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Perché ci domandiamo dov’è il centro delle startup in Italia?

Da quando è partita la storia delle startup italiane – cioè da quando si chiamano così – c’è un sottodibattito relativo al modello da perseguire: 1. Il discorso mainstream è stato dominato da una visione molto influenzata dall’esempio di Silicon Valley; 2. Molti osservatori hanno invece criticato la centralità della California e sottolineato la moltiplicazione dei modelli, indicando Israele, Londra, Berlino e altri esempi come dimostrazione; 3. Altri hanno detto che l’Italia è diversa da tutti gli altri luoghi. Tutto interessante. Ma nessuna sintesi banalizzante può essere sufficiente a capire. Il successo di Silicon Valley non può non essere un punto di riferimento, gli altri poli sono veri e diversi, l’Italia ha un’economia originale: tutto vero, ma anche insufficiente a capire e agire. Il rischio è che in un paese nel quale nel bene e nel male la policy è tanto importante, la questione del modello banalizzante che aiuta a trovare consenso a breve termine diventi altrettanto importante.

Solo internazionalizzando l’ecosistema dell’innovazione – non solo in Italia ma particolarmente in Italia – ci si può candidare al successo. È condizione necessaria ma non sufficiente: per essere competitivo un territorio deve anche trovare i propri punti di forza unici per competere e attrarre.

Molto si deve imparare dagli altri e altrettanto si deve valorizzare nella nostra originalità economico-culturale.

Che cosa si impara dagli altri?

Che le startup sono imprese diverse perché nascono senza un fatturato e spesso senza un prodotto, ma con un punto di partenza che dà concretezza all’idea di poter fare qualcosa che non esiste e che può crescere e diventare grande, che si mantengono per i primi tempi con finanziamenti di chi scommette che l’idea si possa tradurre in realtà. Fanno parte dell’ecosistema dell’innovazione ma di certo non coincidono con esso. Se il loro lavoro è riconosciuto dall’ecosistema portano probabilmente valore, dinamismo, efficienza al sistema con il quale un territorio genera innovazione. Significa che l’ecosistema ha anche bisogno di una policy ospitale, di finanza competente, di imprese attente e aperte all’innovazione, di ricerca ed educazione adeguate, di connessioni fisiche e digitali ottime, di un tessuto culturale capace di rinnovare le relazioni tra la tradizione e il futuro.

Che cosa non è comparabile?

Non è vero che si deve trovare il centro delle startup italiane. C’è chi dice che Roma deve essere l’equivalente di Berlino e Londra. C’è chi dice che lo è Milano. C’è chi dice che investire al di fuori di queste città non abbia senso. L’idea nasce dal confronto con Londra, Parigi o Berlino. Ma l’Italia è proprio diversa. Londra è il 22% dell’economia del Regno Unito, Parigi è il 30% dell’economia della Francia. In Italia la somma delle 14 città metropolitane fa il 40% dell’economia italiana (dice Ambrosetti). L’Italia è ben poco centralizzata. È destinata a trovare il suo modello diffuso nel territorio. Non centrato su una città.

Inoltre l’economia innovativa italiana è spesso orientata a fare componenti di prodotti finiti altrui o sistemi di automazione che altri mettono nelle loro fabbriche per fare i loro prodotti. Questo fa meno rumore e attira meno attenzione mediatica e meno finanza modaiola. Su questo c’è un lavoro di fondo da fare per connettere ricerca e industria. Diverso da quello di altri paesi proprio per la dispersione delle attività. Ma sotterraneamente potente. Che tiene in piedi profondamente il sistema.

E poi i marchi trainanti italiani vengono spesso da settori dove la tradizione conta – alimentare, arredamento, abbigliamento – e che devono trovare il modo di rinnovare prodotti e produzioni: possono imparare sul metodo delle startup ma non sul merito, perché non possono imparare dagli altri come si fanno i prodotti nei quali sono leader. 

Quindi va creata una strada italiana all’innovazione. E c’è già anche se non si è chiamata con parole inglesi in passato. È ora di imparare i metodi dell’innovazione da tutti quelli che possono insegnare, ma poi l’Italia deve interpretare a modo suo l’opportunità e la necessità di imparare.

Il finanziamento per via di fatturato invece che finanza ha senso per gli italiani a integrazione del modello. La critica della tecnica banalizzante delle relazioni culturali che omogeneizza i prodotti ha senso per un paese che produce valore unico. L’accettazione di modelli americani non è necessaria: per esempio, la retorica dei makers non aggiunge molto nel paese dell’artigianato di valore se questo sa apprendere le tecniche contemporanee. Si dovrebbe continuare, ma questo post è già troppo lungo. Quello che conta non è il modello ma il risultato. Imho.

Ps. Oggi a Startup Europe a Roma, il presidente Zingaretti ha spiegato la sua visione pragmatica. Il Lazio sta facendo senza dubbio molto per l’ecosistema dell’innovazione. Non è certo la sola regione che lo fa. Stefano Firpo, Mise, commenta: «La concorrenza tra i territori fa bene».

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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