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Niente cambia perché tutto cambi

La politica politicante ha impedito a una giornata storica di esserlo fino in fondo. E il sistema di ricatti personalistici che ha bloccato il paese per molto tempo non è scomparso. Il voto di ieri non ha cambiato il quadro. Ma il contesto di significati nel quale si inserisce, invece, è effettivamente trasformato. Si è aperta la strada per una stagione nuova. Non è cambiata la forma, ma è cambiata la sostanza.

Stefano Rodotà scrive oggi un pezzo importante sulla Repubblica (non trovo il testo online). La sua proposta è quella di scrivere un’agenda di riforma che parta dalla legge elettorale e arrivi al ricentramento delle attività politiche nell’alveo delle istituzioni: «La politica non è morta ma rischia di essere coltivata fuori dai luoghi istituzionali» scrive. Ed è proprio vero. Salvo il “rischia” che appare piuttosto certo e verificato: la politica fatta in tv con istituzioni trasformate in luoghi usati per svolgere attività private non è un rischio ma una realtà, in molti casi, in Italia. E giustamente Rodotà sostiene che è ripartendo dalle istituzioni come luogo della politica che si possono affrontare i temi che contano: lavoro, diritti, beni comuni, rete di telecomunicazioni, rete idrica, diritto d’autore e pubblico dominio, eguaglianza sociale.

Le istituzioni sono il bene civico essenziale. La costituzione garantisce la repubblica, la cosa di tutti noi. E solo a partire dal rispetto di ciò che abbiamo in comune possiamo dividerci a discutere sulle scelte alternative che le diverse opinioni conducono a proporre.

I personalismi privatizzano la politica, snaturandola in profondità. Aprono la strada alla legittimazione della corruzione, dell’evasione fiscale, dell’illegalità. Abbattono la credibilità delle istituzioni riducendo al lumicino quello che i cittadini hanno in comune costringendoli a rintanarsi nelle opposte fazioni, che diventano mondi separati che vivono nello stesso territorio. Il risultato è il blocco delle decisioni, l’immutablità.

L’innovazione parte da un contesto di regole accettate e rispettate da tutti perché è questo che consente di progettare un’agenda per tutti i cittadini e che tutte le fazioni si impegnano a portare avanti. Il ciclo elettorale è troppo corto per consentire la realizzazione di progetti di ampio respiro, che hanno bisogno di tempo. Solo un progetto di lungo termine può avviare il paese a superare la sua crisi. E il solo progetto di lungo termine che si può realizzare è un progetto che viene rispettato da tutte le fazioni, in modo che sia portato avanti indipendentemente dal ciclo elettorale.

L’agenda digitale è parte integrante di questo progetto. Alcune sue componenti sono essenziali per l’uscita dalla crisi:
1. la filiera delle startup innovative con la sua capacità di generare crescita, occupazione e innovazione;
2. l’istruzione, la ricerca, l’alfabetizzazione digitale viste come investimento fondamentale nell’economia della conoscenza;
3. la modernizzazione della pubblica amministrazione come alimento della cittadinanza e facilitatore dell’efficienza;
4. la rete digitale come bene comune sul quale sviluppare le visioni, capacità, iniziative sociali e culturali;
5. il pubblico dominio come default della conoscenza che viene generata dalla popolazione e il diritto d’autore che supera la sua configurazione di feticcio della vecchia industria culturale e diventa elemento dell’ecosistema della conoscenza.

E così via. L’agenda digitale è uno schema adatto a sostenere un progetto di paese più sensato. Dalla crisi non si esce tornando come prima, ma trasformandosi. L’agenda digitale aiuta a definire alcuni passaggi. Che si inseriscono in un disegno ancora più grande: le parole usate nella strategia “Destinazione Italia” aiutano a vederne i contorni.

C’è un tempo per ricostrure. È arrivato. Forse.

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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