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La misurazione come narrazione. La scuola nella stretta tra modernizzazione e perdita di senso

Un’intervista (via @demartin) a Giorgio Israel sulla valutazione a scuola va letta.

E.A: Gli insegnanti di scuola sono alle prese con due spinte contrastanti: da un lato si richiede loro di rendere misurabili, oggettivabili e dunque valutabili gli apprendimenti, dall’altro gli si richiede di tener conto nella prassi didattica, e dunque anche in sede valutativa, di tutte le soggettività e individualità presenti nella classe. Si direbbe che a scuola esiste una cultura dello standard oggettivo che convive con una cultura della soggettività discrezionale.

G. I: Il modo stesso in cui è posta la questione indica l’equivoco – diciamo pure il patente errore epistemologico – che, malauguramente. è stato reso senso comune in questi anni: la valutazione esiste soltanto se gli apprendimenti sono misurabili e oggettivabili. Ma i giudizi aventi carattere oggettivo – il che significa che s’impongono in modo indiscutibile al di là di qualsiasi dissenso, come 2 + 2 = 4 – sono pochi e sono possibili soltanto entro una parte limitata delle scienze cosiddette “esatte” e in un complesso di constatazioni empiriche elementari. Il resto è affidato a valutazioni con una componente soggettiva che possono aspirare, attraverso il confronto di opinioni, a un grado quanto più possibile elevato di consenso (insisto su questa idea: grado quanto più possibile elevato di consenso). Le grandezze misurabili sono in numero molto limitato. Si può parlare di misurabilità soltanto quando è possibile definire in modo univoco (anche soltanto operativo) un’unità di misura. Altrimenti, parlare di misurabilità è una presa in giro: neppure la temperatura era una grandezza misurabile, nell’epoca dei termometri e prima dell’introduzione del concetto di zero assoluto in termodinamica. Quando venne introdotto il concetto che ancor oggi ha un ruolo chiave nella rappresentazione matematica delle scelte soggettive, e cioè il concetto di utilità (e di funzione di utilità), il fondatore dell’economia matematica moderna Léon Walras fu costretto ad ammettere che non si trattava di una grandezza misurabile, dicendo che se l’economia matematica non poteva essere concepita come una scienza fisico-matematica si poteva tentare di pensarla come una scienza psichico-matematica in cui la matematica consentiva rappresentazioni quantitative generali dei processi economici senza aspirare a misurazioni concrete.

L’intervista prosegue offrendo informazioni di grande valore. Trascrivo alcuni appunti preliminari a un commento che, sebbene appaia urgente, è ancora immaturo. La misurabilità, a scuola come in economia, ha l’effetto di un frame narrativo che consente una comprensione della realtà, ma come ogni frame ne esclude una parte. Di conseguenza, la concentrazione sulle realtà misurabili genera una realtà percepita nella quale si prendono decisioni semplificate o addirittura banalizzanti. Non per questo è un disvalore assoluto. Il problema è quello di trattarla per quello che è, non per quello che non è. Ci sono alcuni caratteri della misurabilità di cui essere consapevoli:
1. consente di stabilire un terreno comune di valutazione, ma deresponsabilizza i singoli in funzione di un contesto narrativo accettato acriticamente
2. consente di prendere decisioni dotate di un certo consenso, ma apre la strada alla tipica frustrazione di chi vede che la realtà percepita si allontana dall’esperienza umana, generando aspettative che non corripondono ai risultati
3. rischia di concentrare l’attenzione intorno alla discussione sul metodo e di sottrarla alla pratica dell’apertura mentale necessaria alla scoperta di nuovi elementi di realtà.

Abbiamo bisogno di misurare i fenomeni. Ma dobbiamo ricordare in ogni passaggio i termini della semplificazione che per misurare ci imponiamo. Per poter scegliere di agire in funzione non di una percezione della realtà ma di un approccio alla realtà da ricercatori a mente aperta.

La metodologia della valutazione qualitativa va indagata con altrettanta energia di quella che si dedica alla metodologia della valutazione quantitativa. Con lo stesso scopo di arrivare a informazioni sulle quali esista un certo consenso epistemologico. Per poter decidere insieme in modo efficace. Ma senza escludere una parte della realtà che non è misurabile, senza fingere che tutto sia misurabile, senza limitare l’evoluzione intellettuale al rapporto tra le realtà misurabili e le teorie interpretative.

Anche perché, con i Big Data sta emergendo una nuova attività di ricerca. Si tratta di dati che non corrispondono a misurazioni ma a comportamenti, trattati non con modelli deduttivi ma con approccio induttivo: la ricerca di pattern per via empirica funziona solo se si mantiene la mente aperta alla rivelazione di “cigni neri” imprevisti dalla teoria precedente. Si riconosce quello che si è preparati a riconoscere: quindi occorre praticare un intenso allenamento per mantenere la mente aperta alla scoperta. Imho.

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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