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È possibile rispondere all’arretratezza italiana nell’innovazione?

Massimo Sideri ha prodotto un servizio eccellente, oggi sul Corriere della Sera, sui ritardi dell’investimento italiano in ricerca e innovazione. Il titolo è “La grande ricchezza sprecata. Solo l’1,3% del Pil va all’innovazione” (Corriere). L’idea è straordinariamente efficace: l’Italia è un paese tradizionalmente innovatore, o almeno densamente popolato di innovatori, ma non riesce a innovare oggi. E al centro della questione c’è la scarsità di investimenti in ricerca e in venture capital per sostenere lo sviluppo delle startup.

L’articolo esce in un momento congiunturale stranamente difficile per le percezioni degli italiani, segnalato dall’Istat come calo dell’indice della fiducia in dicembre rispetto a novembre, anche se va detto che il livello dell’indice resti elevato rispetto agli anni precedenti (Corriere). L’ipercomunicazione ottimistica generata dagli ambienti governativi non sembra aver ottenuto troppo ascolto. Anche perché la credibilità si misura sui fatti che costituiscono esperienza: cioè non solo fatti ma fatti che generano realtà percepibile. Perché fatti ci sono, sarebbe assurdo negarlo, ma le loro conseguenze sono ancora troppo poco visibili.

L’articolo di Massimo Sideri, un giornalista che pure non manca di dare le notizie positive quando le ha, lo dimostra per quanto riguarda l’innovazione. E altre analisi non cessano di segnalare i ritardi italiani. Per esempio, la produttività dei fattori resta un problema in Italia. Un’ora di attività produttiva in Italia crea il 5% di ricchezza in meno rispetto al 2000 (e il calo si confronta con l’aumento che invece c’è stato in Francia e Germania): secondo gli economisti europei citati in un altro articolo uscito oggi sul Corriere il fenomeno sembra essere dovuto soprattutto all’organizzazione del lavoro, alle competenze, alla tecnologia, alla burocrazia, alle infrastrutture e ai costi dell’energia (Corriere). Non se ne esce senza innovazione.

Eppure, dal 2012, l’Italia sta reagendo. Le oltre 5mila startup innovative emerse o nate dopo la legge emanata dal governo Monti e portata avanti dai successivi governi sono un segno evidente che l’Italia è davvero un paese naturalmente innovatore come dice Massimo Sideri. Ma il problema è che per fare ecosistema ci vuole di più. Ci vuole più cultura dell’innovazione, più finanziamento, più attenzione da parte delle grandi aziende per l’innovazione prodotta dalle startup. Il termometro è quello delle exit: senza exit non ci sono capitali, senza capitali non ci sono startup in grado di competere, senza startup competitive non ci sono exit. Londra e Berlino sono diventate ecosistemi piuttosto significativi in questo millennio e da loro le exit ci sono (vedi la pagina startup oggi sul Sole 24 Ore). È evidente che il ritardo accumulato nella prima dozzina d’anni del nuovo millennio è molto grave. Nel frattempo altrove sono nati ecosistemi dell’innovazione che corrono. Lo sforzo talvolta titanico che l’Italia deve fare per compiere qualche passetto in avanti è troppo grande per dare effetti percepibili nell’immediato. Ma possiamo vedere che i risultati potenzialmente ci sono. Come accelerare? Come portare a casa risultati forti e percepibili?

Non se ne esce, appunto, senza innovazione. Non è una questione da trattare con la comunicazione ma con l’analisi e la concretezza. La fiducia è un ingrediente ma non la ricetta.

E allora ripartiamo dall’analisi. Un ecosistema dell’innovazione ha bisogno di infrastrutture, cultura, connessioni, finanza, ricerca… In ciascuna di queste questioni si sta facendo qualcosa, ma l’insieme resta al palo. Anche perché si continuano a prendere misure settoriali, o misure spiegate come settoriali. Si risolve il tema del diritto del lavoro senza spiegare che è connesso con l’innovazione, si risolve il problema dello smog senza farne un progetto di sistema urbano, si risolve il problema delle spese inutili nella digitalizzazione dell’esistente della burocrazia tagliando quelle spese ma spiegando male come saranno redistribuite. Queste spiegazioni parziali sono certamente frutto della fretta ma anche di una mancanza di approfondimento. Ciascun provvedimento deve essere visto come parte dei un progetto, di una visione d’insieme. Che forse c’è ma non emerge abbastanza. Soprattutto la visione d’insieme, declinata giorno per giorno, deve generare una spirale positiva, nei fatti percepiti dell’economia. Anche la ricetta si fa per aggiustamenti successivi. Non è detto che in ogni territorio la storia si debba ripetere uguale. In generale si può fare tesoro dell’esperienza altrui. E interpretarla a modo proprio. Da questo punto di vista le idee significative non mancano per rilanciare l’Italia in modo significativamente percepibile. E in qualche caso si stanno attuando. Ma analiticamente l’idea progettuale complessiva è in grado di generare la spirale startup-exit-capitale-startup?

C’è chi dice: occorrono semplicemente più soldi pubblici a disposizione del venture capital. È chiaro. Ma si può alimentare questo fenomeno con qualche centinaio di milioni? Un po’ sì ma il risultato percepito sarebbe dilazionato nel tempo. Si può fare meglio pensando alla visione d’insieme.

Per esempio connettendo al tema del finanziamento dell’innovazione – comprese le startup – il tema della modernizzazione infrastrutturale, urbanistica, logistica, del paese. Si tratta di connettere gli investimenti necessari a questa modernizzazione con le capacità delle aziende innovative. La soluzione delle gare precompetitive – forward looking procurement – è a portata di mano (si tratta di gare nelle quali l’incentivo non è orientato ad abbassare i prezzi ma a elevare l’innovatività dei beni e servizi acquistati). Si tratta fare progetti di impatto visibile e realizzarli usando il più possibile le risorse delle aziende innovative.

In questi giorni si parla di città sostenibili (un tema da prendere ovviamente nel lungo termine ma che italianissimamente sale alla ribalta sull’urgenza dello smog, vabbè). È chiaro che occorrono investimenti in qualità energetica delle abitazioni, nuove forme di trasporto locale, nuovi luoghi del lavoro che possano ridurre o rendere più flessibili gli spostamenti, nuove forme di approvvigionamento dei consumi quotidiani e del contributo delle scuole alla vita civile e così via (ne parla Giorgio Santilli oggi sul Sole 24 Ore). Questi obiettivi sono raggiungibili con progettualità che guardano lontano. Se le spese per realizzare questi progetti sono viste come parte dell’ecosistema dell’innovazione, con gare pensate per massimizzare l’innovatività delle soluzioni adottate, una parte degli investimenti andrà a coprire le necessità di fatturato delle startup, rendendole più forti e capaci di arrivare alla exit o di sostenersi da sole. La finanza si può ripagare sia con grandi exit sia con altre forme di rendimento: ma se c’è rendimento la finanza arriva.

È solo un esempio. Vale anche per gli investimenti necessari alla ricerca. O per la nuova burocrazia: già si sa che una parte delle spese tagliate per la vecchia burocrazia digitalizzata saranno destinate a progetti innovativi (sotto la guida dell’Agid). Non stiamo parlando di cose dell’altro mondo: stanno succedendo. Ma occorre dirlo in modo piano, chiaro, progettuale, non troppo arrogante. La spirale positiva la innescano le imprese e le persone che innovano, quando si sentono in un contesto che reagisce in modo premiante.

Questa soluzione del finanziamento dell’innovazione alimentando il fatturato delle imprese innovative chiamandole a partecipare alle opere di modernizzazione del paese ha il pregio di portare risultati visibili in tempi ragionevoli, sostenere lo sviluppo delle innovazioni, essere coerente con la storia italiana di piccole aziende poco capitalizzate e molto flessibili perché si finanziano con il fatturato. Può indirizzare gli sforzi delle spinoff universitarie. E può dare un contributo all’ecosistema italiano. È anche coerente con le idee di Mariana Mazzuccato sullo stato innovatore. E può servire all’innesco della spirale positiva. È chiaro che nel frattempo dare più soldi al venture capital è altrettanto fondamentale. Ed è altrettanto fondamentale convincere le grandi aziende a sostenere le startup. E se c’è una novità da osservare, della quale si vedono i primi segnali, è proprio che le grandi aziende italiane stanno in effetti sostenendo le startup comprando da loro beni e servizi, più che finanziandole in conto capitale. Il caso Snam c’è, come ce ne sono altri. È comprensibile: se le exit non sono convenienti ma l’innovazione c’è, si va direttamente a usare l’innovazione.

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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