Luca De Biase
An Italian journalist writes about what's happening in his funny country:
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Domenica, 23 novembre 2008
 

Siamo quello che facciamo
Che cosa significano le dimissioni di Irene Tinagli dalla direzione del Pd?

Dimettendosi dalla direzione nazionale del Pd, Irene Tinagli cita Sartre: «siamo quello che facciamo». Citazione densa. Nell'Età della ragione Sartre racconta dei dubbi di un personaggio di fronte alla scelta di entrare nel partito comunista francese. E a lei viene in mente proprio quell'autore quando deve affermare la sua decisione di uscire dal Pd. «Siamo quello che facciamo».

La sua lettera a Walter Veltroni va letta, naturalmente. La decisione è irrevocabile, dice Paola Concia, che si domanda se è Irene ad allontanarsi dal Pd o il Pd a essere lontano da Irene. Ne parla Luca. Forse questo farà discutere nel Pd. Vedremo con quali risultati. Ma è solo una questione interna al Pd?

Questa storia è affascinante soprattutto per motivi relativi al ruolo degli intellettuali che fanno ricerca, studiano e raccontano in modo circostanziato e verificabile quello che hanno trovato. E che non sono necessariamente adatti a far parte di un organo di direzione di un partito. A meno che quel partito non sia davvero diverso.

Irene Tinagli è un'intellettuale di valore che ha accettato di partecipare con un ruolo consultivo a un partito. Perché aveva accettato? Evidentemente, pensava che l'avessero coinvolta per un motivo tecnico: credeva che l'avessero coinvolta per avere accesso alle sue idee. Irene, in effetti, lamenta che nessuno l'ha mai chiamata per chiedere un parere.

Ma perché avrebbero dovuto farlo, esattamente? Le sue idee sono fondamentalmente pubbliche, come quelle di ogni intellettuale che fa ricerca e ne condivide i risultati con le pubblicazioni. Quindi bastava che qualcuno nel partito leggesse i suoi libri e i suoi articoli per poterne trarre le giuste conclusioni. Certo, potevano chiedere qualche spiegazione particolare, dichiarare di non aver capito una cosa, oppure volere dati e interpretazioni più collegati a un tema specifico che stavano affrontando e che non era esplicitamente trattato in una delle pubblicazioni di Irene. Non l'hanno fatto. Questo insegna qualcosa sul Pd. Ma insegna qualcosa di più sul ruolo degli intellettuali che fanno ricerca davvero - non per finta - nei confronti della politica.

La direzione nazionale è un luogo di discussione politico nel quale si affrontano temi riguardanti la struttura del partito, le attività di propaganda, la distribuzione dei posti, la composizione degli interessi tra le varie componenti dell'aggregazione, la strategia d'azione, ecc ecc... Se in queste discussioni occorre un parere tecnico, si può cercare di averlo senza necessariamente cooptare l'intellettuale che può fornirlo. Da questo punto di vista interno, i casi sono due: o chi aveva invitato Irene non sapeva che cosa fa una direzione di partito; oppure lo sapeva e ha finto di chiamare Irene per un motivo tecnico, mentre invece l'ha coinvolta per un motivo propagandistico.

L'intellettuale non è tenuto a saperlo. Ma un sospetto lo può avere. La ricerca è esplorazione di territori scientificamente sconosciuti e può condurre a risposte più o meno popolari. Ma un partito è un'organizzazione dedicata a generare e gestire consenso, non può rischiare di dire cose troppo impopolari. La ricerca non è nel flusso mentale quotidiano della gente di un partito. È un lusso che non sempre si può permettere. Purtroppo. A meno che non sia davvero un partito diverso.

Si può immaginare un partito tanto diverso? Certo. Può avere successo? Uhmm...

In Italia, abbiamo avuto momenti di grande vicinanza tra il mondo intellettuale e il mondo dei partiti. Non è sempre stato un bene per gli intellettuali. Gli intellettuali aprioristicamente schierati per un partito non sono credibilissimi. A meno che tutti insieme, sostenendosi reciprocamente, non riescano a far emergere una realtà virtuale nella quale tutto viene pensato in modo coerente ai loro interessi e a quelli dei partiti che ne approfittano. C'è bisogno di qualcosa di diverso? Sì: c'è bisogno di intellettuali diversi. Che non dipendano dai partiti. E casomai di partiti che li sappiano ascoltare, non cooptarli trasformandoli in politici e dunque erodendone la credibilità di intellettuali.

Il mondo culturale che sta intorno alla destra ha costruito una realtà virtuale che funziona per i partiti di destra molto bene. Ieri un'analisi di Diamanti sulla Repubblica ha mostrato come ci sia stata una relazione fortissima tra il timore per la sicurezza degli italiani e la quantità di servizi sull'insicurezza trasmessi dai telegiornali e dalle televisioni; e ha dimostrato che, passate le elezioni, quei servizi sono spariti dai telegiornali, mentre magicamente le persone hanno smesso di vedere l'insicurezza come una priorità. Si tratta di uno dei tanti risultati di una interpretazione della ricerca intellettuale asservita a uno scopo propagandistico.

La risposta degli intellettuali non dovrebbe essere la costruzione di una realtà virtuale uguale e contraria. Dovrebbe essere la condivisione di un metodo di ascolto della realtà diverso, che consenta alle persone di farsi un'idea indipendente di quello che succede. Gli intellettuali interessati a questo, probabilmente, faranno bene a non lasciarsi cooptare dai partiti. Ma a dire quello che hanno da dire. Sperando di essere ascoltati. «Siamo quello che facciamo». Se facciamo gli intellettuali, diciamo quello che pensiamo e scopriamo. Se facciamo i politici, diciamo quello che pensiamo e che può generare consenso. Le dimissioni di Irene Tinagli sono un gesto intellettuale più preciso del gesto di accettare la partecipazione alla direzione di un partito. Purtroppo.


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Fine della fine del rischio
I credit default swap e l'aumento del rischio globale

La crisi finanziaria non cessa di preoccupare. Soprattutto perché proprio chi la dovrebbe conoscere nei suoi più intimi dettagli non sa - e dichiara di non sapere - fino a che punto è profonda e fin dove arriverà. Oggi, come anticipato qualche settimana fa dai ben informati, si parla di una possibile crisi della Citibank. Come si sostiene che in Europa è complicata la situazione della Deutsche Bank. Ne parla lo stesso Sole 24 Ore. Intanto, avanza la paura nei settori dell'economia reale più finanziarizzati, come l'automobile, il petrolio, l'edilizia. Il problema centrale è circoscrivere l'incendio. E spegnere il fuoco nei punti strategici, senza buttare acqua dove non serve.

La questione è che siamo di fronte a una crisi di sistema. E che occorre ripensare il sistema. Ma per farlo bisogna riuscire prima a pensarlo davvero il sistema. Ed è proprio questo il difficile. Ogni volta che si afferra un elemento ne sfugge un altro. I governi, le aziende, i cittadini assistono a quello che succede e sanno di non sapere. Lo stesso avviene ai banchieri, che peraltro sono i principali responsabili.

Responsabili in senso pieno. Ho avuto occasione di parlare con alcuni di loro. Non ho il permesso di citare la fonte, ma un autorevolissimo banchiere mi ha spiegato il fenomeno dei credit default swap con parole che non lasciano dubbi: ci sono colpe, responsabilità precise. E rendendosene conto si può rimediare.

I credit default swap, spiega Roberto Perotti sul Sole di oggi, erano polizze di assicurazione contro il fallimento degli emittenti di obbligazioni. Il mercato di questi prodotti è cresciuto enormemente arrivando a una dimensione quattro volte superiore a quella del Pil americano! Il loro scopo era ridurre il rischio connesso ai prestiti. Una lunga catena di contratti serviva a spezzettare il singolo rischio di un singolo prestito in un elemento piccolissimo di rischio in un gran numero di titoli. Chi cedeva questo rischio si sentiva al sicuro e poteva continuare a scommettere rischiando ulteriormente. Chi comprava quel rischio si trasformava in assicuratore.

Gli amministratori di banche che hanno scommesso su quelle forme di cessione del rischio o che hanno accettato di fare gli assicuratori di altre banche sono andati oltre i limiti delle loro deleghe perché sono andati oltre i confini del business fondamentale degli istituti di credito. Li hanno trasformati in scommettitori o assicuratori. Le banche devono conoscere i fondamenti del rischio che si assumono e finanziare attività reali. Possono salire di livello e finanziare attività finanziarie, ma non possono diventare compagnie di assicurazione. I consigli di amministrazione che hanno consentito questo tradimento dello statuto delle banche hanno sbagliato. Gli amministratori delegati che hanno tradito lo statuto delle banche hanno sbagliato. Sicché, dice il banchiere intervistato, sono responsabili. E per rimettere le cose a posto, occorre riportarli a stare nei limiti statutari delle istituzioni che sono chiamati a guidare.

La libertà d'azione concessa agli amministratori delegati da chi li doveva controllare è stata tollerata dagli azionisti e dai loro rappresentanti fintantoché si facevano soldi a palate. Il tutto è stato giustificato con argomenti falsamente scientifici: gli algoritmi sulla base dei quali erano costruiti i prodotti fianziari destinati alla copertura del rischio avevano fatto pensare alla possibilità che il rischio fosse davvero stato ridotto. Ma in realtà, l'ideologia finanziaria imponeva che per ogni risultato ottenuto ce ne fosse un altro da raggiungere: sicché per ogni rischio coperto si tendeva a prendersene un altro. Nòva ne parlò in una storia di copertina di un anno fa: la matematica finanziaria era straordinaria ma non poteva ridurre il rischio totale, poteva soltanto ridistribuirlo. E anzi spingeva chi si sentiva coperto dai rischi a prendersene altri: aumentando il rischio globale. Solo per produrre altra carta, altri contratti che dovevano ridistribuirlo.

Il risultato è stato un'economia finanziaria tanto redditizia da attirare sempre più risorse. Togliendole all'economia reale. Tagli dei costi, degli investimenti in ricerca, del personale, solo per soddisfare l'inesauribile fame di soldi del mercato finanziario. Le automobili si vendevano finanziando i consumatori. Il petrolio si vendeva molto di più quando era stampato su pezzi di carta che quando era raccolto in barili. La domanda di automobili e di petrolio era più domanda finanziaria che reale. I prezzi non corrispondevano alla domanda e all'offerta reale, ma alla domanda e all'offerta finanziaria.

Quando il petrolio è arrivato a 140 dollari a barile, il mercato era fatto per il 90% di barili di carta e per il 10% di barili reali. La domanda di titoli di carta legati al petrolio era tanto elevata da sostenere il prezzo del petrolio reale. Senza alcun rapporto con la domanda reale. Ora che la domanda di petrolio di carta è crollata, il prezzo del petrolio è crollato a 50 dollari al barile. Di certo, questo crollo non è dovuto - se non in minima parte - alla diminuzione della domanda di petrolio reale (che non è sicuramente diminuita di due terzi): è principalmente dovuto alla drastica riduzione del mercato dei titoli finanziari legati al petrolio.

Insomma, la finanza è preziosa se è gestita con precisa relazione con l'economia reale. E se i banchieri che la gestiscono stanno nei limiti statutari previsti per le loro istituzioni. Se invece la finanza assume una vita propria e una dinamica indipendente totalmente dall'economia reale produce inevitabilmente dei disastri.


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