relazioni di paura e connivenza dalle quali emergono le nuove reclute. Il fascino di un orrore spettacolare attrae i disperati perché suggerisce che possano essere protagonisti. Quello è il momento in cui i violenti ottengono il riconoscimento del loro potere.

Possiamo e dobbiamo rispondere difendendoci da altri attacchi nelle nostre città. Inventare forme di controllo che salvino la libertà e la sicurezza insieme. Possiamo comprendere che le probabilità di attentati si possono ridurre ma non annullare purtroppo in questa situazione. Possiamo controllare meglio le frontiere, forse. Possiamo pensare a intervenire in Libia, in Siria, in Iraq se abbiamo un obiettivo vero e chiaro. Ma il conflitto vero contro questo nemico tanto apparentemente destrutturato lo vinciamo soltanto eliminando le cause della disperazione di coloro che sono attratti da quella soluzione violenta per sentirsi protagonisti. È un’emergenza immediata, ma una soluzione può sorgere soltanto da una strategia lunga. Nella quale i nostri valori non violenti, le forme di sviluppo economico, sociale e culturale, faranno breccia nei cuori degli altri offrendo risposte migliori di quelle proposte dai terroristi.

Prima o poi anche loro si vergogneranno di quello che hanno fatto. Come hanno imparato a vergognarsi gli europei di quello che hanno fatto. Ricordiamoci la nostra storia per far vedere una prospettiva agli altri.

Vedi anche:
Paris attack: As a Muslim I’m disgusted how Isis can carry out this violence and claim to represent my faith

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  • Interressante, Luca. Fa pensare, diversamente da molti commenti troppo prevedibili, in una direzione o nell’altra.

  • Quand… de Paris à l’intérieur de nous
    L’émotion pour le carnage de Paris est bouillonnante. À Paris j’ai étudié. J’ai trouvé des amis pour la vie. J’ai souffert pour la disparition de grands maîtres. J’ai travaillé. J’ai passé des très beaux moments avec mes proches.
    Je pleure pour le carnage de hier.
    J’écoute les recettes des vrais spécialistes et j’espère qu’ils trouvent une solution raisonnable. Je ne peux que penser à réfléchir. Ce n’est pas la première fois que ce genre de choses se produit. Nous n’avons pas toujours été les victimes. Plusieurs fois les Européens ont fait ressentir à d’autres peuples ces émotions, dans le passé.
    Quand des politiques et militaires britanniques ont tiré sur la foule indienne non-violente invoquant à l’indépendance, le 13 Avril 1919. Lorsque le dictateur allemand a ordonné l’Holocauste, à partir des lois de Nuremberg du 15 Septembre, 1935. Quand la dictature italienne a tué les gens en Ethiopie en utilisant des armes chimiques (Metaferia). Maintenant nous avons commencé à subir un traitement très similaire, à partir du 11 Septembre 2001 au 13 Novembre à 2015, de New York à Paris.

    Les Européens ont eu honte. Et à l’avenir les peuples du Moyen-Orient auront également honte de cette horreur.

    L’appeler guerre est un choix. Ça offre l’occasion de renforcer le pouvoir Européen et le pouvoir de l’Etat. Ça fournit la clé de lecture du conflit organisé entre «états». Mais ce n’est pas suffisant. Et ce n’est pas exact. Il va nous falloir les bons mots pour définir ce que nous devons faire. Bien sûr, depuis qu’il y à l’ISIS qui se fait passer pour un état, on peut même dire que celle-ci soit une guerre, mais ce n’est pas seulement une guerre. Qui va la déclarer terminée ?

    Ce n’est pas seulement une question d’états. C’est une question de sociétés, de groupes de pouvoir, de réseaux de relations basées sur la peur, le silence, l’arrogance, la crédulité, le désespoir. Pour nous il est question d’affirmation de valeurs civiles. Identifier l’ennemi est le seul moyen de gagner. On estime que les coupables de l’Holocauste étaient environ 200mille sur environ 65 millions d’Allemands à l’époque des faits (Dan Stone, Histories of the Holocaust. Oxford New York, 2011). Et les terroristes sont une minorité parmi les centaines de millions de personnes vivant au Moyen-Orient. Nous savons ce que c’est avec la mafia : il suffit de 2000 personnes armées pour influer sur le sort d’une population de 5 millions de personnes de façon terrible. L’ennemi n’est pas un peuple du Moyen-Orient, mais une organisation de pouvoir.
    Les connivences, les craintes, les habitudes, les paresses, rendent énormément plus forts les rares violents déterminés à saisir le pouvoir. Les démonstrations de violence parmi celles perpétrées en Europe par l’ISIS servent à renforcer ce pouvoir et ces relations de peur et de connivence à partir des quelles émergent les nouvelles recrues. La fascination de l’horreur spectaculaire attire les désespérés car elle suggère qu’ils peuvent être des protagonistes. Voilà le moment où les violents obtiennent la reconnaissance de leur pouvoir.
    Nous pouvons et nous devons réagir en nous défendant d’autres attaques dans nos villes. Inventer des formes de contrôle qui sauvent ensemble la liberté et la sécurité. Nous pouvons comprendre que malheureusement les chances d’attentats dans cette situation peuvent être réduites, mais pas annulées. Nous pouvons mieux contrôler les frontières, peut-être. Nous pouvons penser d’intervenir en Libye, en Syrie, en Irak si nous avons un objectif clair et vrai. Mais le vrai conflit contre cet ennemi apparemment si peu structurée on va le gagner seulement en éliminant les causes de désespoir de ceux qui sont attirés par cette solution violente pour se sentir protagonistes. Il s’agit d’une urgence immédiate, mais une solution ne peut naitre que d’une stratégie à long terme. Dans la quelle nos valeurs non-violents, les formes de développement économique, social et culturel, fassent leur chemin dans le cœur des autres, en fournissant de meilleures réponses que celles proposées par les terroristes.
    Tôt ou tard, eux aussi auront honte de ce qu’ils ont fait. Comme les Européens ont appris à avoir honte de ce qu’ils ont fait. Rappelons-nous de notre histoire pour montrer une perspective aux autres.

  • le lezioni della storia restando valide, anche se c’è chi impara qualcosa e chi non impara alcunché, tuttavia, guerra o non guerra bisognerebbe, da un lato, capire che la morte di ciascuno può sopraggiungere anche in questi modi e non turbarci troppo – come non ci turbiamo di tutte le morti inutili – ma, da latro lato, non considerare ciò inevitabile, reagendo come fecero i passeggeri del volo destinato a schiantarsi sulla casa bianca o come hanno fatto i militari in licenza sul treno… 1000 persone non possono farsi uccidere, 1 alla volta, da 3/4 terroristi, per quanto pesantemente armati, senza minimamente reagire… anche a questo dobbiamo attrezzarci, mentalmente prima che fisicamente…

  • Gli esempi storici che citi sono, in maggioranza, frutto di azioni non di popoli ma di governi. I governi continuano a fallire: falliscono nell’intelligence e nella prevenzione, falliscono nelle azioni militari che sono destrutturate e isteriche, falliscono nella protezione dei loro cittadini sia internamente sia esternamente. Per questo trasformare l’emotività generata dai fatti di sangue in maggiore potere per gli organi di controllo e gli apparati governativi non è necessariamente una cosa buona ma può rivelarsi, purtroppo, un rischio ancora maggiore. E’ vero la storia insegna ma non è la vergogna il sentimento al quale dobbiamo guardare ma la consapevolezza, dobbiamo essere tutti più consapevoli. Se è vero che 65 milioni di tedeschi erano ignari al tempo dell’olocausto, se è vero che un tempo la cosapevolezza era più difficile da acquisire oggi non è così, siamo noi che dobbiamo fare ognuno una piccola parte per rendere tutti più consapevoli e dobbiamo farla perseguendo l’unica strada possibile che è quella, al netto di qualsiasi credo religioso, quella della dignità umana che deve esssere per tutti senza distinzioni di geografia, di religione, di colore, di preferenza sessuale, di lingua. Se non si parte da questa consapevolezza, dall’uomo per l’uomo, dal valore del rispetto e del riconoscimento, ogni azione militare, politica, strategica sarà inutile e se questa cosa la facciamo nostra e iniziamo a non tollerare più l’intolleranza (compresa quella di chi gestisce i social network che con atteggiamenti discutibili contribuiscono a impiantere il seme della discriminazione, vedi il caso FB su Paris e Beirut) allora forse qualche risultato lo otteniamo. Chiamala integrazioen dal basso, chiamala priorità della dignità umana, chiamala rispetto per il prossimo, chiamala guerra totale alla discriminazione, ma è la consapevolezza e non la vergogna la base sulla quale dobbiamo costruire.

  • […] Per fare una guerra non bastano le armi e la decisione, occorre un obiettivo raggiungibile: perché una guerra è tale solo se comincia e finisce. Altrimenti è solo violenza. Ma non è soltanto una guerra tra eserciti, non è soltanto una guerra che fa vittime civili innocenti, è anche una competizione per l’attrazione culturale: l’esercito avversario recluta nei luoghi della disperazione che si trovano in Europa. Richard Florida dimostra che la struttura delle città europee sta evolvendo nel senso della segregazione (CityLab). Le opinioni di molti musulmani dimostrano che un dibattito interno al mondo islamico è possibile ed assolutamente importante così come la maturazione di una strategia culturalmente o praticamente vincente in Occidente è necessaria (Quando… da Parigi a dentro di noi). […]

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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