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Progettando l’istruzione informale

Ci sono materie che non si insegnano in modo formale. Che si imparano vedendo i maestri al lavoro. Che si assorbono facendo esperienza. Per queste materie non ci sono scuole. Ma per alcune di esse dobbiamo fare qualcosa. Il gusto, il senso civico, l’imprenditorialità sono esempi di queste materie. Possiamo disegnare percorsi di apprendimento pensati per queste materie per ricucire un’evoluzione culturale che per alcuni aspetti si è interrotta con l’interruzione di alcune relazioni tradizionali e che vanno riattivate con la consapevolezza della condizione contemporanea. Chissà se i commentatori hanno esempi da segnalare… sarebbero i benvenuti.

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  • Aggiungo che molte cose le apprendiamo dai genitori, dagli amici, dai parenti, ci sono iniettate dal mondo in cui viviamo, dalla cultura, dalla religione, dai gruppi dai contesti in cui operiamo.

    Il senso del dovere e di responsabilità, la collaborazione, la politica, il rispetto, l’educazione, l’intraprendenza, la capacità di ascoltare, quella di esprimersi in modo opportuno, la leadership, il gusto, l’orgoglio, la curiosità, l’ammirazione e il sense of wonder: sono tutte “metamaterie” che apprendiamo/sviluppiamo indirettamente, e sarebbe bello che fossero indirizzate meglio.

    Marco

  • Conoscendo la differenza tra informale e non formale, mi riesce difficile capire a quale ti riferisci. Una comunità di vita (gente che sceglie di vivere insieme, dandosi anche un obiettivo di concreta solidarietà – es. accoglienza di giovani in situazioni di disagio) la vedi informale o non formale? Un master, per il quale si paga migliaia di lire al mese, è informale o non formale? Mi sembra che sia abbastanza facile creare alternative, ma renderle sostenibili (facendo in modo che chi è in mezzo, venga correttamente retribuito) è un altro discorso. Grazie per lo spunto, comunque.

  • Quando si dice “la questione è culturale”! Sinteticamente, propongo alcune considerazioni per sottolineare l’assoluta rilevanza delle questioni poste da Luca De Biase (mi scuso, in anticipo, per la semplificazione di alcune di queste che meriterebbero ben altro approfondimento…).Vado per punti.
    1)Il nostro è un Paese dal quadro normativo e legislativo complesso e articolato: esistono molte leggi (forse, troppe), codici professionali, carte deontologiche, linee guida, sistemi di regole formali, sistemi di orientamento valoriale e conoscitivo. Eppure questi “strumenti” si sono rivelati condizione necessaria ma non sufficiente, perché esiste una dimensione, cruciale e fondante allo stesso tempo, che è quella della responsabilità; una dimensione che sfugge a qualsiasi tipo di “gabbia” e/o sistema di controllo, perché attiene proprio alla libertà delle persone (altro discorso da approfondire, legato al tema dell’emancipazione nella modernità). E da questo punto di vista, come non essere d’accordo con chi afferma che viviamo in una “società degli individui”, che sentono di non dover rispondere a nessuno dei loro atti, tanto meno ad una “comunità” i cui legami si sono fortemente indeboliti (e c’è chi parla di fine del legame sociale). Qualche anno fa, intitolai un mio libro “La società dell’irresponsabilità” proprio per connotare questa condizione critica, ricollegabile solo in parte alla crisi economica (o ad indicatori di tipo economico): la “questione culturale” mette in luce, ancora una volta, non solo la crisi delle istituzioni formative, ma anche la debolezza dei vecchi apparati e delle vecchie logiche di controllo e repressione che non risolvono mai i problemi alla base; che sono sempre strategie di “breve periodo” (cultura dell’emergenza vs. cultura della prevenzione, a tutti i livelli e in tutti i settori della prassi).Dobbiamo confrontarci con una “natura” intrinsecamente problematica e complessa dei sistemi sociali, non più riconducibile alle sole categorie (significative) di rischio, incertezza, vulnerabilità, liquidità etc. A ciò si aggiunga che, quasi paradossalmente, mai come in questi anni si è discusso (e si discute) di etica e di responsabilità in tutti i campi dell’azione sociale (dalla politica alla cultura, dall’informazione all’innovazione scientifica e tecnologica etc.).Si potrebbe semplificare tale paradosso con la “formula”: trionfo dell’etichetta sull’etica. Paese di paradossi e contraddizioni (non soltanto sul piano culturale): da una parte, per ogni “nuovo” problema si invocano subito nuove leggi, nuovi codici deontologici, nuove prescrizioni, nuovi divieti; dall’altra, culturalmente, consideriamo quelle stesse leggi, norme,“regole” come un ostacolo alla nostra autoaffermazione ed al nostro successo/prestigio sociale. D’altra parte, ciò che spesso sembra venire a mancare è proprio la coerenza dei comportamenti che, comunicativamente parlando, risulterebbe (è!) molto più efficace delle parole e dei principi spiegati attraverso un linguaggio, più o meno, politicamente corretto. Da questo punto di vista, come peraltro sottolineato da più parti, siamo di fronte ad una vera e propria “emergenza educativa” legata ad una molteplicità di fattori e variabili, che hanno determinato una trasformazione profonda dei processi di socializzazione ed una crisi delle tradizionali agenzie/istituzioni deputate all’interiorizzazione dei valori ed alla formazione delle personalità/identità (riconoscimento-rispetto-altruismo-senso civico-cittadinanza vissuta e non subita).Mi riferisco, in tal senso, al concetto di “policentrismo formativo” e richiamo Luca quando sottolinea l’urgenza di “disegnare percorsi di apprendimento pensati per queste materie per ricucire un’evoluzione culturale che per alcuni aspetti si è interrotta con l’interruzione di alcune relazioni tradizionali…”.Questo Paese non ripartirà senza affrontare seriamente tali problematiche: credo di non dover neanche argomentare la correlazione strettissima esistente tra istruzione (accesso,condivisione) e cittadinanza. In questa sede, si discute dei “cittadini di domani” che corrono seriamente il rischio di crescere e socializzarsi ad una cultura della furbizia, dell’illegalità e/o del familismo amorale (apparentemente?) dominante.

    2) La “questione culturale”, qui più volte richiamata, è legata come detto anche, e soprattutto, ad un problema di interruzione/crisi della comunicazione tra le generazioni (concetto che andrebbe sciolto e sviluppato).Tuttavia, in questa prospettiva di analisi, non possiamo non registrare come i media (vecchi e nuovi, per non parlare dei social networks) – con il famoso “gruppo dei pari” – si siano letteralmente divorati lo spazio comunicativo e del sapere (?) gestito, in passato, della tradizionali istituzioni e agenzie educative e formative.

    3) Sugli attori sociali e sulle professionalità protagoniste del processo educativo e formativo sono forse radicale, ma preferisco sempre dire apertamente ciò che penso (va precisato che, in questi ultimi decenni, scuola e università sono state pesantemente penalizzate da tagli e controriforme). Ci sono lavori/professioni che andrebbero fatti/scelti anche, e soprattutto, perché si avverte una “vocazione” e non soltanto per una forma di prestigio sociale e/o perché permettono magari di esercitare forme di micropotere sugli altri. ”Prendersi cura” di una persona (concetto complesso), insegnare, formare, condividere ed elaborare non significa soltanto trasmettere e/o impartire nozioni: i figli, gli studenti e, più in generale, i giovani – come dire – ti aspettano al varco, osservano “come ti comporti”. Insomma, contano i “fatti”, non le “parole”. La “tua” (nostra) credibilità e autorevolezza si fonda sui comportamenti e sulla loro coerenza rispetto a quanto affermiamo (problema che riguarda anche la politica). Se chiedi correttezza, devi darla per primo, se pretendi rispetto e senso di responsabilità, devi prima di tutto essere rispettoso dell’Altro e responsabile etc., anche se la relazione è asimmetrica a causa del ruolo e della gerarchia. E non puoi fingere, non nel lungo periodo. Ecco perché certi “ruoli” e certe “attività” richiedono, a mio avviso, consapevolezza, partecipazione, passione, perfino empatia (oltre alla preparazione!). E’ necessario “mettersi in gioco”.
    Fondamentale, quindi, ripartire da educazione e istruzione, basandole però su una ridefinizione della “qualità” della relazione tra gli attori dell’ecosistema formativo e comunicativo – nel rispetto dei reciproci ruoli (genitore, insegnante, docente etc.) – oltre che, evidentemente, sulla preparazione e sulle competenze.
    Piero Dominici

  • Condivido in pieno. Per appassionare i miei figli allo studio della chimica e della fisica (e per passare del tempo insieme) abbiamo iniziato a cucinare. Ci si è aperto un mondo, in cui abbiamo scoperto non solo le leggi della natura ma anche il vero significato di quello che mangiamo. Un’avventura così appassionante che non potevamo tenerla solo per noi: abbiamo coinvolto famiglie, insegnanti, adesso è un progetto didattico che si chiama MaestraNatura in sperimentazione in 26 scuole nella nostra città.

  • … le botteghe leonardesche insegnavano l’arte cioè trasmettevano tecniche ed educavano al senso (significato) di un mestiere. Oggi si è’ divisa l’istruzione (formazione), dall”educazione così si è’ perso l’origine di molti lavori.
    Riscoprire l’ars (arte non tecnica) postula un’educazione ossia un maestro, cosa ben diversa da un formatore. Dove sono i maestri? Il lavoro del futuro comincia con la responsabilità di ciascuno di cercare/incontrare…. un maestro, cioè qualcuno da guardare, capace di introdurre dentro l’efficienza del nostro fare un perimetro di senso e di passione. :))

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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