Luca De Biase
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Martedì, 1 luglio 2008
 

Meditazioni napoleoniche

La postfazione di Domenico Scarpa al romanzo N di Ernesto Ferrero offre un momento di riflessione sul problema che appassiona chiunque abbia letto l'ultimo capitolo di Guerra e Pace. Ne parlo qui, appunto, solo per passione e non certo per competenza.

Immagine di N Scarpa riassume il tema con una frase ingenuamente ottocentesca come il personaggio che descrive. «Capire che cos'è la Storia e se possiede un corso prevedibile, se è governata da una catena di cause ed effetti o magari da una Provvidenza, e se si può arrivare a scoprire che cosa decide la fortuna o la rovina di un uomo comune o di un uomo eccezionale, di un popolo o di uno Stato».

Scarpa cita il libro di Nicola Chiaromonte, Credere e non credere, per porre l'accento sul rapporto tra il comando e la forza dei potenti e l'obbedienza e la debolezza degli altri come copertura del mistero delle azioni umane, individuali e collettive. (Anzi, riporto le parole di Scarpa: «il mistero delle azioni umane, individuali e collettive, è racchiuso e secretato nel nesso che si stringe tra il comando e la forza degl uni e l'obbedienza e la debolezza degli altri»). Un rapporto circolare, senza un inizio e una fine. Che induce a pensare a un'idea della Storia come inconoscibile, priva di un disegno e di una ragione. La Storia sarebbe «un cumulo di eventi visibili e invisibili, naturali e artificiali, impossibili da conoscere per intero, e che se anche si conoscessero sarebbero tali da paralizzare e cancellare la nostra comprensione. La sola certezza è che esiste una interdipendenza di tutto da tutto, di ognuno da ognuno». Ne consegue che la storia degli uomini è un paradosso: «Facendo uso della propria libertà gli esseri umani dànno forma al proprio destino». Nell'agire liberamente, gli uomini perdono la propria libertà. Perché le loro azioni interagiscono con quelle degli altri e non sono isolate, dunque determinano anche conseguenze che limitano la libertà di chi le compie...

C'è qualcosa di vero, ovviamente, in questa immagine. Ma essa è pensata più per opporsi all'idea di una Storia simile a un meccanismo proposta dal determinismo ottocentesco. E l'idea di Storia come caos che qui è ricordata, in questo senso, si mostra nettamente più novecentesca. Ma che non ci sia una Provvidenza o una logica unitaria - fatta di nessi causa-effetto ben determinati - non è più una scoperta nel nuovo millennio.

Ebbene, ecco una riflessione. Che cosa succede se si sostituisce alla struttura delle gerarchie - potere-obbedienza - citata da Chiaromonte una rete più simile a quella che viviamo nel mondo del nuovo millennio, nel quale le gerarchie si sciolgono in un sistema di relazioni orizzontali molto più complesse? In questa rete, gli uomini si incontrano più sulla base della loro capacità di esprimersi e di connettersi che sulla base della loro forza e debolezza. I loro gradi di libertà, forse, non aumentano dal punto di vista filosofico. Ma le forme della loro azione e delle interazioni cambiano drasticamente: perché non è la posizione privilegiata di un potente e quella debole di un obbediente a governare l'azione di tutti e il destino di ciascuno; è piuttosto la posizione che di volta in volta giocano coloro che si esprimono e coloro che si connettono, di fronte a situazioni diverse. Insomma, il potere non è un dato di fatto ma un risultato che si ridefinisce in continuazione, in base al valore di quanto viene espresso e alla quantità e qualità delle relazioni. La rete, non la gerarchia, diventa il centro dell'analisi. E il destino diventa un'idea meno schiacciante per ciascuno di noi. La libertà, quella ce la dobbiamo conquistare, la dobbiamo esprimere e dobbiamo sperare che qualcuno la riconosca: ma il futuro non è il destino; è qualcosa che costruiamo un po' di più e subiamo un po' di meno.

Certo, queste sono immagini. Che forse aiutano: il valore liberatorio della rete è proprio quello di ridurre l'assolutezza della gerarchia. Di imporre una regola a chi sta in alto nella gerarchia: la regola secondo la quale si sta in alto nella gerarchia se si serve bene il resto della rete. Il comando non è eseguito se non è di servizio all'insieme.

E per ciascuno di noi c'è un'altra considerazione: la consapevolezza delle conseguenze di ciò che facciamo non è un insieme di effetti talmente complicato da essere paralizzante, ma la conoscenza che la nostra forza deriva dalle idee e dalla possibilità di connetterle, sperando che siano riconosciute fino a vederle adottate, diventando un'azione generalizzata. Perché non abbiamo più nostalgia di una storia come meccanismo troppo complesso per essere previsto. Perché pensiamo che la storia sia la prospettiva. E che se ne possa parlare. Imho.

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