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L’editoria di fronte al picco dell’attenzione. Il nuovo modello richiede qualità e tecnologia

Siamo nell’infosfera. Un ambiente nel quale tutto è scritto. E nell’infosfera evolvono forme di intelligenza collettiva e intelligenza artificiale. La produzione di informazione continua a crescere, sostenuta dalla collaborazione forzata o divertita delle persone e dal crescente ricorso ai “robot” giornalisti. IL libro di Andreas Graefe, Guide to Automated Journalism, (Tow Center for digital journalism) dimostra la crescita velocissima della produzione di informazione a mezzo di algoritmi e intelligenza artificiale. Guido Romeo ha descritto su Nòva diverse soluzioni: L’algoritmo redattore in azienda, Sono Quill, scrivo di finanza. Gli articoli automatici di Narrative Science sulla cronaca finanziaria di Forbes non sono più soli.

La nozione di information overload ha fatto il suo tempo: non certo perché sia scomparso il motivo che l’ha generata, piuttosto perché sembra aver vinto su tutta la linea. Non c’è filtro o altro attrezzo tecnologico che possa gestire l’enormità di messaggi, notizie, attività online e mobili che cercano di conquistare l’attenzione. L’offerta di informazione sembra priva di limiti. Ma resta il fatto che la domanda è limitata: esiste un’ovvia scarsità di tempo e attenzione da dedicare all’informazione, e del resto le persone riconoscono una certa rilevanza ai messaggi in modo limitato e selettivo. Il problema casomai è capire se quella selezione sia qualitativamente avvertita, oppure se è manipolata da algoritmi e tecniche di seduzione o bombardamento informativo, oppure se sia semplicemente quantitativa, cioè relativa all’impossibilità di superare un certo limite nel numero di messaggi che si possono considerare importanti o interessanti. (Vedi in proposito l’ottimo pezzo di MediaBriefing Peak content: The collapse of the attention economy).

Sta di fatto che l’onda dell’informazione offerta è immensa. Si può formulare una teoria: dato il limite complessivo dell’attenzione collettivamente attribuita all’insieme dell’informazione offerta, esiste a un certo punto un picco insuperabile oltre il quale la quantità di informazione non aumenta la comunicazione, cioè l’effettivo scambio tra chi offre e chi fruisce. Se ne deduce che esiste un limite anche alla pubblicità che può essere effettivamente fruita dalla popolazione.

Se si è raggiunto il picco dell’attenzione, la pubblicità può aumentare solo a scapito di altre forme di informazione.

Probabilmente, da qualche parte, esiste una proporzione organica tra quanto può essere pubblicitario e quanto deve restare informativo nel sistema dei messaggi globali. Se si considera l’insieme di pubblicità, promozione, pubblicità camuffata da informazione, manipolazione dell’agenda in base alla quale si fa informazione e altre forme di messaggistica commerciale, o politica, il volume totale dei messaggi promozionali non può superare un certo limite. Se l’innovatività degli strumenti che si usano per far passare i messaggi pubblicitari va meno veloce della saturazione dell’attenzione, si può immaginare che il fatturato complessivo della “pubblicità” (intesa nell’accezione allargata usata poco sopra) può aumentare solo con il prezzo. Se si trovano nuovi modi per fare “pubblicità” può darsi che vadano a incidere sul prezzo, sia in un senso che nell’altro. Ma poiché è probabile che comunque il sistema economico non allochi una quantità sempre crescente di risorse alla pubblicità a scapito di altre forme di creazione di valore, si può immaginare che anche il prezzo non aumenterà più di tanto. In effetti, il fatturato complessivo della pubblicità, in generale, non aumenta da tempo. Casomai si sposta per cercare l’attenzione del pubblico a un prezzo conveniente.

In tutto questo, gli editori sono davvero in difficoltà. Il fatturato complessivo va dove conviene. Il prezzo non aumenta. Lo spazio è limitato e l’attenzione è attratta da una quantità di altre cose. Ma probabilmente lo stesso vale per le startup che puntano sulla pubblicità. I tempi chiedono modelli di informazione a pagamento. Non è una brutta prospettiva per chi tiene alla qualità dell’informazione e non vuole che gli editori inseguano la quantità di traffico. E forse è l’unica prospettiva per gli editori che rendendosi conto di non poter vincere solo con la pubblicità, prendano con coraggio la strada della ricerca di modelli a pagamento.

Questi non sono irrealistici, anche se vanno pensati come una varietà di possibilità:
1. abbonamenti (il Sole 24 Ore è sempre stato un giornale con molti abbonamenti e sembra essere riuscito a passare agli abbonamenti digitali a pagamento)
2. micropagamenti (il mobile è un luogo nel quale questi si fanno con qualche buona probabilità di successo)
3. connessione tra informazione digitale e incontro fisico (un po’ come i concerti per i musicisti)
4. media civici
5. informazione formativa

E ovviamente altro.

Complessivamente tutto questo significa cambiare le strategie:
1. qualità prima di tutto! contenuti, linguaggi e grafica di grande qualità, senza sconti di impegno e senza interferenze pubblicitarie
2. tecnologia innovativa per portare quell’informazione di qualità dove le persone la vogliono fruire, proattivamente
3. costi connessi alle potenzialità di crescita del fatturato generato dall’informazione che il pubblico è disposto a pagare

Sarà dura. Ma almeno per chi ci tiene, sarà finalmente un percorso gratificante.

Il fatto è che questo sviluppo consente a chi veda l’informazione come un servizio da svolgere con accuratezza una nuova grande chance. Consente di ridefinire la produzione di informazione in modo non quantitativo ma qualitativo ricreando le condizioni per una valutazione condivisa della qualità: per esempio, pensando l’informazione come frutto di una ricerca, la sua qualità è tanto migliore quanto migliore è il metodo con il quale è prodotta, non solo in base a quanti click raggiunge. E visto che l’analitica che conta è quella degli abbonamenti o del pagamento che il pubblico offre in cambio del lavoro di informazione, non è proprio detto che i click restino una misura centrale, anche se serviranno sempre come uno – non l’unico – dei feedback. Inoltre, tutto questo non funziona senza innovazione: non si tratta di “tornare all’informazione ben fatta di una volta” (anche perché non si ricorda un’epoca nella quale l’informazione ben fatta fosse davvero prevalente). Si tratta piuttosto di innovare per costruire finalmente un’informazione ben fatta, che segua un metodo, che riesca a far riconoscere il valore di quel metodo, che si presenti davvero facilmente al pubblico che vive nell’infosfera in simbiosi con le sue tecnologie preferite, e che sta cercando qualcosa di nuovo e di grande con il quale difendersi e contrattaccare nei confronti della confusione attuale, che aiuti a interpretare meglio la complessità del mondo attuale. Una nuova interpretazione della trasformazione, con perfetta consapevolezza tecnologica e chiara centralità della dimensione umana, culturale, prospettica. Che tende a mancare oggi, ma il cui bisogno è sempre più evidente. Questa è innovazione. E questa potrebbe essere la premessa per “the next big thing”. Imho.

Vedi:
Peak content: The collapse of the attention economy
Guide to Automated Journalism
L’algoritmo redattore in azienda
Sono Quill, scrivo di finanza
E anche:
Ecologia dell’attenzione
Ecologia dell’informazione
Giornalisti innovatori
Appunti: l’alba di un nuovo giornalismo

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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