Luca De Biase
An Italian journalist writes about what's happening in his funny country:
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Domenica, 19 ottobre 2008
 

NyTimes: finanza e illegalità, le responsabilità di Bush

Un'inchiesta del New York Times mostra come l'Fbi sia in difficoltà nel perseguire le truffe e gli imbrogli commessi da persone nelle grandi aziende americane, particolarmente diffusi in questo periodo di crisi. La difficoltà discende dal fatto che gli agenti destinati a questo genere di reati sono stati drasticamente ridotti negli anni dell'amministrazione Bush. E questo non è stato fatto solo per destinarli ad attività anti-terroristiche. Ma anche perché dopo lo scandalo Enron, l'amministrazione non ha voluto che l'Fbi fosse troppo persecutoria nei confronti del business. Riducendo i controlli, Bush avrebbe dunque favorito i crimini.

Ecco un passaggio dell'inchiesta: «After the collapse of Enron in 2002, the Justice Department moved aggressively against corporate fraud [~] too aggressively, in the view of some people within the administration. It set up a national task force to tackle the problem, garnered hundreds of convictions at companies like WorldCom, Adelphia and Enron, and forced the closure of Arthur Andersen, the accounting firm, for its role in the Enron collapse. But several former law enforcement officials said in interviews that senior administration officials, particularly at the White House and the Treasury Department, had made clear to them that they were concerned the Justice Department and the F.B.I. were taking an antibusiness attitude that could chill corporate risk taking».


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Immagine di La paga dei padroni Bookblogging
Mercato o capitalismo
Rubrica settimanale casuale ma non troppo sui libri che prendo in mano

Un editoriale dell'Economist di questa settimana risponde a una delle domande di sistema che emergono dalla crisi finanziaria di questi ultimi mesi. E dice che qualcosa è andato male nel sistema (in particolare non hanno funzionato le regole che dovevano governare i mercati finanziari). Ma che non ci si deve per questo lasciar prendere dalla tentazione di dare tutta la colpa del disastro al sistema capitalistico, che per il giornale global-britannico resta il miglior sistema economico che si sia visto nella storia.

L'Economist con questo editoriale si dimostra portatore (forse ancora sano) di un equivoco concettualmente malato: l'equivoco di pensare che il sistema di mercato e il capitalismo siano più o meno la stessa cosa.

Lo stesso Adam Smith aveva considerato questa convinzione come un errore. Una cosa è il mercato, che per il filosofo morale inglese è notoriamente governato dalla mano invisibile. E un'altra cosa, dice Smith, è l'oligarchia che governa l'economia utilizzando una sorta di potere che le deriva dal possesso di enormi ricchezze e grandi alleanze con la politica.

Fernand Braudel aveva elaborato questa distinzione nel suo classico Civilisation Matérielle, Economie, et Capitalisme (1979). Il mercato, per Braudel, è effettivamente concorrenziale, anche se la concorrenza non è naturale ma è frutto di un sistema di regole (consuetudinarie o legislative) che ne proteggono l'equilibrato svolgimento. Il capitalismo non ha nulla a che fare con la concorrenza ma, appunto, è piuttosto il sistema del potere economico di una ristretta cerchia di persone che dispongono di risorse fuori dal comune (ricchezze, informazioni, alleanze politiche) e che le usano per scavalcare costantemente il mercato e la concorrenza allo scopo di incrementare o perpetuare all'infinito quel potere e quella ricchezza.

Nel libro di Gianni Dragoni e Giorgio Meletti, La paga dei padroni, si trovano a ogni pagina le prove del fatto che il capitalismo italiano è un sistema del tutto indipendente dal mercato e dalle sue regole. La ricognizione dell'assurdo ammontare dei redditi dei grandi leader delle aziende italiane non è il principale contenuto del libro, ma solo il filo conduttore e la trave portante di un ragionamento più profondo. L'elencazione dei guadagni dai grandi dell'economia italiana serve infatti a Dragoni e Meletti per indagare sui meccanismi del capitalismo italiano.

Questo, mi pare, è il loro ragionamento: posto che i redditi dei leader delle grandi imprese appaiono del tutto slegati dall'andamento di quelle aziende (il che è facilmente dimostrabile in base alla documentazione disponibile), consegue che quei guadagni non sono una misura del valore da essi generato. E dunque che cosa sono? Semplicemente il segnale, o forse la prova del fatto che le posizioni di comando delle aziende non sono sottoposte alle regole del mercato, ma a logiche che stanno altrove. A logiche di potere, di alleanza familiare, di sostegno reciproco tra gli appartenenti al ristretto gruppo degli uomini che governano le grandi imprese italiane, di sostegno reciproco con i leader del ceto politico. Insomma: a capo delle poche grandi aziende italiane c'è un'oligarchia, direbbe Smith. C'è il capitalismo, direbbe senza stupore Braudel.

Questo non vale solo per l'Italia (anche se in Italia è particolarmente semplice da dimostrare). E quando l'Economist difende il capitalismo chiedendo nello stesso tempo più regole per il mercato finanziario compie un errore concettuale. Confonde mercato e capitalismo. Il che può essere comprensibile, visto l'uso corrente di queste parole. Ma non può condurre a farsi un'opinione corretta dei fatti. La deregolamentazione che ha reso possibile l'assurda evoluzione della finanza negli ultimi dieci-venti anni è stata chiaramente voluta dal capitalismo contro il mercato. L'oligarchia ama i politici che fanno regole coerenti con i loro interessi e che li liberano da regole che quegli interessi comprimono. E sa premiare i politici che l'aiutano.

E' vero, come dice l'Economist, che il capitalimo ha reso ricche molte nazioni e una importante parte della popolazione mondiale? O è vero che l'arricchimento si è diffuso davvero solo quando il mercato regolato ha funzionato? O è vero qualcosa d'altro ancora? Le vicende recenti stanno facendo piazza pulita di queste questioni. L'iperfinanza speculativa degli ultimi dieci anni non ha arricchito se non un ristretto numero di persone. Il mercato regolato ha stimolato innovazioni in certe aree ma anche difficoltà in altre, come è normale che sia. E l'arricchimento cinese, il fenomeno più eclatante dell'ultima decade, non ha avuto a che fare né con il capitalismo né con il mercato. Se questo è vero, il capitalismo italiano e più in generale il capitalismo occidentale può essere un sistema illuminato o retrivo. La questione non è difenderlo a priori: ma valutarne i risultati. E chiamare in causa il senso di responsabilità delle persone che si trovano a giocare un ruolo in quella dimensione dell'economia. Senza accettare l'equivoca ideologia del mercato, talvolta invocata per giustificare decisioni dolorose, talaltra criticata per chiedere interventi pubblici a sostegno del potere dell'oligarchia dominante.

Ai governi e ai sistemi sociali il compito poi di trarre le conclusioni di quella valutazione. Sostenere l'oligarchia può andare bene, se è illuminata. Come può andare bene intervenire per salvare il circolante finanziario quando l'oligarchia è tanto poco illuminata da lasciarsi andare agli errori commessi nel mondo della finanza esoterica di questi ultimi anni. Ma non c'è nessun bisogno di sostenere senza se e senza ma che il capitalismo è un sistema da difendere in ogni circostanza: non ha senso. Ha senso chiamare i capitalisti a comportarsi in modo adeguato alle loro responsabilità. Il detto di Deng non vale più soltanto per la Cina ma anche per l'Occidente: «Non importa che il gatto sia nero o bianco. Importa che prenda i topi».


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