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La borsa, il venture capital e il valore delle piattaforme, tra America ed Europa

A quanto pare, se una società che produce una tecnologia la pensa come componente di piattaforme esistenti tenta di farsi comprare, mentre se la pensa come piattaforma autonoma tenta di andare in borsa. La borsa sembra al momento capace di valutazioni molto attraenti per i fondatori, anche se la logica dovrebbe essere più sostanziale, anche per responsabilità nei confronti degli investitori. Uber evidentemente pensa di andare in borsa con una valutazione enorme, attualmente a 40 miliardi. E Snapchat farà lo stesso: ha rifiutato un’offerta da Facebook che la valutava 3 miliardi nel 2011. Successivamente Facebook ha pagato 22 miliardi per WhatsApp. E attualmente Snapchat è valutata intorno a 16-19 miliardi, a giudicare da quanto spendono i venture capitalist per entrarci. Snapchat a quanto pare si pensa come piattaforma, non come componente di altre piattaforme, visto che tenta di acquisire sviluppatori e content provider. E quindi logicamente tenta di andare in borsa da sola. I venture capitalist ci credono. (Bloomberg)

Le controversie che girano intorno a Uber, con motivazioni di avanguardia e di retroguardia (post precedente), la mettono costantemente in vista nelle pagine dei giornali. Ma la valutazione è sospinta soprattutto dagli investitori. Lo stesso vale appunto per Snapchat. Come si fa a capire se queste valutazioni sono un modo per misurare l’importanza di un’azienda oppure se sono solo un modo per alzare il prezzo in vista della borsa?

Di certo c’è che con queste quantità di soldi, quelle piattaforme effettivamente riescono a crescere nel mondo a livelli incomparabili con quelli delle piattaforme che vengono fuori in paesi con meno venture capital come l’Europa. Secondo alcuni è una sorta di dumping: conquistare terreno e poi guadagnare, salvo però finanziare questo dumping con la finanza. Il punto è ripagare la finanza: per riuscirci vale tutto nell’immediato e al futuro si penserà poi. Le varie bolle americane non hanno insegnato molto. Ma rispetto alle bolle puramente speculative, queste che si basano su ipervalutazioni di piattaforme hanno il vantaggio che nei casi migliori mettono in piedi aziende molto forti. In Europa il capitale sembra molto più prudente, meno strategico e aggressivo. Sicché anche le aziende che vengono fuori dall’Europa sono meno orientate alla “conquista del mondo”. La risposta non deve necessariamente essere quella di imparare a fare come gli americani. Ma una risposta occorre darla. Magari tenendo conto delle specificità europee: esportazioni reali molto importanti, sensibilità per privacy molto superiore, minore orientamento a credere nell’innovazione che rottama tutto in nome di uno sviluppo che si configura stretto tra la conservazione corporativa e la ricerca di un’armonia più solida tra economia reale e finanziaria. Cinesi, russi, coreani e altri hanno economie digitali nelle quali le aziende locali riescono a tenere quote di mercato contrastando l’avanzata degli americani più di quanto non riescano a fare gli europei.

Mentre Europa e America si preparano alla grande discussione sul trattato che regolerà lo sviluppo del commercio atlantico, occorre che gli europei si formino una visione strategica delle differenze che li separano dagli americani e che pensino a che cosa devono affermare, dal punto di vista identitario, fiscale, economico, strutturale, culturale, costituzionale. Pensando al loro interesse e al ruolo che intendono giocare nel mondo. Imho.

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  • E’ una questione di DNA, semplicemente l’Europa non crede che l’IT sia un settore strategicamente importante.
    Non credo che si tratti solo di una questione di prudenza finanziaria,
    in quanto le nostre banche, che non stanno proprio benissimo, hanno spesso fatto anche loro molta finanza creativa facendo.

    Diverso è il discorso della Cina.
    Diversamente da noi, i cinesi credono nell’IT, ma applicano forti politiche
    di protezione del mercato interno, basta vedere le politiche di blocco nei confronti dei servizi di Google.

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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