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Il codice è codice, la legge è software: la cultura digitale è un diritto

Questo post è un po’ lungo…

L’approccio

Lawrence Lessig ha avuto l’intuizione fondamentale. Con il libro “Code and other laws of cyberspace” e l’articolo per Harvard Magazine “Code is law” del gennaio 2000 – scritti al culmine della irrazionale euforia per la bolla delle dot-com – ha contribuito ad aprire una strada:

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“Every age has its potential regulator, its threat to liberty. Our founders feared a newly empowered federal government; the Constitution is written against that fear. John Stuart Mill worried about the regulation by social norms in nineteenth-century England; his book On Liberty is written against that regulation. Many of the progressives in the twentieth century worried about the injustices of the market. The reforms of the market, and the safety nets that surround it, were erected in response.

Ours is the age of cyberspace. It, too, has a regulator. This regulator, too, threatens liberty. But so obsessed are we with the idea that liberty means “freedom from government” that we don’t even see the regulation in this new space. We therefore don’t see the threat to liberty that this regulation presents.

This regulator is code—the software and hardware that make cyberspace as it is. This code, or architecture, sets the terms on which life in cyberspace is experienced. It determines how easy it is to protect privacy, or how easy it is to censor speech. It determines whether access to information is general or whether information is zoned. It affects who sees what, or what is monitored. In a host of ways that one cannot begin to see unless one begins to understand the nature of this code, the code of cyberspace regulates.”

E aggiungeva, a dimostrazione della sua straordinaria capacità visionaria:

“This regulation is changing. The code of cyberspace is changing. And as this code changes, the character of cyberspace will change as well. Cyberspace will change from a place that protects anonymity, free speech, and individual control, to a place that makes anonymity harder, speech less free, and individual control the province of individual experts only.”

Quale sarebbe stato il percorso per questo cambiamento? E chi ne sarebbe stato protagonista? Per Lessig al fondamento della rete internet c’è un codice originario che ha conseguenze molto precise. “The basic code of the Internet implements a set of protocols called TCP/IP. These protocols enable the exchange of data among interconnected networks. This exchange occurs without the networks knowing the content of the data, or without any true idea of who in real life the sender of a given bit of data is. This code is neutral about the data, and ignorant about the user”. La conseguenza è che in questa architettura è che la singola persona è difficilmente tracciabile e che lo scambio di dati è difficile da controllare il che significa che per i governi è complicato regolamentare internet. Chiaramente questa difficoltà favorisce la libertà di espressione ma anche l’attività illegale: in un contesto autoritario ha la positiva conseguenza di difendere chi informa sui fatti; in un contesto criminale ha la conseguenza negativa di difendere per esempio la pedofilia, la diffusione di materiali filonazisti e altro. Lessig si chiede: che cosa ci possiamo fare? “There are many who think that nothing can be done: that the unregulability of the Internet is fixed; that there is nothing we can do to change it; that it will, so long as it is the Internet, remain unregulable space. That its ‘nature’ makes it so”. E’ un approccio molto diffuso. Ma sempre più insostenibile. E non per motivi legali: per motivi che fanno parte integrante della stessa architettura della rete: “But no thought is more dangerous to the future of liberty in cyberspace than this faith in freedom guaranteed by the code. For the code is not fixed. The architecture of cyberspace is not given. Unregulability is a function of code, but the code can change. Other architectures can be layered onto the basic TCP/IP protocols, and these other architectures can make behavior on the Net fundamentally regulable. Commerce is building these other architectures; the government can help; the two together can transform the character of the Net. They can and they are”. Se l’unica difesa della libertà è nel codice, dice Lessig, bisogna fare attenzione: perché il codice può essere cambiato. E quindi qualcuno lo sta cambiando. Generando forme di regolamentazione che non sono necessariamente desiderabili. E che comunque richiedono un pensiero.

Pubblicato nel 2000, questo articolo sembra scritto da chi ha visto il film dello sviluppo di internet negli anni successivi. Le piattaforme commerciali si sono sovrapposte a internet e hanno conquistato miliardi di utenti che non godono di alcun anonimato e i cui messaggi sono perfettamente controllabili. I governi hanno imparato a separare le reti nazionali da quella internazionale e le loro agenzie sono riuscite – come la Nsa – a raccogliere ogni genere di informazioni su chi usa internet e su ciò che fa e scrive usando la rete. Le piattaforme e gli interventi governativi hanno completamente rovesciato la condizione di libertà che appariva il fondamento del protocollo TCP/IP per i cittadini che accettano di usare le piattaforme e che non sono capaci di aggirare le limitazioni e gli interventi delle autorità di governo. E in questo contesto, per i cittadini normali che usano le piattaforme e non si sanno o non si vogliono difendere dalle intrusioni del governo, la quantità di informazioni che può essere collegata alla loro identità e persona è enormemente superiore a quello che avveniva in contesti architetturali precedenti a internet. I cookies e le altre forme di raccolta di informazioni consentono di conoscere l’identità della persona, tutti i suoi dati anagrafici, tutte le sue attività, le sue preferenze anche le più intime, in base proprio a quello che le persone fanno volontariamente online, analizzando le attività e le interazioni con ogni genere di contenuto che si può pubblicare o ricevere in rete e con ogni tipo di relazione sociale che si può coltivare sulle piattaforme.

Il punto di Lessig è che quanto viene difesa la privacy o quanto viene infranta dipende dal codice. Chi scrive il codice scrive la regola. Può essere incentivato a scriverlo in un modo o in un altro dal mercato o dalla legge, ma sarà chi scrive il codice a decidere. Quello che conta, dunque, dice Lessig, sono i valori di chi scrive il software. E i loro valori diventeranno i valori che contano per le regole seguite da chi usa il software. “So should we have a role in choosing this code, if this code will choose our values? Should we care about how values emerge here?”. Certo, si risponderà: dobbiamo avere un modo per influenzare le regole che il codice impone ai comportamenti delle persone. Ma chi e come decide? Molti pensano che si debbano lasciare andare le cose senza interventi governativi. Altri pensano a una pletora di decisioni che possono essere prese per intervenire punto per punto sui problemi emergenti. Probabilmente sono entrambe posizioni sbagliate. Perché chi decide c’è sicuramente.

“Our choice is not between “regulation” and “no regulation.” The code regulates. It implements values, or not. It enables freedoms, or disables them. It protects privacy, or promotes monitoring. People choose how the code does these things. People write the code. Thus the choice is not whether people will decide how cyberspace regulates. People—coders—will. The only choice is whether we collectively will have a role in their choice—and thus in determining how these values regulate—or whether collectively we will allow the coders to select our values for us”.

Il riflesso condizionato che conduce a pensare che sia meglio che il governo resti fuori dalla regolamentazione di internet è un riflesso che nasce da un’ideologia diffusa secondo la quale il mercato o la tecnologia si autoregolamentano nel migliore dei modi possibile. Ma chi può dire che sia vero alla prova dei fatti? “For here’s the obvious point: when government steps aside, it’s not as if nothing takes its place. It’s not as if private interests have no interests; as if private interests don’t have ends that they will then pursue. To push the antigovernment button is not to teleport us to Eden. When the interests of government are gone, other interests take their place. Do we know what those interests are? And are we so certain they are anything better?”.

Il problema non è quello di limitare la libertà del mercato o della tecnologia. Ma di conoscere le conseguenze delle decisioni regolatorie. E cercare di mettere insieme un sistema che – come una costituzione – cerchi di mantenere un equilibrio tra gli interessi. Non c’è una soluzione preconfezionata chiara e semplice. Ma un approccio costituzionale è un modo per trovarla: “Our first response should be hesitation. It is proper to let the market develop first. But as the Constitution checks and limits what Congress does, so too should constitutional values check and limit what a market does. We should test both the laws of Congress and the product of a market against these values. We should interrogate the architecture of cyberspace as we interrogate the code of Congress”.

Una quantità di lavori di ricerca, di attività politiche, di discussioni tecniche si sono succedute a commentare l’evoluzione di internet e delle sue conseguenze sui valori e le regole che governano la società. Secondo Lessig non si può non tener conto di un nuovo soggetto “politico” fondamentale nell’epoca di internet: il potere dei programmatori e la forza regolamentatoria delle piattaforme che la programmazione sviluppa. Sono persone. Hanno interessi. Hanno valori. E sono manipolabili. Oppure possono manipolare. Il corollario è che che non esiste una deregolamentazione in questo settore, ma solo una scelta su chi sia chiamato a regolamentare. Forse non basta per risolvere il problema. Ma di certo lo pone in modo adeguato alla sfida posta da internet alla società umana.

Tutto questo svela due ordini di realtà piuttosto importanti.

Chi ritiene che il mercato sia in grado di autoregolarsi e non debba subire l’interento del governo può avere se sue ragioni sul piano economico, ma queste si fermano di fronte alla scoperta che il codice ha conseguenze normative: le scelte dei programmatori possono essere influenzate dalle logiche del mercato ma non ne sono completamente governate. Perché esiste una dimensione indipendente nella quale valgono i valori dei programmatori, le logiche evolutive della tecnologia, la stessa capacità di interpretare le conseguenze della programmazione sui comportamenti degli utenti. Anzi, questa dimensione non è ininfluente sulla struttura del mercato: la forza normativa del codice software entra in gioco e contribuisce a regolare, implicitamente o esplicitamente, le stesse relazioni di mercato, limitandone alcune e favorendone altre.

Analogamente, chi ritiene invece che il governo debba intervenire per dare una voce democratica alla regolamentazione dei comportamenti umani nel mondo della rete dovrebbe tener conto a sua volta del fatto che il codice ha conseguenze normative. In una certa misura, si può dire che le leggi scritte sulla carta hanno conseguenze mediate dalla tecnologia. La tecnologia, si scopre, ha conseguenze normative autonome e in qualche caso indipendenti dalla lettera delle leggi. Un po’ come la qualità della burocrazia influisce sulla qualità dell’applicazione delle decisioni del governo, così la qualità del software influisce sulla qualità dell’applicazione delle norme decise dal governo. E così come la capacità della burocrazia di interpretare interessi e momenti storici è importante nell’applicazione delle decisioni politiche, allo stesso modo l’interpretazione normativa del codice è importante per comprendere quanto e come le norme politiche saranno davvero efficaci.

Di fronte a tutto questo, la storia ci dice che i governi democratici tendono a subire l’influenza delle lobby finanziarie e ad essere limitati nella loro azione da una conseguente ideologia economicista. Da questo punto di vista gli spazi di manovra per gli interventi regolamentari da parte dei governi sembrano essersi ridotti di fronte alla libertà d’azione della finanza e, grazie agli spazi così aperti nelle normative, le piattaforme tecnologiche di maggior successo si sono rese fondamentalmente autonome dagli stati: dal punto di vista fiscale e dal punto di vista normativo, quasi fossero repubbliche – o imperi – indipendenti.

Ma non è la fine della storia. Forse perché la storia non ha fine. La politica ritorna in mille modi a farsi sentire: nel confronto tra le potenze globali, tra le democrazie occidentali, il nazionalismo russo, la partitocrazia capitalistica cinese, le diverse interpretazioni politiche dell’islam e così via; nella gestione delle tensioni sociali che emergono durante la grande trasformazione che pervade le vecchie economie dominanti che lasciano spazio alle nuove economie emergenti; e nell’invenzione continua di innovazioni anche politiche che emergono dalle profondità dell’internet originaria, ancora generativa e relativamente libera.

La politica

Il codice è legge, l’algoritmo è regola, l’intefaccia è interpretazione. Questo è quanto abbiamo appreso dall’evoluzione del dibattito sul tema posto da Lessig.

Byung_Chul_HanAndrebbe letto il libro di Byung-Chul Han “La società della trasparenza”: il filosofo coreano che insegna a Berlino discute con straordinaria lucidità del mito della trasparenza e lo accosta all’ideologia della perfetta circolazione della moneta, alla concezione efficientista della tecnologia dell’informazione, alla società dell’apparire. Ne emerge una critica fortissima del mito secondo il quale la trasparenza è giusta, bella e vera di per sé. Un’argomentazione da discutere ma che lascia il segno. E andrebbero letti mille altri contributi, sulle conseguenze della rete, comprese quelle politiche. Come per esempio il libro di Antonio Floridia, “La democrazia deliberativa: teorie, processi e sistemi” (Carocci 2012), oppure Stefano Rodotà, “Il diritto di avere diritti” (Laterza 2012, segnalazione), o addirittura per chi abbia tempo in eccesso, il libro dell’autore di questo testo “Media civici” (Feltrinelli 2013). Ma la bibliografia è sterminata. Non è possibile ricostruire tutto in poche righe. Ma si può scegliere. A partire dalla premessa: Il codice è legge, l’algoritmo è regola, l’intefaccia è interpretazione.

In un contesto nel quale le regole fondamentali poste dalla legge del software sono strutturali, cioè vagamente simili a forme costituzionali, il primo passo è quello di individuare i modi con i quali la politica consapevole, se non addirittura democratica, riprende una libertà di manovra e una capacità di influenza sul modo con il quale la società prende decisioni che riguardano i fondamenti della convivenza.

In assenza di politica, la tecnologia pone le sue regole. E le regole dei media sociali influiscono sulla convivenza in un modo molto preciso. Facebook, la più diffusa piattaforma per il social networking, sceglie di condurre le persone che la usano a connettersi sulla base della regola del “mi piace”. Ogni volta che si dichiara che un post “mi piace” la selezione viene registrata e un algoritmo che funziona di default sulla piattaforma fa in modo che le prossime volte che si entra su Facebook le prime informazioni che si vedono sono quelle postate da persone alle quali in passato si è dato un “mi piace”. Poiché il tempo che si passa sulla piattaforma non è infinito, le prime informazioni sono probabilmente molto più viste di quelle che apparirebbero andando avanti nella lettura: alla lunga ci si connette prevalentemente con le persone alle quali si è fatto “mi piace”. Questo algoritmo è un filtro contro l’eccesso di informazione. Comodo, gradevole e con importanti conseguenze. Si formano secondo Eli Pariser (“The filter bubble”) delle bolle mentali e sociali all’interno delle quali le persone incontrano solo persone simili a loro, per curiosità, interessi, ideologie. E’ un modo divertente di socializzare e piuttosto gratificante perché come i “mi piace” si danno, in queste bolle è probabile che i “mi piace” si ricevano. Ma non è necessariamente un buon modo per prendere decisioni che abbiano una valenza politica per una popolazione.

In effetti, le decisioni politiche si prendono anche insieme a chi non piace. Anzi il problema è proprio questo: come costruire regole “costituzionali” che servano a decidere con gli altri cittadini che non hanno necessariamente le stesse opinioni ma secondo un metodo legittimato da tutti. E a questo proposito sta emergendo una nuova ondata innovativa per la generazione di piattaforme che abbiano questa funzione, fatte con un condice, delle regole e un’intefaccia che favoriscano comportamenti adatti a svolgere questa funzione.

Fino a che al di sotto delle piattaforme più utilizzate dalla popolazione connessa in rete esiste sempre una internet neutrale resta possibile l’emergere di nuove piattaforme governante da nuove regole. Nelle profondità della rete, programmatori e innovatori continuano a costruire forme diverse di interpretazione della realtà e dunque nuove opzioni di convivenza connessa. Comprese quelle che riguardano i modi con i quali le società prendono decisioni politiche. E i primi segni di questo lavoro stanno conquistando lentamente il loro posto in rete. Dopo i media sociali, potrebbe essere ora dell’avvento dei media civici.

Le soluzioni in proposito non mancano. Uno studio offerto al Senato della Repubblica Italiana dalla Fondazione Ahref ne ha fatto una sintesi in uno studio che si trova online: I media civici in ambito parlamentare. Liquid Feedback, IdeaScale, Civi.ci e molte altre piattaforme si stanno affacciando all’attenzione delle istituzioni che cercano modi per rigenerare la loro relazione con la popolazione e rivitalizzare la democrazia. La ricerca che li conduce è consapevole del fatto che il codice è legge, l’algoritmo è regola e l’interfaccia è interpretazione: il che significa che i comportamenti degli utenti sono influenzati – spesso profondamente – dalla forma delle piattaforme. La civicità di quei comportamenti è il risultato probabile del design di quelle piattaforme, oltre che di molte altre cose relative al contesto storico e geografico nel quale vengono applicate. L’adozione di quelle piattaforme da parte delle popolazioni nelle loro relazioni con le istituzioni non dipende certo solo dalla forma delle piattaforme, ma di certo le conseguenze di quell’eventuale adozione sono precise per quanto riguarda il comportamento delle persone e dunque la qualità delle decisioni che prendono.

I media civici tengono conto, implicitamente o esplicitamente, di regole che riguardano il modo con il quale le persone si informano, si scambiano opinioni, aggregano le opinioni in istanze operative, votano per mettere in ordine di priorità le loro istanze e confrontano le istanze con i vincoli posti dalla realtà per verificarne la compatibilità per ritornare a generare informazioni e riaprire eventualmente il ciclo. Si danno media civici usati da popolazioni o gruppi che intendono auto-organizzarsi e si danno media civici usati per riqualificare la relazione tra le popolazioni e le istituzioni o addirittura i partiti e le aziende.

Quello che importa sottolineare è che le regole dei media civici sono regole strutturali che influenzano le decisioni. Quindi se la tradizione costituzionale viene presa in conto si possono ispirare i programmatori a costruire piattaforme che per regola tendano a generare comportamenti equilibrati nello scambio di informazioni, nella proposta di opinioni, nelle discussioni per organizzare le istanze, nella qualità della relazione tra le priorità desiderate e le compatibilità storiche vincolanti. Un equilibrio che riguarda la salvaguardia delle minoranze, l’efficacia dei sistemi decisionali, la qualità della documentazione che serve alle informazioni, la condivisione sui vincoli che definiscono le compatibilità, e così via. Non esiste ancora una piattaforma che faccia tutto questo. Ma la strada è segnata e non è detto che sarà mai serviva da una sola piattaforma.

Ma un fatto è certo: queste nuove proposte emerse dalle profondità della rete e dalla sua qualità generativa non potrebbero innovare il panorama socio-politico se l’internet non fosse neutrale, come diceva Lessig, rispetto alle persone e alle idee che fa circolare. E senza regole politiche non esisterebbe alcuna motivazione per pensare che internet possa restare neutrale, o che tenda ad essere facilmente accessibile a tutti. Gli incentivi di mercato, le esigenze delle grandi corporation capitalistiche, o altre forme di influenza sull’evoluzione dei valori e delle decisioni dei programmatori che fanno le piattaforme potrebbero benissimo fare evolvere la rete verso una condizione di accesso non universale a una internet non neutrale. Come è già avvenuto per esempio per quanto riguarda la rete mobile, un enorme successo scaturito da innovazioni tecnologiche, da posizioni conquistate sul mercato, da regolamentazioni sulle aste delle frequenze pubbliche, ma non da un dibattito democratico intorno a questa questione: se gli operatori controllano quello che può e non può passare sulla rete, gli innovatori possono presentare le loro idee solo chiedendo il permesso. E questo limita enormemente l’innovazione. Compresa quella politica, che in un certo senso potrebbe avere conseguenze sul potere dei tecnici e degli operatori. In realtà, la generatività di un sistema dell’innovazione sta nell’equilibrio tra le tensioni legate alle logiche della politica, le evoluzioni legate alla dinamica del mercato e, da non dimenticare, le collaborazioni e le opportunità legate alle condizioni dei beni comuni, risorse che non rispondono né allo stato né al mercato essendo di tutti e ciascuno, manutenute in base a consuetudini e regole sociali e culturali come la vecchia internet neutrale.

rodotà_democrazia_tecnologiaNe viene fuori il dibattito sull’Internet Bill of Rights. Che alla Camera dei deputati italiana ha dato vita a una Commissione dedicata. Il tema è arrivare a una dichiarazione dei diritti, come appunto il secentesco Bill of Rights britannico, per indirizzare le successive normative che riguardano internet tenendo conto degli equilibri che vanno mantenuti per sviluppare il bene comune della conoscenza rappresentato dall’internet salvaguardando e valorizzando i diritti umani che le diverse interpretazioni della rete possono sviluppare oppure comprimere. Il Brasile ha approvato il Marco Civil. E l’Italia, nel semestre del suo speciale servizio all’Europa, si prepara a contribuire a un tema decisivo per la vita civile.

Gli argomenti in discussione sono: la neutralità della rete, privacy e libertà di espressione, accesso universale, apertura dei dati pubblici, sicurezza. Questa è politica nel senso della costruzione di una visione costituzionale che serva a indirizzare le decisioni operative che si prendono in rete, con la rete, per la rete. Ovviamente è solo un aspetto della politica. Ma è quello fondamentale. Le policy non ne sono una conseguenza, ma se tutto va bene, non emergono senza tener conto dei principi costituzionali. E altrettanto si potrebbe dire del software che sostanzia quelle policy.

Già, perché alla fine dei conti, il modo più efficiente di fare le leggi e di farle funzionare è immaginare che siano a loro volta costruite come software.

La policy

Ci avevano pensato in molti. Anche gli scrittori di fantascienza Vernor Vinge e Tom Maddox. La loro visione era quella di uno stato che scrive le leggi come software e le fa applicare come tecnologie. Avevano, in quel lontano 1996, una visione un po’ troppo ispirata al terrore del Grande Fratello, ritenendo che l’efficienza del governo sia sempre collegata alla tentazione di raggiungere un maggiore potere autoritario e non avendo ancora visto quanto le piattaforme private possono ottenere in assenza di interventi statali.

Oggi le premesse per allargare la relazione tra policy e software si sono create. E andrebbero colte, nel rispetto del potenziale Internet Bill of Rights, per ottenere alcune conseguenze piuttosto decisive:

1. più facile accesso alla conoscenza delle leggi
2. più facile innovazione e semplificazione delle leggi
3. più chiaro funzionamento delle leggi
4. più chiare modalità per fare rispettare le leggi
5. più semplice valutazione dell’impatto delle leggi

Sacco_FrancescoViene da pensare, con l’economista Francesco Sacco che ne ha scritto su Nòva Il Sole 24 Ore, che al di là della domanda di diritti elaborata a fondo nel XX secolo, le popolazioni del XXI secolo chiedano anche e forse soprattutto risultati. “In Italia” scrive per esempio Sacco “gli imprenditori chiedono meno burocrazia e il Governo vorrebbe accontentarli. Ma ridurre la burocrazia, che si nutre di leggi, con nuove leggi, è una cura che funziona con difficoltà. Va cambiato alla radice il sistema operativo del Paese, il modo in cui esso stesso funziona. Da analogico-burocratico andrebbe trasformato in digitale-applicativo”. Quella di Sacco non è una metafora ma una proposta: “La maggior parte delle norme prescrivono – come farebbe un algoritmo – ciò che va fatto o potrebbe esser fatto al ricorrere di certe condizioni oppure, come fa un modello entità-relazioni per definire un database, sono definitorie di entità – soggetti o fattispecie – e/o delle loro relazioni”. Inoltre, per Sacco, questa proposta non è utopistica ma già in corso di attuazione: “In parte la trasformazione delle leggi in formato digitale-applicativo è già in corso. Ad esempio, l’intero Codice di Procedura Civile italiano, ma anche le statistiche di funzionamento di tutti i tribunali, sono già stati incorporati in un software (Epc) che è usato in Italia da tutte le principali banche e assicurazioni con circa 20mila operatori che gestiscono quotidianamente circa 150 miliardi di crediti incagliati in 1,5 milioni di pratiche distribuite su più di 15mila legali. I costi legali del recupero crediti si sono ridotti anche del 30%, ma, soprattutto, si sono ridotti enormemente gli errori procedurali con notevoli impatti sull’efficienza del recupero. Considerando che un miglioramento dell’1% vale 1,5 miliardi di euro, è un investimento sicuramente redditizio. Se fosse incorporato anche solo in parte nella gestione della giustizia italiana o dell’amministrazione, sarebbe una concreta rivoluzione” (Nòva). La stessa interpretazione delle norme è “digitalizzabile” almeno per quanto riguarda i temi più noti e stabilizzati e il sistema di condivisione della conoscenza giuridica progettato e realizzato dallo Studio Toffoletto De Luca Tamajo è una risposta già operativa che ha conseguenze rilevanti sul funzionamento dello studio e sul suo servizio ai clienti (Nòva).

I passaggi di maturazione di questa tendenza in altri paesi lasciano pensare che possa essere qualcosa di più di un’ipotesi. Nel Regno Unito tutto il corpus legislativo è ufficialmente online in un sistema che consente interrogazioni ed elaborazioni ampie ed efficienti (Nòva). In pratica ogni legge e ogni comma sono dotati di un identificativo unico e sono disponibili in formato aperto usando un’interfaccia programmabile (Legislation). Non è facilissimo, naturalmente. Ma si può immaginare che un buon sistema di programmazione su una base di dati come questa possa arrivare a riconoscere le leggi definitivamente abrogate, quelle che sono in funzione anche se sono state emendate e le renda più leggibili connettendo le norme e gli emendamenti in modo meno astruso di quello che si usa sulla carta (dove le nuove leggi sono infarcite di rimandi alle precedenti e non si riescono a leggere in modo semplice). In Italia, Normattiva è un inizio in questa direzione, anche se non gode dell’ufficialità che è invece attribuita alla versione inglese.

La digitalizzazione della normativa, la sua utilizzabilità con programmi che la analizzino, la sua interpretazione con l’ausilio di basi di dati giurisprudenziali efficienti rispondono all’esigenza di facilitare la conoscenza della legge e probabilmente aprono la strada a una concreta semplificazione.

Ma per quanto riguarda la facilità di applicazione delle leggi e delle modalità con le quali si fanno rispettare i passaggi progettuali vanno ancora approfonditi e sperimentati. Sacco ha un’idea, in proposito: “Partendo dalla ridefinizione recente delle banche dati d’interesse nazionale e dalle tre priorità definite dalla task force del precedente Governo (anagrafe unica digitale, fatturazione elettronica e identità digitale), l’intero processo legislativo potrebbe essere rivisto, puntando a definire prima ancora di una nuova legge la sua implementazione software e la sua integrazione all’interno del sistema informatico pubblico. La si potrebbe immaginare come una lunga serie di scelte fatta su un’app su Internet, ma che alla fine produce gli effetti desiderati in modo trasparente, eliminando tutta la carta che va in giro. Questa soluzione rispetto ad una norma “analogica” non solo sarebbe più flessibile per i piccoli aggiustamenti o chiarimenti, che sono sempre necessari ma avrebbe un costo di controllo e di enforcement praticamente nullo, perché ciò che non è possibile scegliere in un menu non può semplicemente essere fatto”.

Forse non tutte le leggi sono applicabili in questo modo. Ma di certo molte leggi che hanno un impatto pratico sulla vita quotidiana potrebbero essere fatte così. Non c’è nulla di strano: già oggi, ogni giorno seguiamo le leggi imposte dalla nostra applicazione preferita sul cellulare e non abbiamo problemi a rispettarle.

C’è poi una conseguenza in più di un’impostazione del genere. Poiché le leggi di questo tipo si rispettano usandole, cioè applicandole, il sistema in cloud che offre il servizio raccoglie informazioni. Potrebbe essere un Grande Fratello. Ma potrebbe essere un modo per valutare i risultati raggiunti da una legge. E correggerla in funzione della sua efficacia. Ma che si vada nella prima o nella seconda direzione dipende dal contesto costituzionale e politico. Oltre che educativo e culturale.

La rivalutazione della cultura tecnica in questo contesto politico, giuridico e amministrativo serve a impedire una rinuncia implicita alla capacità di governare la convivenza democraticamente che potrebbe avvenire in una società che non sia consapevole del fatto che il codice è codice. Serve a responsabilizzare i tecnici sottilineando come i loro valori e i loro comportamenti hanno una conseguenza culturale e sociale di primissimo ordine. Serve a motivare una politica di profondo investimento nell’educazione digitale della popolazione di una società che voglia almeno un po’ essere autrice del proprio destino.

Vedi anche
Rodotà: democrazia e tecnologia
L’oscurantismo, la ricerca, i diritti umani. E la Commissione alla Camera per i principi dell’Internet Bill of Rights

Questo post è un work in progress ovviamente. Spero molto nei contributi e nelle segnalazioni dei commentatori per arricchire di esempi esperienze e segnalazioni questa ricerca.

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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