Luca De Biase
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Domenica, 4 novembre 2007
 

Bookblogging
Il comune senso del capitalismo
Rubrica settimanale casuale ma non troppo sui libri che prendo in mano

Settimana conclusa il 4 novembre 2007
Sto leggendo
Peter Barnes, Capitalismo 3.0, Egea
Ho acquistato
Renzo Piano, Che cos'è l'architettura, Luca Sossella Editore
Ho ricevuto
Jean-Marc Lévy-Leblond, La velocità dell'ombra, Codice Edizioni

Peter Barnes scrive del capitalismo come di un territorio mentale che non conosce i propri limiti. E per definirli concentra l'attenzione sui commons.

I commons del passato erano i terreni sui quali gravavano diritti non di privati possidenti ma di intere comunità: tipo i pascoli sui quali tutti i pastori potevano nutrire le pecore, i boschi dai quali ciascuno poteva trarre la legna da ardere, e così via. Le comunità potevano usare le risorse prodotte dai commons ma non distruggerle, pena un impoverimento generale. Se i commons fossero stati privatizzati, intere economie e importanti equilibri si sarebbero rotti. Come è in effetti successo nel corso della rivoluzione agricola e di quella industriale. E come succede ancora adesso: con il continuo attentato ai beni ambientali, culturali e sociali. Dal clima al dna, dai beni culturali alla sicurezza dei cittadini, dall'ecumenismo alla net neutrality... «In un sistema di beni comuni le risorse devono essere preservate a prescindere dal ritorno economico che garantiscono al capitale. Così come le riceviamo come regali da condividere, abbiamo il dovere di tramandarle quanto meno alle stesse condizioni a cui le abbiamo avute. Se possiamo valorizzarle, tanto meglio, ma perlomeno non dobbiamo degradarle, e di sicuro non abbiamo il diritto di distruggerle». Perché i beni comuni di cui si parla oggi non sono soltanto della comunità che esiste oggi: appartengono anche alla comunità delle persone che abiteranno in futuro il pianeta.

La "tragedia dei commons" descritta quarant'anni fa da Garrett Hardin è per Barnes costituita da una doppia tragedia: «Innanzitutto una tragedia del mercato, che non ha modo di limitare i suoi eccessi, e poi una tragedia dello Stato, che non riesce a proteggere l'atmosfera perché le aziende inquinanti sono potenti e le generazioni future non votano».

E Barnes ne deduce un'ipotesi: «Se i beni comuni sono le vittime delle mancanze del mercato e dello Stato, il rimedio potrebbe essere irrobustire i commons». Ma come? «Secondo il pensiero prevalente i beni comuni sono difficili da gestire perché nessuno li possiede concretamente. Se la Gestione Rifiuti Spa possedesse l'atmosfera, farebbe pagare chi vi butta i rifiuti, proprio come si fa con una discarica. ma fintantoché nessuno può accampare diritti sull'atmosfera, l'inquinamento procede senza limiti né costi. Naturalmente c'è un motivo se nessuno possiede l'atmosfera. Per tantissimo tempo c'è stata aria più che sufficiente per tutti, e quindi nessuna ragione di possederne una parte. Ma oggi le cose sono cambiate. I nostri cieli non sono più vuoti. Li abbiamo riempiti con gas invisibili che stanno alterando il clima al quale noi e le altre specie ci siamo adattati. In questo nuovo contesto l'atmosfera è una risorsa scarsa, e avere qualcuno che la possieda potrebbe non essere una cattiva idea».

Ma chi dovrebbe possedere il cielo? Barnes propone di affidare i beni comuni come l'atmosfera in proprietà a un trust che la gestisca nell'interesse delle generazioni future, con i cittadini di oggi come beneficiari secondari. Il trust farebbe pagare chi inquina, favorirebbe la riduzione dell'inquinamento e distribuirebbe dividendi annuali ai cittadini del mondo. «Questo esperimento mentale è diventato una proposta conosciuta come sky trust, ha fatto qualche passo avanti dal punto di vista politico ed è servito da fulcro nella riflessione sui beni comuni che ha dato vita a questo libro».

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