Paper pubblicato da ” Problemi dell’Informazione “, anno 2009, numero 3-4.
Il giornale non è la sua carta di Luca De Biase
L’ecosistema dell’informazione
I quotidiani cartacei tradizionali sono una tra le numerose specie che vivono nell’ecosistema dell’informazione. Il loro ambiente si è radicalmente trasformato nell’ultima dozzina d’anni. Molte delle risorse sulle quali avevano a lungo prosperato scarseggiano, assorbite dall’espansione di altri media: l’onnivora, insaziabile televisione commerciale, l’innovativa televisione digitale a pagamento, la rivoluzionaria internet a banda larga, gli infinitamente attraenti telefoni cellulari. Milioni di persone, miliardi di euro, trilioni di minuti si sono spostati verso nuove abitudini mediatiche. E nel corso di un terremoto nei mezzi di comunicazione di tale portata è già sorprendente che molti castelli dei giornali di carta stiano ancora in piedi. E se lo sono è perché evidentemente hanno un valore e una resistenza importanti. Ma è tempo di restauri.
I sintomi della difficoltà economiche dei giornali di carta sono evidenziati dalla crisi generale del 2007-2009: la pubblicità diminuisce drasticamente, il numero di lettori paganti si erode, i collaterali non danno più le soddisfazioni di una volta e le entrate provenienti dalle versioni online non sono sufficienti a riparare alle perdite. L’urgenza congiunturale può essere cattiva consigliera, ma impone delle scelte. Che in ogni caso erano dovute da tempo. E’ evidente, infatti, che il taglio dei costi pur necessario non sarà sufficiente a rigenerare un equilibrio sostenibile. Meglio dunque cogliere l’occasione per un ripensamento profondo.
E a questo ripensamento, gli editori e i giornalisti hanno cominciato a dedicarsi, ciascuno dal suo punto di vista. Mentre il pubblico si trasforma, partecipa, pone problemi, offre risposte: tutte da interpretare. Le domande si moltiplicano. Quanto dureranno i giornali di carta? Si possono far pagare i giornali online? Come evolve la pubblicità? Qual è il ruolo del giornalismo professionale in un contesto nel quale i cittadini possono produrre informazione in modo sempre più facile ed efficace? Come si informano i giovani? C’è una crisi di credibilità nei giornali? Quali sono le visioni innovative emergenti? L’enorme complessità del compito di rispondere a queste questioni intimidisce. Ma può essere affrontata solo con un’umiltà appassionata, generata dalla consapevolezza che di informazione c’è e ci sarà sempre più bisogno, nell’economia della conoscenza. Per i giornalisti, questa consapevolezza è necessaria per affrontare il grande adattamento che la professione è destinata ad affrontare.
I temi sono talmente intrecciati che occorre qualche semplificazione. In particolare, pensando in termini positivi, cioè immaginando che cosa si possa fare, occorre distinguere tra i problemi degli editori, le organizzazioni imprenditoriali che si occupano di sviluppare i modelli di business, e i problemi dei giornalisti, coloro che pensano e realizzano professionalmente i contenuti dell’informazione. E per entrambe le categorie c’è da distinguere il tema delle piattaforme e dei modi per usarle dal problema dei contenuti e delle competenze da esprimere. Il tutto pensando innanzitutto al pubblico come principale referente e giudice delle azioni intraprese, oltre che come motore attivo della grande trasformazione in corso. Come dimostra l’esperienza dell’industria della musica registrata, anche nel giornalismo nessuna innovazione di successo avverrà in opposizione al pubblico.
La scommessa
Nel 2002, il pioniere dei blog Dave Winer, lanciò una scommessa sul sito Long Bets immaginando che cosa sarebbe successo nei cinque anni successivi: «Cercando su Google le cinque parole-chiave o le cinque frasi capaci di rappresentare le notizie più importanti del 2007, i blog compariranno più in alto del sito del New York Times». Martin Nisenholtz, ceo del New York Times Digital, accettò la scommessa: duemila dollari. Nel 2002 esistevano poche migliaia di blog e se ne parlava con la curiosità riservata alle novità un po’ balzane del web: erano diari online e poco più. Ma cinque anni dopo Winer vinse alla grande la sua scommessa. I blog, nel 2007, erano diventati tanto popolari e citati tra gli utenti di internet da superare il grande giornale newyorkese nel “ranking” di Google.
Tra le motivazioni della sua scommessa, Winer aveva scritto (il testo completo è sul sito www.longbets.org/2): «Con la maturazione del web, gli strumenti diventano più facili e la conoscenza della tecnologia si diffonde. Anche alcuni giornalisti seri e professionali usano i nuovi strumenti per pubblicare le notizie che non possono vendere alle grandi pubblicazioni. Intanto, torna il giornalismo amatoriale, fatto da persone che scrivono per il pubblico e per l’amore della scrittura, senza aspettarsi alcun compenso monetario. Tutto questo avviene mentre l’industria editoriale impiega sempre meno giornalisti e persegue la filosofia di semplificare le notizie, banalizzandole rispetto alla complessità del mondo in cui viviamo. Quando il New York Times scrive di argomenti che conosco molto bene mi accorgo che non è abbastanza competente e mi domando quanto lo sia su argomenti dei quali non mi intendo. Scommetto che tra cinque anni le persone si informeranno cercando quello che scrivono persone competenti senza distinguere se siano o meno giornalisti».
L’esito della scommessa non assicura che tutti gli argomenti di Winer fossero corretti. Ma la sua lungimiranza avvalora la sua visione complessiva. Anche perché nel frattempo è successo di tutto sul web. I blogger sono oggi centinaia di milioni. E sono molte di più le persone che pubblicano video su YouTube, foto su Flickr, messaggi su Twitter, chiacchiere su Facebook. Scambiano notizie di ogni genere. Coprono ogni argomento. E anche se non si pongono in generale l’obiettivo di sostituire i giornali, offrono una quantità di opportunità informative su una quantità di argomenti tale da mettere i giornali tradizionali di fronte a dilemmi senza precedenti. Il modello orizzontale del mega-passaparola nato intorno ai media sociali è un nuovo medium sul quale è nata un’enorme, insensata, rumorosa, informatissima, problematica, affascinante, alternativa al sistema editoriale tradizionale. Compresa una quantità di giornali amatoriali specializzati, spesso, di buona qualità. In alcuni settori, come quello delle notizie sulla tecnologia, ha messo davvero con le spalle al muro i giornali tradizionali, come può dire con arroganza Mike Arrington di TechCrunch. Dopo una dozzina d’anni, l’esperienza della rete impone all’editoria tradizionale, cartacea o televisiva, una riflessione, alla ricerca di un nuovo equilibrio e una nuova integrazione nel rinnovato ecosistema dell’informazione.
Per i giornalisti tutto questo non è obbligatoriamente uno svantaggio. Come diceva Winer, anche i giornalisti usano i nuovi media e attraverso di essi trovano un nuovo rapporto con il pubblico. Il problema è come si svilupperanno modalità di utilizzo dei nuovi media che garantiscano anche la sussistenza di un giornalismo professionale. Il problema è come trasformare un mezzo alternativo in un mezzo simbiotico.
È possibile? Guardando oltre questa straordinaria stagione di trasformazioni è forse tempo per una nuova scommessa. La gente che usa la rete non vuole necessariamente uccidere i giornali, vuole semplicemente giornali migliori. E vuole giornali che non siano percepiti soltanto come sistemi per trasmettere notizie, più o meno manipolate. Vuole anche giornali che siano luoghi culturali nei quali, un po’ per il metodo di ricerca giornalistica, un po’ per l’abitudine di molti cittadini a ritrovarvisi, un po’ per la linea interpretativa rappresentata, si sviluppi un dibattito informato e interdisciplinare, sorprendente e affidabile, capace di costruire un’agenda intorno alla quale decidere le questioni che riguardano la comunità: locale, settoriale, nazionale, internazionale, globale. Poco importa al pubblico il modello di business dei giornali: importa che i giornali li riguardino, li facciano sentire comunità, li servano in quanto parte integrante della rete sociale. Il problema è come arrivarci. Ma per i giornalisti, la priorità è interpretare queste esigenze del pubblico. Per gli editori è trovare il business.
Può essere, appunto, tempo di lanciare una nuova scommessa. Tra cinque anni i giornali ci saranno ancora. Grazie alle alternative nate in rete e alla richiesta di qualità cui la rete ha dato voce, i giornali si saranno rinnovati e avranno un ruolo riconosciuto, basato su metodi di ricerca giornalistica più trasparenti, modelli di business più evoluti e tecnologie più avanzate. E la scommessa si può vincere: anche perché tra cinque anni sarà diventato chiaro che i giornali non sono la loro carta.
Chi informa
Per innovare ci vuole ricerca e sperimentazione. E pur nel clima di profonda incertezza generato da una fase di innovazione, durante la quale (per definizione) i risultati non possono essere scontati, tra i compiti dei giornalisti, oggi, è sempre più chiaramente necessario prevedere uno spazio per la sperimentazione e la ricerca. Con metodo, s’intende. Un metodo artigiano, come è nella genetica del mestiere.
Si tratta di portare avanti il lavoro quotidiano e nello stesso tempo (nello stesso tempo) di riflettere sull’evoluzione dell’ecosistema dell’informazione. Che si trasforma costantemente. E genera significati nuovi per ogni gesto e per ogni fatto. Ricerca, dunque, per conoscere i fatti e interpretarli. Sperimentazione, per provare tutti i mezzi e i linguaggi che servano meglio il pubblico. Perché il lavoro che i giornalisti devono fare, nella grande trasformazione in atto, è duplice: pensare le piattaforme e sperimentare nuovi modi per usarle; sviluppare il metodo e le competenze necessarie a produrre informazione con qualità crescente.
Il caso del terremoto in Abruzzo è stato molto indicativo dal punto di vista sperimentale. Dopo un minuto dalla scossa, su Twitter, già otto persone avevano dato la notizia. Il passaparola era già attivo e il sito dell’Istituto che registra l’entità delle scosse sismiche era già linkato da molti blog quando sono arrivate le notizie delle agenzie, seguite dalle radio e, ovviamente, molto più tardi televisioni e quotidiani cartacei. Ma che cosa significa? Significa forse che i giornali sono inutili? No. Perché quei messaggi su Twitter erano emozioni, sensazioni, paure: solo il tempo e la riflessione le hanno trasformate in notizie. E in questo processo, i giornalisti professionisti hanno avuto un ruolo significativo. Non alternativo, anzi: alle otto della mattina successiva al sisma, i giornalisti della Bbc stavano già intervistando le persone che avevano testimoniato su Twitter i fatti della drammatica notte. Ed erano diventati fonti di un sistema informativo più ampio e organizzato. Lo stesso percorso avrebbero poi fatto anche i siti dei maggiori quotidiani italiani. E alla fine tutte le specie dell’ecosistema dell’informazione avevano dato un contributo importante. Che tra l’altro i giornali continuano a dare anche a mesi di distanza, quando le emozioni su Twitter non sono più all’altezza di aggiungere qualcosa alla conoscenza dei fatti.
È vero che in alcuni casi di comunità specialistiche i giornali nati online possono spiazzare quelli tradizionali. Ma nell’insieme, i cittadini che si esprimono, si riconoscono, si connettono in rete non intendono né possono essere alternativi ai giornali professionali: semplicemente chiedono qualità, offrono aiuto, possono contribuire, a un ecosistema dell’informazione nel quale c’è un enorme spazio per i giornali professionali che si mettano al servizio della società alla quale si rivolgono.
Non è un passaggio concettualmente tanto complicato. Si tratta semplicemente di fare un buon artigianato giornalistico. Di dare le notizie. Tutte le notizie. E di darle in modo pensato per il pubblico, non per altri. L’informazione giornalistica non si può distinguere dall’informazione tout court se non per il metodo di ricerca con il quale viene prodotta. E se non per la trasparenza della linea editoriale e interpretativa con la quale quell’informazione viene selezionata, organizzata e raccontata. L’informazione giornalistica invece non si definisce in base al mezzo che la trasporta. Il giornale non è la sua carta, la sua onda radio o tv: il giornale è il frutto della capacità di lavoro della redazione che lo produce, della direzione che lo guida, del pubblico che gli dà senso. E dell’editore che cura il modello di business. La carta è uno dei possibili display della ricerca giornalistica: e c’è da scommettere che durerà, riadattandosi, sperimentando, ancora a lungo.
La crossmedialità può essere un balzo organizzativo piuttosto complesso per redazioni abitudinarie. Ma le abitudini, quelle sì, vanno cambiate. Anche perché, per usare uno slogan molto in voga in rete, oggi non sono le persone che devono trovare le notizie sui giornali, ma sono le notizie dei giornali che devono trovare le persone.
La crossmedialità
Un neologismo vale l’altro, in certi casi. L’idea di crossmedialità è peraltro rilevante per sottolineare come la competenza e il lavoro di ricerca giornalistica di una redazione, nell’attuale ecosistema dell’informazione, si traduca nella narrazione di un insieme di storie destinate ad arrivare al pubblico in qualunque modo. Non è il mezzo a definire il genere giornalistico: è l’argomento e il metodo di lavoro. Le firme e le testate diventano in un certo senso i garanti dell’affidabilità delle storie. Mentre i mezzi impongono di dare quelle storie con spirito di servizio: cioè adattando i linguaggi e le forme alle diverse modalità preferite dal pubblico.
Insomma, per trovare una particolare storia giornalistica occorrono la stessa competenza, ricerca e metodo, sia che quella storia sia offerta al pubblico sulla carta, sul web, in tv o alla radio: cambiano i mezzi, i linguaggi, la velocità e l’ampiezza delle selezioni, non la sostanza della ricerca giornalistica. È per questo che i nuovi media non vanno necessariamente essere visti come una negazione del giornalismo ma come una modalità in più per esprimerlo.
Gli sviluppi per il giornalismo sono dunque in due direzioni: lavoro sulla competenza contenutistica, basato su ricerca, capacità di trasmissione su ogni mezzo, connessione con il pubblico attivo; lavoro sull’innovazione dei mezzi, basato sulla sperimentazione, l’adattamento dei linguaggi e degli stili di servizio.
Certo, la crossmedialità apre scenari diversi per quanto riguarda i modelli di business editoriale e di remunerazione del lavoro giornalistico. Che resta un lavoro di squadra. I gruppi di giornalisti si devono riorganizzare per offrire al pubblico le storie in modo crossmediale. E devono pensare a molti mezzi: dalla carta del giornale a quella del libro, dall’onda della radio a quella della tv, dalla versatilità del web alla velocità del cellulare e, perché no?, alla fisicità del teatro. Il lavoro giornalistico sta già oggi diventando la base per performance teatrali o per documentari cinematografici. È uno sviluppo possibile.
Alcuni giornalisti potranno prosperare in questo contesto vendendo il loro lavoro in modo creativo e personale. Si stanno sviluppando piattaforme, come Spot.us, che finanziano la ricerca giornalistica sulla base del sostegno finanziario delle comunità interessate: un modello di pagamento della produzione di informazione tutto da seguire, che peraltro taglia fuori gli editori. Ma è chiaro che per tutto ciò che ha bisogno di grandi squadre di giornalisti occorrono imprenditori e modelli di business. Il nuovo ecosistema ha bisogno anche di editori innovativi.
I dilemmi degli editori
La discesa precipitosa del fatturato dei giornali di carta in Italia e un po’ ovunque nell’Occidente ha convinto gli editori che è giunto il momento di ripensare i loro modelli di business. La prima reazione è stata naturalmente quella di lavorare sul taglio dei costi. Ma emerge anche un dibattito intorno alla ricerca di nuove fonti di ricavo.
Il primo pensiero è stato riservato all’idea di far pagare le notizie anche online. La parola d’ordine è stata lanciata da Rupert Murdoch che peraltro è un enorme editore globale ma non ha un grande curriculum come interprete delle vicende internettiane. Nel 1998 diceva che internet era abbastanza interessante ma che la sua News Corp avrebbe fatto qualcosa sul web solo per vedere com’era. Nel 2001 ha dichiarato che sarebbe uscito da internet. Nel 2006 ha ripreso a investire massicciamente su internet per sfruttare l’onda della crescente pubblicità in rete. E quando ha comprato il Wall Street Journal ha pensato di darlo gratuitamente per aumentare i ricavi pubblicitari. Ma nel 2009 ha detto di voler dare le notizie online di tutti i suoi giornali a pagamento. Indubbiamente, Murdoch dimostra una grande elasticità intellettuale, ma anche una certa difficoltà nell’interpretare in modo consistente il sistema dell’informazione che si sviluppa in rete.
Sta di fatto che sulla scorta delle opinioni di Murdoch, molti editori si sono lanciati alla ricerca di un sistema per far pagare i giornali online. Il problema è che non basta dichiarare che le notizie sono a pagamento. Occorre anche che qualcuno le paghi. E in presenza di molte alternative gratuite, non è detto che avvenga. Anzi. D’altra parte, se decidessero di mettere le loro notizie a pagamento, gli editori perderebbero un certo numero di visitatori. Dunque perderebbero una parte della raccolta pubblicitaria. A questo punto, il filo del loro ragionamento si scontra con il massimo vincitore dell’internet del nuovo millennio: Google, dicono, raccoglie pubblicità, in parte utilizzando ingiustamente i contenuti prodotti dagli editori di giornali. Potrebbero impedire a Google di aggregare le loro notizie su Google News, ma anche in questo caso perderebbero una parte del traffico che arriva ai loro siti dall’aggregatore, col rischio di perdere pubblicità. È il problema sollevato per esempio da Alan D. Mutter, imprenditore dei media, docente alla Graduate School of Journalism della University of California, Berkeley, blogger del Newsosaur. Non per nulla, Jay Rosen che insegna giornalismo alla New York University, dice che questa estate piena di proclami sui contenuti a pagamento sembra per ora essersi fermata a un’impasse del tipo «qualcuno prema il grilletto così potremo vedere che è un errore».
Di fronte a questi dilemmi, gli editori cercano le loro strade innovative. E nei casi migliori si concentrano sull’estensione di quanto sanno fare meglio. A ben vedere, in effetti, gli editori (a parte le agenzie giornalistiche) non hanno mai venduto le notizie. Hanno venduto l’attenzione da esse geneata agli inserzionisti pubblicitari e hanno venduto il supporto che conteneva le notizie e le rendeva accessibili. Hanno anche venduto la loro piattaforma di distribuzione per consentire la commercializzazione dei collaterali. A vendere le notizie casomai sono sempre stati i giornalisti: e le vendevano agli editori insieme al senso complessivo del loro lavoro che costituiva il bene esperienza per eccellenza, cioè la testata giornalistica. A quella linea editoriale, sintetizzata nella testata, i lettori hanno creduto. E in milioni di casi ci credono ancora. Ma il patto sociale tra editori, giornalisti e lettori, scricchiola. In certi casi regge solo per forza d’inerzia. Potrebbe andare giù da un momento all’altro. Non lo farà, probabilmente, in Italia, in tempi brevi: ma negli Stati Uniti i giornali chiusi o in chiusura sono numerosi. Gli altri paesi potrebbero seguire l’esempio.
E’ possibile un nuovo patto? Ci sarà una soluzione decisiva, buona per tutti? Probabilmente è proprio l’ambizione di trovare un nuovo ordine definitivo e stabile la prima vittima del terremoto. Non ci sarà una ricetta, ma molte. E solo alcune riusciranno a funzionare. Come suggerisce Clay Shirky, autore di Here comes everybody: the power of organizing without organizations . Quindi per gli editori si tratta di modernizzare il loro business, innovando nelle piattaforme, nei prodotti, nella raccolta pubblicitaria. E’ possibile. Ed è il loro mestiere riuscirci. Certo, in piena umiltà va detto che per mettersi al passo con il problema, dovranno accelerare non poco il loro processo di innovazione, pensare la piattaforma come un territorio da popolare di persone alle quali offrire servizi a valore aggiunto; e pensare alla pubblicità come a una premessa della vendita, come di fatto tende a diventare online. I grandi fatturati, in effetti, arriveranno proprio dall’accorta gestione della piattaforma che dovrà essere ricongegnata in modo da presentarsi come un luogo nel quale per il pubblico è piacevole andare per informarsi e partecipare, dove trovare offerte editoriali di valore da comprare, dove informarsi anche per quanto riguarda opportunità commerciali convenienti o esclusive. Insomma, si tratta di innovare. Con forza. Si innova solo se ci si crede.
Prospettiva
Non è la prima volta che i giornali attraversano una fase difficile. Francis Williams, veterano del giornalismo britannico ne ha scritto recentemente nel libro Dangerous Estate: tra il 1921 e il 1957, per esempio, solo in Gran Bretagna hanno chiuso 225 settimanali e 21 su 41 quotidiani locali.
Spesso in Italia i giornali sono sopravvissuti attraverso varie forme di accordo di potere. E certamente sapranno farsi valere anche in questa circostanza. Ma se vogliono ritrovare anche un rapporto costruttivo con il pubblico devono necessariamente porsi domande su come il pubblico evolve e quali esigenze manifesta.
Il test fondamentale è quello del mondo giovanile. Se i ragazzi non comprano quasi più musica su cd e tendono a non comprare i giornali di carta, mentre accettano di pagare per andare ai concerti e passano molto tempo sui social network, trovando il modo di informarsi e di vivere la cultura della loro epoca, questo significa qualcosa che va tenuto presente.
Redazioni giornalistiche che non assumano più giovani, non possono stupirsi se i giovani non le sentono parte della loro vita. Ed editori che non si pongano in ascolto delle esigenze dei ragazzi sono destinati a perdere progressivamente quote di mercato.
E la rete insegna molto da questo punto di vista. L’innovazione, anche quella più necessaria, non si impone alla rete. L’innovazione viene adottata dalla rete. Gli imprenditori e gli innovatori propongono delle novità, ma il loro effettivo funzionamento dipende dagli utenti. Il valore, specialmente nell’epoca dei nuovi media sociali, è generato dall’incontro di chi propone e di chi utilizza, trasformando le informazioni in elementi della costruzione sociale che alimenta i beni relazionali. Ma c’è un dato di fatto, incoraggiante: le piattaforme sulle quali avvengono questi scambi conquistano un’importanza immensa per chi le usa, dando luogo a nuovi ma redditizi modelli di business. L’importante, non solo per il pubblico, ma anche per i giornalisti e gli editori, è partecipare. Solo così si può vincere anche la scommessa dei prossimi cinque anni.