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Le nazioni sono sovrastimate

Qual è, oggi, il contesto principale della politica? Gli stati nazionali? Davvero? È ancora così? Resterà sempre così?

La banalità delle critiche al presidente americano Joe Biden, accusato da avversari e amici per come è andata a finire a Kabul, era frutto di un’ovvia strumentalizzazione dei fatti. In realtà, la fine della guerra americana in Afghanistan era precisamente implicita nel modo in cui è cominciata: con obiettivi confusi, dettati dalla propaganda, guidati da leader imprigionati nel breve periodo dei cicli elettorali e nella pletora di interessi dei budget militari, destinati a impantanarsi per l’incapacità di comprendere la cultura dei popoli che vivono in Afghanistan.

Nation building?

In ogni caso: un conto era cercare e perseguire i terroristi, un altro conto era fare la guerra con l’obiettivo di costruire una nazione Afghana. Il fallimento del “nation building” in Afghanistan è il fallimento dell’idea che le istituzioni occidentali siano il punto d’arrivo di ogni evoluzione politica razionale e moderna. La lunga durata delle esperienze tribali non è compatibile con l’introduzione artificiale e accelerata di componenti politiche totalmente aliene per la cultura tradizionale. Non inganni il fatto che metà della popolazione afghana abbia meno di 17 anni, cioè sia nata sotto l’occupazione americana: i tre quarti della popolazione vivono in zone rurali, lontane dalle dinamiche della tentata modernizzazione prevalentemente centrata sulle città, e sono divisi in etnie diversissime, che non si riconoscono in alcuna unità politica di sorta e casomai usano i centri della politica per gestire le loro relazioni tribali: Pashtun (40%), Tagiki (25%), turcofoni, Uzbeki e Turkmeni, (12%), Hazara, in massima parte sciiti, Baluci indipendentisti, più molti altri popoli. (Treccani)

Lo stato-nazione è un fenomeno piuttosto particolare, pieno di difetti, utile in certe condizioni storiche, fondamentalmente incomprensibile altrove.

Questo insuccesso afghano è l’ennesimo motivo per riflettere sulla difficoltà di considerare progresso soltanto ogni passaggio evolutivo che avvicina un territorio alle condizioni istituzionali, organizzative e umane che si sono formate in Occidente.

Un minimo di background

Al concetto di nazione sono state dedicate intere biblioteche. Si va da chi pensa che si tratti di una realtà profondamente culturale che diventa istituzionale a chi pensa che si tratti di una costruzione narrativa derivata dalla necessità di giustificare un’aggregazione istituzionale. Imprescindibili per avere una visione di insieme: Anthony Smith, “La nazione. Storia di un’idea”, Rubettino 2007 (v.o. 2000); Eric Hobsbawn, “Nazioni e nazionalismi dal 1780. Programma, mito, realtà”, Einaudi 1991 (v.o. 1990). Per la costruzione della nazione italiana resta necessario leggere Alberto Mario Banti, “La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita”, Einaudi 2000. Se nell’Ottocento si poteva pensare, letterariamente, che il futuro fosse la liberazione della nazione dagli imperi europei, nel continente e nelle colonie, nel Novecento si è toccato con mano l’effetto autoritario che il concetto di nazione allude e sostiene, concentrando l’attenzione sugli interessi interni contro quelli di tutti: sicché la nazione del nuovo millennio sembra destinata a generare tutte le sue storture e a frenare molte forme di innovazione politica. Di certo, non è più condivisibile l’equazione ottocentesca che vedeva nella nazione all’europea la strada del progresso.

Esistono delle prospettive nazionali?

Un grande articolo di Alex Hochuli intitolato “The Brazilianization of the World” mette in discussione proprio quell’idea di progresso monodirezionale. Il Brasile, l’eterno paese del futuro, non lo diventa mai. È il paese che è nato moderno ed evolve verso l’arretratezza, dice Hochuli. E il paese che invece di unificarsi progressivamente diventa sempre più diviso. È il paese nel quale si trovano capitalisti rapaci che distruggono un patrimonio ambientale unico al mondo, politici corruttibili, diseguaglianze dolorosamente insopportabili. L’articolo va letto e magari anche criticato, ma su un punto è chiaro: come non tutte le strade portano a Roma, nell’epoca della complessità, così il progresso non è una linea dritta che da qualunque posto cominci, porta inevitabilmente in Occidente (American Affairs)

E se il Brasile è in queste condizioni, l’Africa resta un buco nero. Come non guardare con preoccupazione al grande accordo di libero scambio africano, l’African Continental Free Trade Area (AfCFTA), entrato in vigore il primo gennaio di quest’anno e rallentato dalla mancanza di infrastrutture fondamentali per la gestione degli scambi internazionali? Un trattato firmato da 54 “nazioni” africane che parte dall’assunto secondo il quale abbassando i dazi doganali aumenta il commercio tra i paesi. Un trattato che non impedisce a un paese come il Kenya di fare un accordo di libero scambio con il Regno Unito che di fatto ha un’economia più grande di quella di tutta l’Africa e parla una lingua relativamente comprensibile ai kenyoti. Un trattato, l’AfCFTA, che è scritto in Inglese, Francese, Spagnolo, Portoghese, Arabo e Swahili, mentre in Africa si parlano oltre duemila lingue e i popoli principali affermano sempre più chiaramente la loro preferenza per esprimersi nella loro lingua. Un trattato insomma fondato sull’idea che esistano “nazioni” in Africa in grado di mediare nelle questioni economiche, mentre di fatto le relazioni commerciali si fondano sulla fiducia e la comprensione tra le aziende e le popolazioni che non si riconoscono necessariamente in quelle “nazioni”. Su questa questione dobbiamo studiare di più e tornare. Ma è chiaro che anche in Africa il concetto di “nazione” va messo in relazione a concetti più tradizionali di aggregazione sociale per poter progettare qualcosa che possa essere sentito come proprio dalle popolazioni (AfCFTA)

Funzionano ancora le nazioni?

Alla fine, anche l’Italia è una “nazione” fino a un certo punto. È ancora un aggregato di tradizioni diverse, di sicuro. Non solo territori diversi e storie diverse. La stessa importanza della famiglia riduce l’importanza delle istituzioni e non solo per il familismo amorale. Benché la dinamica della modernizzazione abbia coinvolto a fondo l’Italia, il paese non è ancora un “modello nazionale” dal punto di vista istituzionale: diventa nazione solo quando gli italiani si aggregano spontaneamente per perseguire un comune obiettivo, pronti a dividersi appena lo hanno raggiunto (vale per l’entrata nell’euro come per il calcio della nazionale). Anzi, forse la costruzione istituzionale italiana avverrà non tanto nel contesto dello stato-nazione quanto in quello più complesso dell’Unione Europea.

Ma la congiuntura non è tanto semplice. Dal Centroamerica al Medio Oriente, dalla Turchia alla Russia, le logiche democratiche lasciano spazio alle dinamiche autoritarie. E negli stessi Stati Uniti come in molti paesi europei la logica binaria impostata dalla destra sta mettendo a dura prova la tenuta delle democrazie. Che hanno bisogno di qualità istituzionale per potersi esprimere in modo sensato.

Ma se l’Europa ha qualche chance sta nella sua unità e nella sua capacità di convincere le nazioni che la compongono a lavorare di concerto. Certo, gli Stati Uniti – come l’Inghilterra dell’Ottocento – sono bravissimi a dividere gli europei. Ma alla fine le nazioni europee per contare dovranno collaborare davvero e cedere sovranità all’Unione. A meno di non decidere di farsi inglobare in altre sfere, come sta facendo il Regno Unito che, dopo la Brexit, si lascia intrappolare pienamente nell’orbita degli Stati Uniti.

La questione dello stato-nazione è sopravvalutata. L’importanza della cultura e della sua lunga durata è sottovalutata. L’impostazione di una visione del futuro deve tener conto che la banalità dello stato-nazione, per quanto abbia costituito un motivo di modernizzazione per certi paesi occidentali, non è più sufficiente. Le scelte che gli umani devono compiere insieme, per il clima e la disuguaglianza sociale prima di tutto, non possono più perdere tempo con sistemi di potere piccoli come gli stati-nazione.

Piccoli? Certo. Piccoli nei confronti delle multinazionali. Piccoli nei confronti dei problemi globali. Piccoli nei confronti dei movimenti sociali che derivano da tendenze profonde – dall’inequaguanza all’inclusione, dalle migrazioni alle conseguenze dei social network, della finanza, della crisi del neoliberismo, eccetera – che avvengono a un livello ben più generale di quello nazionale.

In questo contesto, mentre le strutture sovranazionali appaiono le sole che hanno la dimensione per affrontare i problemi globali della contemporaneità, le nazioni diventano spesso il luogo della reazione, della conservazione, della violenza politica. Per salvare l’impatto della democrazia, per sviluppare la partecipazione, la dimensione nazionale va ridimensionata anche per quanto riguarda le aspettative di soluzione dei problemi: sta ai cittadini, alle città, alle comunità, riprendere in mano il loro destino, informarsi sulle dinamiche sovranazionali, aiutarne lo sviluppo per quanto possibile, reimmaginare una serie di questioni e trovare i nuovi contesti adatti ad affrontarle. Limitare il potere delle nazioni, aumentare le strutture sovranazionali e le aggregazioni sociali e culturali fondate sulle reti di città, è la strada per limitare il potere delle multinazionali che prosperano proprio giocando sui difetti delle relazioni tra le nazioni. Se ci aspettiamo la soluzione dalle nazioni saremo delusi. Imho.

Foto: resti del Muro di Berlino. Image by ProNoticias from Pixabay

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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