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Intelligenza collettiva

 

Massa. Target. Intelligenza collettiva. Nozioni in evoluzione (4 settembre 2012)

Nel ricco insieme di argomenti trattati ieri alla SummerSchool di RENA a Matera, vale la pena di osservare il concetto ricorrente di “intelligenza collettiva”. Si tratta di un’idea che circola ovviamente da un pezzo: ci sono varie fonti da Émile Durkheim a H.G. Wells e a Pierre Lévy. All’Mit c’è un centro di ricerca dedicato. Se ne parlava anche in questo blog in chiave di connessione con la democrazia. Di certo si tratta di una nozione in piena evoluzione. E i cui sviluppi sono tutti da comprendere.

Di certo, è una nozione contemporanea. Che non a caso viene fuori adesso, in piena Grande Trasformazione.

Fino agli anni Settanta, il concetto aggregante era probabilmente quello di “massa”. E in particolare si pensava alle masse dei produttori. Erano accomunati dal lavoro alla stessa catena di montaggio. Avevano in un certo senso la stessa agenda, gli stessi interessi, lo stesso comportamento…

Negli ultimi trent’anni si direbbe che la massa dei produttori abbia lasciato il posto centrale nella cultura prevalente alla nozione di “target” riferita ai consumatori. Il focus passa dall’offerta alla domanda, dalla produzione al marketing. I consumatori dello stesso target avevano in un certo senso la stessa agenda, gli stessi interessi, lo stesso comportamento…

Nel quadro dell’intelligenza collettiva, invece, le persone mantengono la propria divesità: sono soggetti che si coordinano in base a un pensiero comune emergente dalle loro interazioni abilitate da nuovi strumenti di comunicazione digitali che estendono le loro capacità cerebrali e, con le loro strutture tecnologiche, influiscono sulle agende, gli interessi, i comportamenti, senza poterli mai omogeneizzare ma inserendo incentivi all’emergere di una forma di collaborazione o, appunto, coordinamento.

 

Intelligenza collettiva e democrazia (22 aprile 2012)

Sull’Economist di questa settimana, c’è un passaggio a proposito della politica spagnola che fa pensare. Si dice che, secondo un funzionario del governo iberico, la Spagna è favorita nella gestione della crisi dal fatto che la sua amministrazione potrà lavorare per quattro anni senza elezioni. Insomma, gli spagnoli potranno prendere decisioni di rigore senza il timore di essere sanzionati dal voto. Evidentemente, questo giudizio implica che la democrazia può anche essere il miglior sistema per decidere chi comanda, ma non per prendere le decisioni più gravi. Il sottotesto è chiaro: il popolo non sa scegliere per il suo bene, può solo affidare a qualcuno il compito di farlo al suo posto. Il che peraltro significa che la democrazia è sempre esposta al rischio che il populismo emotivo di breve termine prevalga sulla visione razionale di lungo termine.

Il caso della popolarità del governo Monti in Italia nei suoi primi mesi alla guida del paese ha smentito almeno in parte questa idea. Se avesse potuto, dicevano i sondaggi, il popolo avrebbe votato per Monti perché capiva benissimo che le misure drastiche che il governo prendeva erano per il bene di tutti. Casomai, il governo Monti ha cominciato a non essere più tanto popolare quando ha preso decisioni che non si capivano bene. Che le imprese fossero autorizzate a licenziare per motivi economici anche nel caso che i motivi economici fossero ingiustificati, obiettivamente, non si capiva. Anzi, quella formulazione generava un’ansia e un’allarme che favorivano l’emergere di comportamenti irrazionali ed emotivi.

Esiste ovviamente un modo per raccontare bene le cose, tale che le renda comprensibili. Tanto per fare un esempio si sarebbe potuto dire: “ho fatto un viaggio nel mondo e ho scoperto che c’è una fila di aziende che vogliono venire in Italia a investire e creare posti di lavoro; il fatto è che vogliono creare posti di lavoro in un contesto di regole simili a quelle vigenti nei loro paesi d’origine, o almeno simili a quelle della maggior parte dei paesi paragonabili all’Italia; vogliono cioè sapere che fine faranno i loro investimenti e questo dipende dalla certezza del diritto e dalla convenenza; questo significa che preferiscono investire nei paesi dove sanno di poter decidere in modo veloce le assunzioni e i licenziamenti; ecco perché dobbiamo riformare il nostro diritto del lavoro”. Forse questo avrebbe spiegato meglio la riforma? Può darsi.

Sta di fatto che ci sono sempre elementi emotivi ed elementi razionali nelle decisioni, comprese quelle collettive. E l’organizzazione di un popolo dovrebbe essere fatta in modo da equilibrare gli effetti delle varie tensioni.

Esistono per questo dei supporti strutturali al racconto del sistema decisionale che lo rendono più comprensibile. Il messaggio implicito nella struttura della democrazia rappresentativa dice che chi prende più voti governa; ma il messaggio implicito nella struttura della repubblica dice che la democrazia deve essere regolata in modo che la maggioranza possa governare senza abusare della minoranza e incentiva un comportamento orientato al perseguimento del bene comune.

Ora, nell’epoca di internet, ci si potrebbe domandare come cambiano le strutture di coordinamento collettive, democratiche e repubblicane, con la diffusione di internet. La rete favorisce l’emotività o la razionalità? Il populismo o il ragionamento empirico e informato?

Si deve ammettere che messa così la domanda ha una sola risposta, insoddisfacente: internet favorisce sia l’emotività che la razionalità. Ma c’è un modo per approfondire. Prendendola un po’ alla larga.

L’evoluzione delle neuroscienze e della psicologia sociale, insieme alla riflessione sulle conseguenze dell’internet fissa e mobile, tendono ad avvalorare l’idea che il cervello sia una rete e che l’insieme dei cervelli in rete sia a sua volta una sorta di intelligenza collettiva. Metafore, certo, ma potenti.

Il cervello viene descritto – mi si perdonino le imprecisioni – come una rete di neuroni che si connettono attraveso le sinapsi e che si aggregano in aree più o meno specializzate il cui concerto porta alle decisioni, alle azioni, alle reazioni. Aree evolutivamente più antiche sembrano collegate alle forme emotive e istintive del pensiero, e prendono decisioni automatiche e veloci; altre aree più recenti del cervello appaiono più dedicate alla ragione e servono a sviluppare un pensiero controllato, anche se in genere più lento e forse più innovativo. Alcuni neuroni specializzati poi si comportano come dei connettori con i cervelli degli altri individui. Connettendosi tra loro, i cervelli individuali, ovviamente, contribuiscono ai comportamenti collettivi. E come il cervello individuale si avvale di strumenti per rafforzare le sue prestazioni, anche le reti di cervelli individuali si avvalgono di tecnologie che ne estendono le capacità: tra queste tecnologie, internet e gli strumenti digitali di accesso, memorizzazione, elaborazione, sembrano in grado di far fare un salto di qualità e concretezza all’immagine dell’intelligenza collettiva.

Le piattaforme internettiane – dotate dei loro codici – hanno un’influenza incentivante su certi comportamenti e favoriscono, con i loro diversi design, il coordinamento degli individui in base a forme di pensiero più “emotive” oppure più “razionali”. L’emotività, la passione, hanno a che fare con la velocità di reazione di fronte ai messaggi di allarme e conducono ad attingere a sorgenti di energia umana che altrimenti non si attiverebbero. La ragione, dal canto suo, conduce a confrontare i dati e a interpretarli in base a forme controllate di pensiero.

È possibile che internet favorisca la razionalità oppure l’emotività e l’istinto dell’intelligenza collettiva? Come per ogni domanda a base informatica anche in questo caso occorre rispondere: dipende. Si ha l’impressione che entrambe le ipotesi siano possibili. Si osserva che certe piattaforme incentivano scambi di informazioni più veloci, emotive e “automatiche” (come forse si può dire in certi casi di Facebook) mentre altre piattaforme incentivano scambi di informazioni più controllate (come forse si può dire, in molti casi, di Wikipedia).

Gli strumenti della cosiddetta intelligenza collettiva che servono in
particolare al coordinamento degli individui non sono certo soltanto
quelli che si sono sviluppati su internet. Anche la democrazia e la repubblica sono in un certo senso piattaforme sulle quali si appoggia il coordinamento degli individui. E anch’esse hanno forse qualche conseguenza sulla struttura del pensiero che incentivano. Forse si può dire che la democrazia rappresentativa, almeno nelle sue incarnazioni recenti basate su campagne elettorali strutturate in modo piuttosto populista, è più vicina alle tensioni “emotive”; dovrebbe essere la repubblica, che incentiva il rispetto delle istituzioni in quanto simbolo del bene e del progetto comune, a svolgere la funzione di regolare e controllare il pensiero collettivo che emerge quando è necessario decidere in modo razionale.

In un certo senso, un’eventuale erosione della legittimità delle istituzioni repubblicane apre la strada alle forme populiste della democrazia. Il rispetto per le stesse istituzioni garantisce che la democrazia non possa debordare. Il fatto che il presidente della Repubblica italiana abbia storicamente goduto di un rispetto generalizzato ha aperto la strada alla soluzione trovata recentemente per salvare l’Italia dalle conseguenze delle derive populiste che l’avevano invasa negli ultimi vent’anni.

I simboli del progetto comune favoriscono la ragione, forse, mentre i simboli della competizione di tutti contro tutti per l’attenzione e il successo favoriscono l’emozione? Può essere.

In effetti, il design delle piattaforme, istituzionali e tecnologiche, potrebbe avere una certa tendenza a incentivare di più la ragione o l’emotività nelle decisioni politiche e nei comportamenti collettivi.

Questo avviene in particolare condizionando la circolazione delle informazioni e delle interpretazioni. E internet è diventata parte integrante di questa circolazione. Sappiamo infatti quello che sappiamo in base alla funzione della coscienza. Di questa nozione non si sa poi tantissimo, sia nel caso del cervello individuale sia nel caso delle reti collettive di cervelli. Ma si sa che è collegata alla focalizzazione che il pensiero dedica a certe informazioni e interpretazioni. Le piattaforme influiscono sulle decisioni collettive condizionando la circolazione delle informazioni in modo da far emergere di volta in volta più fortemente i messaggi emotivi o quelli razionali. Le piattaforme che hanno un progetto implicito orientato al breve termine e alla competizione quotidiana tra gli individui fanno emergere con maggiori probabilità le informazioni più emotive; al contrario, nelle piattaforme strutturate in base a un progetto orientato al lungo termine e rafforzato in questo da simboli e tratti culturali profondi e condivisi, emergono con maggiore probabilità i ragionamenti razionali.

Se la piattaforma dichiara che l’informazione è orientata al bene comune perché a ogni passo dichiara che il messaggio va verificato e trattato con rispetto per il pubblico, le decisioni razionali possono avere una maggiore probabilità di emergere nel contesto, comunque maggioritario, dei messaggi emotivi.

Una democrazia che sappia prendere le decisioni gravi, una democrazia che funzioni anche in stato di crisi, una democrazia che riesca a isolare i germi populisti, ha bisogno di un design repubblicano solido, basato su un sistema dell’informazione orientato al bene comune.

In quel modo può essere un sistema da allargare alla gestione di spazi sempre più ampi della vita collettiva, nella chiave della democrazia partecipativa, senza il timore che tutto divenga come una grande assemblea di condominio. E a quel punto, la democrazia partecipativa, attenta al bene comune, può gandidarsi a manutenere e i commons, l’ambiente, la qualità della vita sociale e la profondità culturale di un popolo. E finisce con l’imparare a raccontare un discorso comprensibile, nelle fasi di crisi e nelle fasi di successo del progetto comune.

La maturazione della democrazia partecipativa continua avverrà solo in un contesto rispettoso delle istituzioni comuni e solo in parallelo alla maturazione di piattaforme per la ricerca e lo scambio di informazioni orientate a incentivare l’emergere di notizie documentate, empiricamente verificate, generate con un metodo rispettoso del progetto comune di tutti coloro che per decidere vogliono semplicemente poter sapere come stanno le cose.

Se n’è discusso in parte alla riunione organizzata dalla Fondazione Basso su internet e democrazia. E ci sono vaste tracce di questo discorso nel manifesto per un soggetto politico nuovo. Si accenna all’argomento nel quadro del lavoro della Fondazione Ahref e su Timu. Il lavoro di Nexa in collaborazione con il Berkman Center di Harvard in questo senso è fondamentale. Il centro per i civic media del MediaLab è un’ispirazione.

 

Intelligenza collettiva e smart cities (4 aprile 2012)

Esperienza. “We shape our buildings; thereafter they shape us”.
Queste citazioni che si trovano decontestualizzate su internet non sono una sicurezza dal punto di vista filologico. Ma questa citazione di Winston Churchill vale la pena di essere ripetuta. Perché introduce il tema delle smart city nel modo più ambizioso: siamo noi che diamo la forma ai nostri edifici, ma sono gli edifici che poi modellano la nostra vita e la nostra cultura. E a maggior ragione questo vale per le città. La prospettiva che serve a interpretare la nozione di smart city è inevitabilmente una prospettiva di lunga durata, nella quale l’esperienza umana si sedimenta nei suoi risultati e questi indirizzano il suo avvenire.

Il fatto che l’idea di smart city sia ormai di moda, o meglio sia ripetuta molto più spesso del solito, la rende “interessante”. Ma ciò che la può rendere “importante” è la sua eventuale connessione alle tendenze di fondo dell’evoluzione culturale e organizzativa della società.

Il problema è essenzialmente di modello decisionale. Chi sceglie? Come si evita il rischio che tutto sia condotto da ottiche di breve termine? Chi offre soluzioni per la smart city può essere un visionario oppure un imprenditore schiacciato dal bisogno di fatturare al più presto. Chi domanda soluzioni per la smart city può essere un innovatore sociale consapevole delle dinamiche culturali con le quali ha a che fare oppure un politico schiacciato dal ciclo elettorale. Il rischio è alto perché qualunque sia la scelta, è destinata a pesare sul lungo termine: per ridurre quel rischio l’unica strada è la riflessione e la consapevolezza. D’altra parte, la riflessione deve a sua volta essere orientata alla decisione e all’azione, altrimenti il rischio è che non si faccia nulla. Occorre una visione condivisa. E una sistematica definizione del campo d’azione.

Il contesto è a dir poco sfidante. Un mondo popolato da 7 miliardi di esseri umani, tendenti ai 9 nell’arco di qualche decennio, si copre di conurbazioni di vario genere. La vita materiale ne è sconvolta. Ma la sopravvivenza dipende dall’intelligenza con la quale ci sapremo coordinare e adattare al cambiamento.

Da questo punto di vista non possiamo comprendere il presente senza guardare alla lunga durata. E’ da un paio di secoli che la popolazione umana aumenta esponenzialmente. Siamo arrivati oltre il flesso e verso l’asindoto. Ma, nel corso dell’epoca industriale, ci siamo adattati a essere tantissimi sviluppando città e producendo beni in modo sempre più efficiente dal punto di vista dei conti economici, ma in modo abbastanza inefficiente in termini di uso delle risorse non rinnovabili, in termini di qualità della vita relazionale, in termini di valorizzazione delle dinamiche culturali di fondo. Il filone di ricerca che va sotto il nome di “economia della felicità” è una delle possibili sorgenti di ripensamento che rispondono a questa dicotomia. L’industrializzazione continua, ovviamente, in Asia, mentre in Occidente si è trasformata nella produzione di beni ad alto contenuto immateriale, tanto che si parla di una condizione economica post-industriale, spesso definita economia della conoscenza.

Visione. Il coordinamento degli individui avviene in base alle varie forme di intelligenza collettiva che la cultura è in grado di sviluppare. Stiamo parlando di strumenti di pensiero ai quali i cittadini si connettono e che li aiutano a coordinarsi in modo almeno apparentemente intelligente. Si tratta di strumenti: si appoggiano a tecnologie la cui specifica funzionalità è quella di aumentare le capacità di pensiero individuale e collettivo. I sistemi giuridici, i mercati finanziari, i media che si occupano di informazione, sono elementi dell’intelligenza collettiva. Le città lo sono a loro volta. In un certo senso.

Ma l’intelligenza collettiva non è la fine della storia. In realtà, la qualità e il valore di ciò che la società è in grado di produrre dipende dalla libertà di espressione individuale, dalla capacità di ciascuno di creare, di ricercare la propria felicità, di interpretare la propria vita, di esserne l’autore. Se ciascuno fosse completamente succube degli strumenti di coordinamento collettivo, la sua creatività e autorialità sarebbe bloccata.

Un’intelligenza collettiva ha conseguenze sulla capacità creativa di una società, sia nel bene che nel male. Se è troppo soffocante può uccidere l’espressione individuale. Se è troppo inefficiente può richiedere agli individui di sopperire con uno sforzo di coordinamento troppo grande e dunque ridurre gli spazi di espressione individuale. L’equilibrio perfetto ovviamente non esiste. Esiste la dinamica dell’adattamento.

L’adattamento funziona come negli ecosistemi attraverso un’evoluzione dei comportamenti individuali all’interno delle opportunità offerte dalle risorse comuni e delle strutture che hanno un’efficacia incentivante.

Una delle strutture che si sono dimostrate più favorevoli alla velocità dell’adattamento richiesta dalle sfide dell’epoca della della conoscenza si è dimostrata essere la struttura di rete, abilitata in particolare dalla tecnologia internet. E’ dunque possibile pensare alla città intelligente come una città che abbia caratteristiche simili a internet?

L’idea di fondo è che la città sia una piattaforma abilitante per le attività che i cittadini sono in grado di sviluppare.

Se la città è una rete integrata che connette gli individui e ai quali lascia la libertà di interpretare la propria capacità di generare valore aggiunto, abbattendo i costi di transazione e valorizzando le attività individuali, si può definire “intelligente” e anche “smart”.

Occorre connessione, neutralità, apertura. Efficiente, facile, rispettosa.

Per arrivare a questo occorrerebbe che:
1. ogni elemento generatore di connessioni sia interconnesso in modo efficiente e neutrale
2. ogni elemento generatore di dati offra i suoi dati all’insieme dei cittadini in modo aperto
3. la libertà degli individui sia difesa dall’invadenza del controllo collettivo
4. ogni individuo sia capace se vuole di contribuire con il proprio servizio e contenuto
5. i dati mancanti vengano generati da sensori innovativi che conferiscono poi i dati all’insieme

Quello che va costruito, a quanto pare, è un layer che integra e rende interoperabili i diversi sistemi di connessione ereditati dal passato (denaro, trasporti, comunicazioni, ecc) e quelli da costruire (sensoristica, sicurezza, privacy…).

In pratica, la smart city sarebbe una piattaforma sulla quale si sviluppano le applicazioni ereditate dal passato e quelle che si possono inventare per il futuro. Non si occupa delle applicazioni, ma della possibilità per i cittadini di inventarle.

Il tema è enorme. Ecco alcune segnalazioni giunte via Twitter.

WorldSmartCapital (Pelatelli)
UrbanoCreativo (Manudonetti)
Iperbole 2020 (Twiperiperbole)
Modernità e non luoghi (MeriGreis)

Guido Vetere ha suggerito un titolo per questo argomento: dumb people building smart cities: a challenge of modernity.