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Iulm 2012 – 9. Commons

Questi sono appunti. Vanno presi come una sorta di raccolta di temi che sarebbe interessante approfondire. Possono essere visti come una bibliografia ragionevole. Oppure semplicemente come spunti di discussione per il corso:
Information technology e nuove piattaforme culturali – IULM 2012

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1.
Progetto : informazione, tecnologia, piattaforme, cultura; novità e innovazione
2. Paradigmi , ecosistemi, complessità, economia della conoscenza, reti
3. Internet come tema evolutivo: le connessioni e la specie
4. Internet come tema antropologico: spazio e tempo
5. Internet come design culturale: piattaforme della vita quotidiana
6. Piattaforme culturali, nuovi media sociali, gamification: industrie culturali
7. Piattaforme culturali, educazione, ricerca, informazione: civic media
8. Prospettive : metodi per la visione ed evoluzione della tecnologia
9. Prospettive: economia della conoscenza, copyright e commons

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Il valore dell’informazione non profit
Le opportunità che si possono cogliere contribuendo ai commons culturali sono direttamente proporzionali alle difficoltà emergenti nel mercato e nello stato

I commons, i beni comuni, sono di tutti. Non dello stato, non di privati. E a gestirli sono le comunità. La logica economica che li motiva è semplice: servono a tutti, vanno manutenuti e arricchiti perché arricchiscono tutti, ciascuno secondo le sue priorità e interessi. Nessuno ha il diritto di sfruttarli tanto da impoverirli per raggiungere i suoi scopi personali. Bene comune è la qualità dell’ambiente. Un bosco può esserlo se la comunità circostante ha il diritto di andarci a prendere la legna da ardere. Un bene comune è il mare nel quale si pesca. Se i privati sfruttano eccessivamente questi beni li distruggono e, avvantaggiandosi personalmente nel breve periodo, impoveriscono sé stessi e tutti gli altri nel lungo periodo.

Esistono anche i beni comuni della conoscenza. Le opere di pubblico dominio, quelle per esempio delle quali sono scaduti i diritti di copyright, sono parte dei commons. E internet, in quanto protocollo che non appartiene a privati ma a tutti, è parte di questi beni comuni. L’ecosistema dell’informazione, nel quale operano privati, stati e comunità, è formato anche dai beni comuni della conoscenza. Gestirli, arricchirli, difenderli da chi li vuole sfruttare eccessivamente è compito delle comunità. Questo avviene non in base alla logica del profitto privato, ma per perseguire la ricchezza di tutti.

Con l’avvento dei blog, dei social network, dei civic media, la dimensione dei commons dell’informazione è cresciuta enormemente e con essa il suo valore. In parte è avvenuto per opera di privati che hanno aggiunto valore d’uso a internet e ai commons della conoscenza. In parte è avvenuto per opera di comunità, organizzazioni non profit, persone. Le licenze creative commons hanno sancito anche giuridicamente l’emergere di questa dimensione. E anche questi commons rischiano l’ipersfruttamento e l’impoverimento: per opera di persone o aziende che li usano per tornaconto privato immediato. O per semplice incuria. La loro buona gestione è ricchezza di tutti e il rilancio di ogni attività che li sostenga è un vantaggio di tutti. La conoscenza di come stanno le cose, la fiducia nel fatto che si possa sapere come stanno le cose, il consenso sul metodo che conduce una società civile a sapere come stanno le cose sono elementi di un bene comune che a sua volta potrebbe rientrare nel concetto di commons.

In un periodo in cui il mercato sembra mettere in difficoltà gli editori orientati al profitto, la società rischia che la generazione di informazioni si impoverisca. Sulla base di questa osservazione, negli Stati Uniti sono nate alcune iniziative non orientate al profitto e dedicate a salvaguardare la ricchezza di conoscenze anche nelle materie di attualità. ProPublica, per esempio, è stata fondata da una coppia di miliardari che hanno destinato 10 mlioni all’anno della loro ricchezza personale a finanziare una redazione di altissimo livello dedicata a svolgere inchieste difficili, costose e scomode ma necessarie a mantenere la società americana informata su come stanno le cose. A guidarla è andato l’ex direttore del Wall Street Journal, Paul Steiger. Con la sua direzione ProPublica ha già vinto due premi Pulitzer. Ed è entrata da protagonista nell’ecosistema dell’informazione americano e mondiale.

Commons


Garrett Hardin, The tragedy of the commons, Science, Vol 162, Numero 3859, 1243-1248, 13 Dicembre 1968
http://dieoff.org/page95.htm
http://www.oilcrash.com/italia/tragedy.htm

Elinor Ostrom, Governing the commons, Cambridge University Press 1990
http://www.yesmagazine.org/new-economy/the-victory-of-the-commons

Paul E. Ceruzzi, Storia dell’informatica. Dai primi computer digitali all’era di internet, Apogeo 2006 (originale 1998)

«Nel 1968, agli albori del movimento ambientalista moderno, il biologo Garrett Hardin scrisse un articolo intitolato “The tragedy of the commons”. L’articolo venne ampiamente citato nei decenni successivi come una delle più penetranti osservazioni sulle cause dei problemi ambientali che affliggono le società industriali. Nell’articolo, egli equiparava i problemi ambientali globali a quelli che si verificavano nei pascoli comuni di un villaggio, dove il costo di consentire “ancora a un solo” animale di pascolare è basso, mentre il beneficio per il proprietario di quell’animale è alto. Quando la popolazione complessiva è bassa, il danno ai beni comuni è insigifnicante. Ma con l’aumentare degli animali che vi pascolano il danno si fa gradualmente più grave fino al punto in cui tutti i pascoli comuni vengono distrutti. Nel suo articolo Hardin quantifica la relazione economica fra i benefici per gli individui e i danni per le risorse comuni, ma argomenta anche che niente al di fuori di una regolamentaizone esterna può prevenire il verificarsi di questa tragedia. Non saranno sufficienti né le libere forze del mercato né il comportamento altruistico degli utenti dei beni comuni».

Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia, ha dimostrato che non è così. La proprietà privata non è l’unico modo per risolvere il problema. E le comunità che si sono organizzate per fare in modo che i commons non vengano consumati fino a scomparire sono talmente numerose, mentre le soluzioni che hanno trovato talmente varie e in certi casi efficaci, che la teoria di Hardin ne esce a pezzi. Ostrom ha dedicato la vita a descrivere e studiare i modi che le comunità adottano per gestire i commons. E casomai il suo scopo è quello di comprendere quali sono i modi più efficaci, proprio perché anche il sistema dei commons deve progredire e adattarsi di fronte alle sempre nuove sfide poste dalla storia dell’economia, della demografia e delle varie tensioni sociali.

Il punto è che tra i beni comuni ci sono anche i commons culturali.

Paolo Ferri, Nativi digitali. L’io comune della conoscenza, in Communitas, maggio 2011, I beni della comunità.

«Il fatto che la conoscenza costituisca un bene comune, stratificato nel corso di generazioni e secoli, è sancito, oltre che dal “senso comune” anche dalle carte costituzionali di tutte le nazioni civilizzate nonché da una serie di convenzioni e trattati internazionali». La Costituzione italiana dice all’articolo 12: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». La Repubblica si impegna a istituire scuole statali per ogni ordine e grado. E: «La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi».

«La natura di “bene comune” della conoscenza, della formazione e della crescita individuale del capitale sociale risulta però evidente anche dal fatto che dopo settant’anni termina anche la più restrittiva normativa sul diritto d’autore e la conoscenza e il sapere tornano a costituire un bene comune. La scienza è un bene comune, la conoscenza contenuta nei libri e nelle biblioteche, l’immaginario letterario e poetico è un bene comune. Sono un bene comune dell’umanità anche ogni progresso ed ogni innovazione che contribuisce alla crecita della capacità dell’uomo di migliorare le sue condizioni di vita o di adattarsi in maniera pro-attiva al proprio ambiente sociale ed esistenziale. Questi beni comuni della conoscenza sono un patrimonio comune anche se sono tutelati dal “diritto d’autore” dal momento che il legittimo godimento di questo diritto non può prescindere dal carattere “pubblico” e “conosciuto” del bene comune della conoscenza sul quale l’autore o il content provider (l’editore nell’epoca gutenberghiana) esercitano questo diritto; infatti, se un film o un libro non vengono distribuiti e pubblicati, se un brevetto non viene registrato e utilizzato, queste opere dell’ingegno non possono generare nessun profitto né per i detentori dei diritti né per coloro i quali beneficiano come lettori o utenti di quell’opera dell’ingegno. La contraddizione intrinseca tra il carattere “comune” e “pubblico” della conocenza e il carattere, almeno temporaneamente, “privato” dei prodotti dell’ingegno che sono legittimamente soggetti allo sfruttamento economico da parte dei loro ideatori, inventori, divulgatori, editori e distributori è un dato strutturale della società moderna e contemporanea, anzi è uno dei tratti fondativi della modernità».

«Da un lato i nativi digitali, i cittadini del web 2.0, che – se li osserviamo dal punto di vista della didattica e dell’apprendimento – non vogliono più solamente ascoltare l’insegnante, copiare dalla lavagna e prendere appunti. Vogliono imparare dall’esperienza, vogliono apprendere in gruppo e tra pari, vogliono usare il computer, co-produrre contenuti su internet, desiderano, cioè un apprendimento più personalizzato e sociale. Più comune. Di fronte alla sfida dei nuovi stili cognitivi muta radicalmente anche il ruolo dell’insegnante, nell’ottica della personalizzazione degli apprendimenti e della co-evoluzione in atto nell’intreccio tra ICT e didattica. Con le nuove tecnologie della comunicazione digitale, l’identità del docente/insegnante, già in forte tensione a causa delle trasformazioni socioeconomiche degli ultimi due decenni, viene messa ulteriormente in discussione. I docenti, infatti, si trovano a dover mettere in discussione il loro ruolo e le loro modalità di intervento nel momento in cui si trovano anche a gestire la transizione verso un ambiente multimediale integrato per la didattica. Andando oltre, possiamo però dire che è tutto il mondo sociale che si sta, in qualche modo, aprendo, provocando magari disorientamento tra i “figli del libro”. Nel mondo sociale si stanno affermando nuove tecnologie digitali. Spesso, però, quando si ragiona relativamente a oggetti che veicolano il nostro lavoro – i cosiddetti oggetti della conoscenza – non si tiene conto di quello che sta succedendo sotto i nostri occhi. E ciò che sta accadendo, qui e ora, è la migrazione di quegli oggetti da un’altra parte. Noi possiamo tranquilllamente considerarci figli dell’epoca del libro. Dal momento che siamo figli del libro ci dimentichiamo che, a partire dal 1985 ma in maniera conclamata dal 1996, cioè con la diffusione di internet e delle reti telematiche, a noi, proprio a noi, sta capitando una strana cosa: l’oggetto delle nostre ricerche l’oggetto dei nostri amori, delle nostre fatiche ha cambiato tecnologia di rappresentazione, ha cambiato supporto di rappresentazione, ha cambiato modalità di diffusione, ha cambiato modalità di consumo. Ormai i risultati di una ricerca, prima di essere pubblicati in un libro divulgativo, viaggiano sulla rete e dalla rete vengono diffusi. Può apparire scontato, ma appunto ciò che è scontato, ciò che è nel senso comune, spesso manca di esplicitazione, anche se, come in questo caso di tratta di qualcosa che ha un impatto piuttosto forte anche sulla generalità della società».

In questo mutato contesto, la relazione tra i commons culturali e le recinzioni legate al copyright e alla forma tradizionale della sua gestione sono in via di ridefinizione.

Lawrence Lessig, Free culture, Penguin 2004
Lawrence Lessig, The future of ideas, Random House 2001

La ricchezza alla quale l’economia della conoscenza è destinata sempre più ad attingere è nel patrimonio comune di informazioni e idee. Il miglioramento delle relazioni tra le persone che costituisce una delle caratteristiche fondamentali della ricerca della felicità passa anche per lo scambio gratuito di idee e informazioni. La crescente efficenza con la quale si gestiscono i commons nelle comunità online – e la crescente inefficienza con la quale si gestisce il copyright online – rendono il pubblico dominio un ambiente destinato a accrescere la sua importanza. Del resto, la dimensione di comunità è destinata a rispondere a molte domande sociali che un tempo erano appannaggio delle altre dimensioni, attualmente in crisi, del mercato e dello stato.

Non che il diritto d’autore sia destinato a scomparire. Stanno però andando in crisi alcuni modelli di business che lo valorizzavano. E ne stanno emergendo altri. Gli autori avranno il loro diritto se hanno capacità creativa a sufficienza e lo valorizzeranno in modi tutti da sperimentare. Sono casomai gli editori tradizionali che non riescono a valorizzare quel diritto e dunque che si trovano in difficoltà, sia nell’imporre i loro schemi di business al pubblico sia nel soddisfare le esigenze degli autori.

Guido de Blasio e Paolo Sestito (a cura di), Il capitale sociale, Donzelli 2011.