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Uber, Morozov, ecologia dei media e intelligenza plurale

Uber valeva 200 milioni un paio d’anni fa e oggi è valutata 40 miliardi. Essenzialmente costruisce una piattaforma che organizza le relazioni di scambio tra chi offre e chi domanda un servizio di trasporto in città. E raccoglie dati, comportamenti, esigenze. Abilitando soluzioni di mercato. In una metafora pienamente di mercato. Che talvolta entra in rotta di collisione con rendite di posizione, legittimate da lunghe abitudini e investimenti sedimentati nel tempo spesso protetti con regole corporative. La questione dei taxi è il caso più eclatante del fenomeno.

Il mercato in questo senso è una soluzione che abbatte le rendite di posizione, dunque favorisce una ripresa della dinamica innovativa, con conseguenze complesse. Da un lato, l’innovazione punta alla rottamazione (disruptive technologies) delle rendite di posizione che sono protette da regole pensate più per chi offre il servizio e meno per chi ne fruisce, generando una condizione nella quale spesso si possono imporre prezzi alti per servizi di bassa qualità: da questo punto di vista l’innovazione rottamatoria raccoglie una sorta di consenso. Dall’altro punto di vista, una volta che abbia preso piede, una piattaforma che organizza un mercato in modo efficiente diventa a sua volta un intermediario potente. La valutazione di Uber lo dimostra. Anche perché chi investe in Uber sa che la piattaforma vincente gestisce il suo servizio in modo tale da spostare il rischio di mercato su chi offre e chi domanda (il prezzo delle corse varia in funzione della quantità di domanda in rapporto all’offerta) ed evita il più possibile di assumersi rischi di branding spostando la questione della qualità del servizio sul lavoro che gli utenti svolgono valutando i guidatori (le stellette di valutazione dei guidatori sono compito degli utenti). Uber si concentra sulla tecnologia (eccellente), sulla rimozione degli ostacoli legali, sul reclutamento di persone che offrano il servizio (valorizzando part-time asset come la loro automobile e il loro tempo che in assenza di Uber allocherebbero in modo meno efficiente), sull’utilizzo intelligente dei dati.

Il problema di chi guarda alla crescita di Uber pensando alle conseguenze sulla vita cittadina non può essere affrontato unilateralmente. Di certo non si può migliorare la situazione negando il valore di Uber e delle piattaforme analoghe. Ma altrettanto sicuramente questa non è la fine della storia. Una discussione preliminare sulla possibilità di costruire ulteriori piattaforme era stata avviata anche qui tempo fa.

Evgeny Morozov ha scritto per il Guardian un articolo notevole che sviluppa il ragionamento di modo tranchant ma in fondo costruttivo (l’articolo è poi stato tradotto dal Corriere).

Sottolineando soprattutto la chiave di lettura costruttivista, il suggerimento di Morozov si pone dal punto di vista della città. Si può risolvere tutto il tema del trasporto in città affidandosi alla piattaforma di Uber? No. Perché Uber si occupa di mettere in relazione domanda e offerta essenzialmente di mezzi di trasporto privati e non si occupa di policy del territorio. In effetti la piattaforma è costruita e sviluppata all’interno della logica del mercato, con un occhio particolarmente attento alla logica del mercato finanziario. Se tutto si risolvesse così, l’ecosistema cittadino si ridurrebbe a una piattaforma (un po’ come se un territorio fosse sfruttato a monocoltura). Ma una città deve svilupparsi in una logica di biodiversità se vuole essere ricca di opportunità, qualità, innovazione. Dunque, Morozov suggerisce di pensare al bene pubblico in un’ottica che tenga conto di chi va a piedi (la bellezza di una città è spesso data dalla prossimità dei luoghi raggiungibili a piedi), che tenga conto di chi si sposta con i mezzi pubblici, che pensi a chi va in bici e così via. Il trasporto in città ne diventa spesso un segno distintivo e la diversità può diventare iconica (le gondole e i rickshaw, sono due esempi esageratamente importanti ma fanno venire in mente altre soluzioni: a Ottawa un gruppo di persone invece di iscriversi alla palestra porta in giro la gente con un rickshaw tecnologicamente avanzato), sviluppando un artigianato locale la cui importanza emergente può essere paragonata alla tematica dell’alimentazione a chilometro zero. D’altra parte, tornando a Morozov, è anche vero che le città non dovrebbero affidare la raccolta di dati solo a una piattaforma, anche perché hanno mille modi per raccogliere dati ancora più significativi e articolati sulle esigenze di trasporto in città. (Se n’è parlato ieri a Villafranca con Benedetta Arese Lucini, responsabile di Uber in Italia, in un evento molto interessante al quale sono stato invitato da Mind the bridge: ci sono i riflessi su twitter).

Non si tratta, secondo me, di negare Uber. Ma di andare oltre. Piattaforme che non nascano da una piatta logica di mercato ma da una visione ecologica e dunque plurale possono generare ulteriori innovazioni. Helsinki ci ha pensato e ne è venuta fuori tra l’altro Kutsuplus. In queste esperienze à la Uber, gli europei non dovrebbero leggere soltanto una minaccia: dovrebbero leggere una sfida a far meglio.

ps. Il mio nuovo libro, Homo Pluralis, uscirà presto e parla, con tutti i limiti del suo autore, proprio di questo. Sarà presentato alla fondazione Feltrinelli di Milano, il 23 febbraio con Ferruccio de Bortoli e Morgan.

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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