Ritrovo un pezzo scritto nel 2003 attraverso archive.org. E lo ripubblico, visto che mi serve per un post…
Obiettività nel giornalismo? Nel giorno della tragedia, quando 19 italiani vengono uccisi in Iraq nel corso di un attacco suicida contro la caserma dei carabinieri di Nassirya, i giornali partecipano al dolore. Se, quel giorno o un altro giorno, la nazionale di calcio gioca una partita, sono tentati di riportare i fatti con lo stesso calore dei tifosi che leggono le pagine sportive. Se un tizio racconta ai giornali alcune vicende intime della biografia, reale o immaginaria, del futuro sovrano d’Inghilterra, persino nell’antica democrazia britannica si affaccia una sorta di censura, doppiata dalla richiesta di autocensura rivolta ai giornali stranieri. Se la Bbc denuncia il governo inglese di aver manipolato l’informazione per indurre il popolo ad approvare la guerra in Iraq, il governo stesso è tentato di cambiare la governance del servizio pubblico televisivo. Insomma: l’obiettività è solo uno dei valori che potrebbero definire il giornalismo, che peraltro si dimostra, ogni giorno di più, impastato anche di emozioni, pressioni politiche, buono e cattivo gusto, esigenze commerciali e molto altro.
In realtà, non è possibile parlare di obiettività nel giornalismo con obiettività. Innanzitutto, perché il giudizio cambia in funzione del punto di vista dell’osservatore: insomma, il problema è più filosofico che pratico, il che lo rende affascinante ma profondamente soggettivo. In secondo luogo, perché il significato e il valore dell’obiettività dipendono dai referenti percepiti del lavoro giornalistico: la loro obiettività, infatti, cambia se pensano di lavorare per i loro editori, o per le loro fonti, o per il loro pubblico.
Tutto questo non toglie, ma aggiunge importanza al dibattito sull’obiettività nel giornalismo. Un dibattito denso di protagonisti d’eccezione. Negli Stati Uniti, Bill Kovach e Tom Rosenstiel, rispettivamente del Commitee of Concerned Journalists e del Project for Excellence in Journalism: cercano punti di convergenza per ridefinire l’attività giornalistica e l’obiettività del suo servizio. In Italia, tra gli altri Giuliano Ferrara e Giovanni Sartori: un politico e un politologo che fanno i giornalisti e che hanno molto da dire sull’obiettività. E le domande che sorgono in proposito rimbalzano tra le scrivanie di chi fa i giornali. Obiettività nel giornalismo? È un’aspirazione legittima e praticabile? È una bella utopia? È solo una mistificazione ideologica? È un argomento al quale vale la pena di dedicare più di cinque minuti al bar? Di sicuro è un valore in crisi. Ma, come in fondo suggerisce Brent Cunningham, se affrontata con consapevolezza è una crisi che può far bene.
L’inflazione e l’autoreferenzialità dei messaggi, la moltiplicazione dei media, la confusione tra comunicazione e informazione, gli stessi meccanismi della carriera giornalistica, sono probabilmente tra le cause della crisi dell’obiettività nel giornalismo e di certo non aiutano a superarla. Peggio: tendono a farne dimenticare l’importanza. Ma cedere a questa tendenza sarebbe un errore perché il problema è centrale: ne va della credibilità del giornalismo e dunque del futuro della professione.
In sintesi questo contributo vuole suggerire che:
1. Lo scopo di questa discussione non è quello guardare al passato nel tentativo di recuperare il valore dell’obiettività: anche perché forse non è mai stato davvero praticato. Si tratta piuttosto di aprire un nuovo filone di riflessioni, orientate al futuro, per alimentare la consapevolezza sui fondamenti operativi e ideali dell’attività giornalistica, divenuta ormai troppo sofisticata e complessa perché la si possa vivere pienamente senza ricorrere a una ricerca anche epistemologica in materia. “Le parole sono importanti” anche quando servono a definire il giornalismo: e per esempio distinguere tra informazione e comunicazione può risultare strategico.
2. Ne consegue che una soluzione soddisfacente al problema può arrivare solo partendo da uno scatto di orgoglio professionale. Occorre superare lo scetticismo che i giornalisti abitualmente manifestano quando parlano di se stessi. Perché è vero che il giornalismo è artigianato, industria, divertimento e servizio. Ma è anche una disciplina di ricerca. La dignità di questa sua ultima dimensione va finalmente valutata, senza retorica, per la sua importanza sociale e intellettuale. La dimensione di ricerca del giornalismo è restata per troppo tempo implicita nell’attività: solo esplicitandola si può avanzare.
3. E la conclusione pratica è che l’obiettività nel giornalismo è una questione di scelte e di metodo. Poiché il giornalismo non è una scienza ma un’attività intellettuale inserita in un contesto storico, economico e politico, i giornalisti devono decidere a chi serve il loro lavoro. Niente è scontato in questa materia. Ma se scelgono che il loro lavoro serve a soddisfare il bisogno di informazioni del pubblico, la loro credibilità dipenderà unicamente dalla loro capacità di seguire un metodo riconoscibile, dichiarato e applicato con coerenza. Sarà questo metodo il nuovo nome dell’obiettività.
L’obiettività dei giornali dipende da mille fattori, editoriali e commerciali, politici e tecnologici, culturali e sociali. Ma l’obiettività dei giornalisti dipende molto dalle loro scelte. È sotto la loro responsabilità.
Informazione v. comunicazione.
Nel contesto editoriale, l’informazione non è la comunicazione. Almeno in teoria. L’informazione è un servizio che risponde al bisogno del pubblico di conoscere ed è prodotta con un metodo controllato, in base a un criterio di verità esplicito. La comunicazione serve invece a trasmettere messaggi che hanno lo scopo di orientare il modo di pensare del pubblico, nel senso previsto e voluto da chi comunica. Teoricamente, l’informazione è fatta dai giornalisti, la comunicazione dalle aziende, dai politici, da tutti coloro che hanno bisogno di valorizzare la propria attività con una forma o l’altra di pubblicità.
Il problema dell’obiettività nel giornalismo ha spesso origine dalla confusione tra queste due attività. Che invece la teoria del giornalismo vorrebbe vedere distinte. Lo scopo dell’informazione è servire il pubblico. Lo scopo della comunicazione è servire chi comunica. Se le due attività sono confuse, entrambe perdono credibilità e suscitano meno attenzione.
Non tutti sono d’accordo. E alcuni, anzi, ritengono vero l’esatto contrario. Giuliano Ferrara, per esempio, svolge magistralmente sia il ruolo di informatore sia quello di comunicatore. Non c’è bisogno di dimostrarlo, ricordando le sue esperienze in televisione e sulla carta stampata. E una delle fonti del suo successo sta proprio nel suo esplicito rifiuto della differenza tra comunicazione e informazione. Il suo giornalismo militante, esposto senza ipocrisia né timidezza ma con appassionata intelligenza, ne fa un testimone molto ascoltato.
Ebbene: se Ferrara si fermasse a definire se stesso in questo modo non susciterebbe problemi di sorta. Il fatto è che egli tende a teorizzare questo suo atteggiamento come il solo veramente possibile. Se avesse ragione Ferrara, tutto il dibattito sull’obiettività nel giornalismo si potrebbe concludere in due parole: lasciamo perdere.
Ferrara è recentemente intervenuto da par suo sul caso dello scontro asperrimo tra il governo britannico guidato da Tony Blair, e la Bbc, la televisione pubblica del Regno Unito. Lo scontro, sorprendente per la democrazia britannica, riguardava il ruolo giocato dalla televisione pubblica nell’informazione relativa alle notizie lanciate da Blair in riferimento alle presunte armi di distruzione di massa possedute da Saddam in Iraq. Blair aveva fatto di quelle notizie un argomento importante per convincere gli inglesi a entrare in guerra al fianco degli americani. Blair sembrava essere riuscito a tener separata l’informazione e la comunicazione: e anzi puntava a rafforzare la credibilità della sua comunicazione in base all’informazione che condivideva con il suo popolo. Ma la Bbc ha invece dato notizie che mettevano in dubbio la veridicità delle informazioni date dal capo del governo britannico, facendo crollare la credibilità della sua comunicazione. La Bbc in particolare ha sostenuto che le informazioni contenute nei dossier dei servizi segreti britannici usate da Blair per il suo discorso erano state modificate per fare apparire la situazione irachena peggiore di quello che in realtà non fosse. Nel corso di questo scontro una persona coinvolta si è suicidata, i capi della Bbc e alcuni membri del governo, tra i quali lo stesso Blair, sono stati sentiti in tribunale e, nell’insieme, nessuno ci ha fatto una splendida figura. Nel frattempo, il governo di Blair ha messo addirittura in cantiere una riforma della governance della Bbc, il che è stato visto come un attentato alla tradizionale indipendenza del servizio pubblico televisivo britannico. Un attentato operato proprio dal governo che più di ogni altro nella storia della Gran Bretagna ha pensato alla comunicazione come a un elemento strategico della sua politica.
Questi fatti hanno suscitato diffuse preoccupazioni per la stessa tenuta della democrazia britannica. La retorica tradizionale aveva abituato molti osservatori a paragonare del giornalismo a una sorta di Quarto Potere che bilanciava i tre previsti da Montesquieu. L’azione di Blair appariva come un tentativo di asservire il potere dell’informazione a quello esecutivo.
Nella sua rubrica su Panorama, Ferrara si è scagliato contro chi, tra i giornalisti e gli amministratori della Bbc, ha sostenuto questa tesi. Certo, la prosopopea talvolta palesata dai dirigenti della Bbc non li ha resi simpatici a tutti. Ma Ferrara ha polemizzato con loro proprio sull’obiettività nel giornalismo. E polemizzando, Ferrara, ha deciso di usare la sua retorica per contestare l’idea che l’informazione possa essere portatrice di “verità assolute” in contrapposizione alle mezze verità che sempre, per mestiere, dicono i politici. Anche il giornalismo, come la politica, non può che dire mezze verità, spiega Ferrara. Quindi tanto vale che prenderne atto e andare avanti senza ipocrisia. Molto meglio, dice, sostenere il ruolo non ambiguo del giornalismo schierato. Il problema è che per Ferrara, le mezze verità, della politica e del giornalismo, sono tutte fatte della stessa sostanza: servono alle contrapposizioni o alle alleanze politiche, servono a costruire pensieri condivisi o schieramenti concorrenti. Informazione e comunicazione, dunque, non sono per lui attività tanto diverse. Il punto di vista di Ferrara è facilmente condivisibile quando contesta la possibilità di una verità assoluta: se è già molto difficile pensare che esista una verità assoluta, è ridicolo immaginare di trovarla nel giornalismo.
Non è invece condivisibile l’idea che in ogni caso il giornalismo sia condannato alla militanza e possa scegliere solo se viverla in modo esplicito o ipocrita. Non è negando retoricamente l’esistenza della “verità assoluta” che si nega l’esistenza di una possibile informazione distinta dalla comunicazione. Tutte le “mezze verità” hanno un’altra metà: ma nei discorsi dei politici che fanno comunicazione l’altra metà è fatta di menzogna, per citare sempre Ferrara, mentre nei discorsi dei giornalisti che fanno informazione può essere invece fatta di ignoranza. In questo caso, la sostanza è profondamente diversa. La parziale verità dei politici è voluta, ha lo scopo di convincere o manipolare. E invece, la parziale verità dei giornalisti non ha altra motivazione se non l’ovvia impossibilità di scoprire tutto su ogni argomento.
Nel primo caso si tratta di mezze verità che fanno parte della comunicazione. Nel secondo caso fanno capo all’informazione e al suo opposto: l’ignoranza. La ricerca giornalistica, in questi casi, non è altro che una lotta, seppure umile e artigiana, a ciò che non si conosce e invece varrebbe la pena di sapere.
Il metodo della critica delle fonti
Se il giornalismo può essere considerato anche come una forma di ricerca per combattere l’ignoranza, allora la prima cosa che lo differenzia dalla comunicazione è il metodo. Che serve a distinguere il modo in cui si producono le “mezze verità” della comunicazione dal modo in cui si fabbricano le “mezze verità” dell’informazione. In questo senso molto dipende da come le fonti di quelle “mezze verità” vengono trattate. È il metodo che consente di capire se ci si limita a dar voce alle fonti o se le si sottopone a verifica. Perché l’obiettività del risultato del lavoro giornalistico non deriva dal riportare con diligenza quanto dicono le fonti: deriva dalla visione critica, esplicita, con la quale si interpretano le fonti. In altre parole: se si riporta soltanto quanto affermano le fonti, le “mezze bugie” della comunicazione entrano a far parte integrante dell’informazione, distorcendola; mentre se si sottopone a verifica quanto dicono le fonti, si possono controllare quelle “mezze bugie” e trasformarle in un argomento per il quale vale la pena di approfondire la ricerca e magari scoprire qualcosa che non si sapeva e che valeva la pena di conoscere.
Giovanni Sartori, politologo e opinionista, ne ha scritto sul Corriere della Sera. Riferisce Sartori: «L’ultimo re d’Egitto si chiamava Faruk. Era un reuccio da nulla dedito soltanto alla bella vita. Amava soprattutto il gioco. E al gioco, il poker, voleva sempre vincere. Così: aspettava di vedere le carte degli altri, e poi lui dichiarava una mano superiore senza farla vedere. “Parola di re”, diceva. Gli altri giocatori si sottomettevano: dopotutto lui era un re, e loro erano lusingati di essere ammessi al suo tavolo».
Ecco: il metodo giornalistico non fa nulla di speciale, salvo andare a vedere empiricamente le carte dei re e delle altre fonti di informazione. Per poi riferirne ai giocatori. Non basta all’informazione sentire ciò che il re ha da dire e scriverlo. Non fa informazione il giornalismo che si limita a dare voce alla comunicazione del re. Quella è una falsa obiettività, un appiattimento sulla comunicazione. È una menzogna fondata su un peccato di omissione. Fare il giornalista in questo modo è possibile ma non è l’unica possibilità: e di fatto si traduce in è una perdita di senso del ruolo specifico del giornalista che finisce col mettere in crisi il mestiere e la sua credibilità. In realtà, il giornalismo può anche andare a vedere la coerenza tra le parole e i fatti: il re dice di avere un poker d’assi? Andiamo a vedere. Il lavoro di informare è anche quello di ridurre lo spazio dell’ignoranza generato dalle “mezze bugie” delle fonti, andando a vedere se le promesse sono mantenute, se le affermazioni delle fonti sono dimostrate, se i fatti che queste citano sono reali. Non cercando la “verità assoluta” ma semplicemente la coerenza delle parole e, laddove possibile, l’empirica rispondenza tra parole e fatti. Per poi scriverne in modo semplice e accattivante. La verifica di quanto affermano le fonti è una pratica sanissima e possibilissima.
Di certo, non è con la retorica del Quarto potere che si garantisce il corretto svolgimento di questo modo di intendere il ruolo giornalistico. In fondo i giornali sono i prodotti di aziende editoriali che vogliono far soldi, non nascono dalla costituzione ma dal mercato. Però negare che questo metodo della verifica delle fonti sia possibile e utile fa parte della comunicazione politica e rischia addirittura di diventare disinformazione.
Quello che distingue il giornalismo dal resto è una sorta di patto con il pubblico: anche e soprattutto sulla qualità empirica del trattamento delle fonti. Esplicitare il metodo è la premessa di un rapporto leale con il pubblico. Ed è una fonte inesauribile di credibilità.
A chi servono i giornalisti
Dal punto di vista del singolo professionista, il giornalismo è un’attività artigiana: si fa con le mani che pigiano sulla tastiera e con le scarpe che conducono a vedere i fatti dei quali si deve scrivere, si fa con la propria testa e con l’esperienza dei maestri. Per gli editori, il giornalismo è uno degli input di una filiera economica che segue una logica industriale e deve fare profitti. Per le fonti organizzate, dalle aziende ai partiti, il giornalismo è uno dei canali della comunicazione. Per il pubblico, è un servizio che risponde a una vasta gamma di bisogni informativi: dal divertimento alla pratica della vita quotidiana, dall’aggregazione politica all’operatività economica. A livello di sistema culturale, infine, il giornalismo è una delle forze sociali che costruiscono l’identità di una comunità.
I giornalisti sono abituati a sorridere di qualunque concetto troppo alto della loro professione. Ma se il giornalismo è ricerca non può che definire il suo criterio di verità. La sua piccola epistemologia. E allora qual è il punto di riferimento che può aiutare a definire l’obiettività nel giornalismo?
Se si considera l’obiettività come un valore, l’obiettività nel giornalismo, come in ogni altra disciplina, è prima di tutto una questione di filosofia della conoscenza. E poiché ogni filosofia porta a convinzioni più che a ipotesi verificabili, non è possibile, come si diceva in apertura, parlare di obiettività nel giornalismo con obiettività. Sicché, senza scendere in un relativismo eccessivo, ci sarà obiettività solo in rapporto a una scelta di campo. L’ultima condizione dell’obiettività del giornalismo è scegliere a chi deve servire.
Se deve servire alla carriera del giornalista, potrà prevalere un criterio di verità spettacolare o comunque tale da porre in luce il giornalista stesso più che quello che ha da raccontare. Se deve servire ai profitti degli editori, potrà prevalere un criterio di verità basato sulla quantità di copie vendute dei giornali o sull’audience delle trasmissioni. Se deve servire alle fonti, finirà con il confondere il proprio criterio di verità con il successo della comunicazione che quelle fonti vogliono gestire.
L’unica scelta che porta il criterio di verità verso l’empiria e l’obiettività è quella di fare giornalismo per servire il pubblico nel suo bisogno di conoscere. Non solo i fatti, ma anche la coerenza tra i fatti e la comunicazione. A questo serve il metodo. Non c’è nulla di ipocrita o mistificatorio in tutto questo. C’è soltanto una pacifica, semplice scelta, una risposta che ciascun giornalista può darsi alla domanda: per chi faccio il mio mestiere?
Le leggi possono aiutare i giornalisti a scegliere questa strada. Gli editori illuminati li possono rispettare in questa scelta. Il pubblico attento può stimare di più i giornalisti che decidono di andare in questa direzione. Ma la forza ultima che può li indurre a uniformarsi a un approccio obiettivo nei confronti del mestiere è il loro senso di responsabilità. È un paradosso: l’obiettività nel giornalismo è una questione soggettiva.
Luca De Biase
ps. Questo pezzo è stato pubblicato da Problemi dell’Informazione, la rivista di analisi del giornalismo edita da Il Mulino di Bologna e diretta dal grande Angelo Agostini, nel dicembre 2003