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Native Advertising: that’s it

That’s it. Questo pezzo di John Oliver, di qualche anno fa, resta una pietra miliare nel commento sul “native advertising”. Con Auletta che dice: «È un modo per camuffare la pubblicità nel contenuto editoriale, that’s it». E Oliver che commenta: «Questo significa che è tutto qui, dal punto di vista della spiegazione? Oppure che è la fine del giornalismo? That’s it…». Si può discutere moltissimo, è chiaro. Ma secondo me va visto. E commentato. Perché il punto è proprio quello che si diceva: è un modo per camuffare la pubblicità nel giornalismo? e se sì, quanto durerà la credibilità del giornalismo con questo contenuto camuffato dentro? E, volendo attualizzare o generalizzare il concetto: quanto è importante non solo per il giornalismo, ma anche per il blogging, o per il lavoro che facciamo sui social network, la chiara distinzione tra le informazioni che si condividono perché si è fatta una ricerca o un’esperienza che si ritiene rilevante e quelle informazioni che si condividono solo perché qualcuno paga qualcosa? Non sto pensando solo alle solite cose, tipo la politica. Sto pensando all’informazione sulla salute e le medicine o altre soluzioni curative, sto pensando ai consigli di educazione per i figli, sto pensando ai commenti sugli alberghi, e così via. Dobbiamo trovare un modo per distinguere l’informazione che nasce da una ricerca o un’esperienza autentica che si condivide nell’interesse del pubblico, e la comunicazione che si distribuisce in nome di un interesse commerciale, politico, o altro. No? È un grande lavoro… Ma intanto riguardiamoci come la mette John Oliver.

[youtube]https://youtu.be/E_F5GxCwizc[/youtube]

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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