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L’Italia è bella ma non attraente

Un’inchiesta di Claudio Gatti sul Sole mostra lo stato di incredibile discredito che patisce l’Italia sui mercati dei capitali internazionali. Scrive Gatti:

“I numeri sono a prova di gufi e disfattisti: tra il 1994 e il 2013, l’Italia ha attratto Investimenti diretti esteri per un totale di 290 miliardi di dollari. Nello stesso ventennio, la Spagna ne ha assorbiti 567, la Germania 799, la Francia 823 e la Gran Bretagna addirittura 1.418 – quasi cinque volte più di noi.”

Nel solo 2013, il Regno Unito ha attratto 37 miliardi, l’Irlanda 36, la Germania 27, l’Olanda 24. L’Italia ha attratto solo 17 miliardi, come la Colombia (fonte, World Investment Report 2014).

Evidentemente è un tema complesso. Ha motivazioni di lunga durata, come il sistema di pregiudizi (ben meritati) sulla corruzione dei politici, la scarsa certezza del diritto, la criminalità organizzata, la disorganizzazione burocratica, la difficoltà delle regole sul lavoro, e così via. E ha motivazioni di breve: la durezza della crisi congiunturale, l’acutezza della difficoltà finanziaria, e così via. Ma non è un tema sul quale non si possa fare qualcosa.

Come dimostra la nostra inabilità a recuperare i soldi europei, siamo poco attenti a cogliere le opportunità offerte dai capitali internazionali. E a maggior ragione ci occupiamo poco di attirare investitori.

Lavorare sulle cause strutturali è un obiettivo obblicato, non solo per attirare capitali ma anche per vivere in un paese decente. Se ci è riuscita la Colombia a mettere in discussione i pregiudizi sulla criminalità, per esempio, perché non dovremmo riuscire noi?

Ma non è con un convegno che si affronta la questione. È cominciando a negoziare in pratica con i potenziali investitori, mettendo a disposizione un metodo per migliorare la nostra capacità di accoglierli. Non chiacchiere, ma relazioni operative. In ballo c’è anche una decina di miliardi potenziali all’anno. E una metodologia per modernizzare il sistema che farebbe indubbiamente bene alla filiera delle startup e dell’innovazione. L’alternativa è che i capitali internazionali ci trattino solo come territorio da predare, comprando marchi presigiosi e aziende in transizione familiare. Non c’è motivo perché non ci si pensi con energia e costanza.

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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