Luca De Biase
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Mercoledì, 15 agosto 2007
 

Una vaga paura del vuoto

Un irrazionale, incontenibile terrore mi ha preso camminando sul vetro a 350 metri di altezza, sospeso nel vuoto creato e riempito dalla Cn Tower. Non avendo mai provato le vertigini, temo che si tratti di una condizione metaforica che descrive lo stato in cui mi trovo attualmente.

toronto fear


(Qui si vedono le mie vecchie sneakers e le infradito di mia figlia).

La paura del vuoto è un classico. L'Europa ci ha costruito sopra un'intera civiltà. Sto vivendo questi giorni nel timore di lasciare troppo spazio all'attesa e riempio il tempo di attività. (Forse non vedo abbastanza i miei figli da poter essere certo che stiano bene e nell'incertezza esagero).

In questo modo però Toronto è diventata un flusso di sensazioni. Perché è una città che sta cercando una sintesi. Anche fisicamente: erano cinque città e sono state riunite in una metropoli da cinque milioni di abitanti.

L'amministrazione cittadina non se la passa benissimo, al momento: deve tagliare il budget (è un'epidemia occidentale) e quindi, secondo i giornali, dovrà chiudere i centri di accoglienza per le comunità di quartiere il lunedì, ridurre l'attività di pulizia dei muri colorati da presunti artisti dello spray, contenere le spese per la sicurezza...

Lamentano, quei giornali, qualcosa che ancora non è successo. In una città che appare relativamente tranquilla. Piena di piazze. Proprio davanti al palazzo dell'amministrazione ce n'è una gigantesca. Dove ho visto la festa dei pakistani. Soprendentemente affollata: poche donne con il velo, migliaia di persone con un viso orgoglioso e sostanzialmente pacifico. Una visione solare. Adatta a una città che cerca senso nel design, nell'architettura di Calatrava, nella ristrutturazione in chiave culturale degli edifici industriali lungo il suo lago-mare. Una città piena di musei, esposizioni, occasioni culturali (ma che ancora ricorda quando vennero i Beatles nello stadio dei Maple Leafs). Anche se li vive forse come una macchina delle meraviglie, più che come la vita quodidiana della conoscenza. La cultura come esperienza pratica: il Royal Ontario Museum, chiamato Rom, è più un luogo dell'educazione che un'esposizione del sapere. Forse anche questo è solare. La città, del resto, ospita la sede stabile del Cirque du Soleil, dove siamo andati ieri sera.

Dietro questa realtà, indubbiamente accogliente, c'è però la possibilità di un timore del vuoto. Appena cala il sole, Toronto si riempie di giovani che chiedono soldi. "Qualche spicciolo per favore". Accanto al mio albergo, un "Circolo del buon vicinato" offre la classica minestra a decine di persone che la bevono in un vicolo. Intorno, sulla via, una decina di prostitute.

Di giorno, non si può non notare come tutti i caffè - e molti negozi - espongano l'insegna "cercasi personale". La notte non puoi non domandarti se questi "drop out" lo siano per scelta o per necessità.

Il Canada, visto dall'Europa, è America; ma visto dall'America, è Europa. Ogni interpretazione è possibile. Non è duro come gli Stati Uniti, ma non è certo la Svizzera. E' da qualche parte in mezzo a questi mondi. La sua identità, necessariamente, emerge tenendo conto della sua gigantesca natura... Proprio la notte, in effetti, è anche il momento in cui la natura del Canada si riprende qualche spazio. E i suoi ambasciatori sono i procioni che vengono con il buio a prendere qualcosa di commestibile nei bidoni della spazzatura. Ne ho visto uno, l'altro giorno, con la sua strana macchia sugli occhi come la mascherina da ladro della Banda Bassotti. Mi ha guardato tranquillo, sicuro di sé, quasi sorridente.

ps. Qualche altra notizia al volo sul Twitter delle vacanze...

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