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SMALL, MEDIUM, BIG DATA: per un’archiettura consapevole, decentrata, interoperabile

Big Data è Big Business e Big Government. Se ne sono accorti tutti dopo la mega valutazione di Facebook, poco più di un anno fa, quando il social network si è quotato in borsa: quella valutazione, che allora era attorno ai 100 miliardi (100 anni di profitti al livello attuale) era dovuta al grafo sociale costruito da Facebook gestendo i grandi insiemi di dati regalati al social network dagli utenti. E se ne sono accorti tutti dopo che è venuto fuori che il governo americano usa i metadati registrati nelle grandi piattaforme internettiane americane per condurre la sua guerra contro il terrorismo e per garantire la sicurezza del paese. (Vedi: Per un pugno di miliardi di dollari; Alla faccia dell’Fbi)

Una discussione che si è sviluppata intorno alla nozione operativa di Big Data, la distinzione di quel concetto da quello di Data Mining, la convenienza a investire in tecnologie per gestire i grandi insiemi di dati, è stata lanciata su questo blog da Marco Russo e portata avanti da moltissimi importanti commentatori e contributori. Vale la pena di ricominciare da quei post: 1. Esistono i Big Data in Italia? 2. Certo, che esistono. Grazie per quei contributi e grazie a chi vorrà contribuire anche dopo questo post. Che riguarda un’ipotesi: in una rete che si cristallizza c’è la tendenza alla polarizzazione del potere e dell’informazione; mentre in una rete in continua evoluzione il potere e la ricchezza di informazione tendono a ridistribuirsi continuamente.

Il fatto è che questi Big Data di cui parliamo sono il frutto di una miriade di piccoli gesti quotidiani di ciascuno, registrati e organizzati dalle enormi piattaforme che ciascuno usa per connettersi agli altri, cercare informazioni, sviluppare nuove attività. È fantastico avere la possibilità di connettersi e accedere alla conoscenza ma è inquietante che questo consenta a poche imprese e a potenti governi di accumulare una ricchezza di dati capaci di portare a forme di controllo della popolazione – per motivi pubblicitari o politici – che generano forme di potere poco trasparente su miliardi di persone inconsapevoli. Mentre l’accesso alla conoscenza è libertà, la concentrazione della conoscenza è un rischio per la democrazia. È possibile immaginare un insieme di innovazioni che salvino la bellezza di accedere alle altre persone e alle informazioni generata dall’internet rendendo più difficile l’accumulazione di potere in poche mani, finanziarie o politiche?

Internet è la rete delle reti, ma potrebbe essere anche la piattaforma delle piattaforme. Il problema è l’interoperabilità e la trasparenza dei sistemi. La costruzione di piattaforme che privatizzano i dati che raccolgono attraverso le azioni degli utenti potrebbe essere corretta dalla loro interoperabilità. In parte si fa gestendo intelligentemente le API. In parte si fa imponendo alle piattaforme di consentire agli utenti la possibilità di scaricare i dati che li riguardano. In parte si fa studiando i dati che le piattaforme raccolgono per aumentare la consapevolezza degli utenti. Ma per ora non basta.

Una soluzione è quella di costruire piattaforme alternative, più piccole e più controllabili dagli utenti. È stato tentato in passato, per esempio da Diaspora. Ma l’effetto-rete rende difficile a grandi numeri di persone di spostarsi da una piattaforme di grande valore perché contiene tutte le persone e le informazioni con le quali si vuole entrare in contatto. È difficile mettere d’accordo tutti gli utenti di Facebook a uscire tutti insieme dal social network privato per entrare in un altro aperto. È comunque una buona idea e ci vuole molta consapevolezza per praticarla.

Un’altra idea è quella di sviluppare strumenti ulteriori che appaiono come apps di grandi piattaforme e usano le loro API ma abituano a utilizzi diversi, portando le persone a stare più tempo fuori da quelle grandi piattaforme e distribuendo in modo diverso la raccolta di dati sui loro comportamenti. Cercando, nello stesso tempo di costruire piattaforme alternative, piccole, decentrate, aperte, sulle quali lentamente portare le persone. Rendendo sempre più banali i dati che restano sulle vecchie piattaforme (Alessandro Acquisti sembrerebbe suggerire che le persone siano già orientate ad assumere una sorta di comportamento stereotipato e poco personale su Facebook, proprio perché sono consapevoli di essere in un territorio pubblico e non privato).

La strategia può essere velleitaria. E/o sbagliata. Ma l’esigenza di fa sempre più chiara: internet è sempre un mondo aperto e niente può impedire di costruire nuove piattaforme più decentrate e aperte di quelle che oggi si sono sviluppate. La grande velocità con la quale sono cresciute le piattaforme oggi dominante può far pensare che in poco tempo si possono sviluppare nuove piattaforme che contrastano la concentrazione di potere in poche mani.

Ma occorre sapere che cosa va salvaguardato assolutamente perché da qualche parte qualcuno trovi la buona idea per rendere tutto questo possibile. Va salvaguardata l’interoperabilità. Va salvaguardato il diritto dei cittadini di scaricare i loro dati dalle piattaforme. Va salvaguardata la neutralità della rete. La privatizzazione, la confusione informativa, la struttura della rete mobile, sono tutti motivi di disturbo per questi principi fondamentali che rendono possibile immaginare un futuro più decentrato del traffico in rete.

Un grande disturbo viene dai governi che – sulla base di preoccupazioni settoriali – discutono l’introduzione di forme di controllo della rete che non tengono conto della sua dinamica da ecosistema. Un enorme disturbo viene dalla scarsa alfabetizzazione tecnologica e giuridica delle persone. Un gigantesco disturbo viene dalla disinformazione prodotta dai grandi poteri interessati a bloccare l’innovazione. E con essa lo sviluppo, economico e umano che la rete consente.

C’è un lavoro certosino da fare per avere media civici, sui quali le persone possano cercare in pace la loro felicità. E c’è una visione sintetica da coltivare. Ci vuole pazienza, coraggio ed energia. Ma ci sono milioni di persone che lavorano in questa direzione. E il loro contributo va conosciuto e sostenuto. Imho.

11 Commenti

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  • Che la questione Big Data stia assumendo sempre più rilevanza, non solo per quanto riguarda gli aspetti legati al business e ai new media, ma anche in relazione alle potenzialità in termini di innovazione (basti pensare che praticamente tutte le StartUp oggi supportano “di default” la gestione dei Big Data nelle proprie soluzioni e piattaforme software innovative), sembra oramai chiaro ed evidente;
    che non fosse soltanto e semplicemente una delle tante “buzzword” alla moda, lo stanno inoltre a dimostrare le recenti notizie relative agli aspetti di riservatezza e sicurezza (DataGate), quindi liquidare la questione riducendola alle “promozioni commerciali” dei grandi vendors di software (aspetto che pure esiste, senza dubbio) rischia di essere fuorviante e non contribuisce ad una maggiore comprensione del fenomeno.
    Per chi fosse interessato a capirne di più, segnalo l’evento organizzato per il 09 luglio p.v., presso il #WCAP di Roma – Working Capital – Acceleratore di StartUp di Telecom Italia:
    BIG DATA E SOCIAL MEDIA

  • A partire dal film War Games, sono sempre rimasto impressionato da come la cinematografia sia riuscita a “vendere” un ideale di informazione pulita, tempestiva, chiara ed efficace a disposizione di militari, poliziotti, analisti, scienziati ma anche delinquenti e terroristi. Ogni volta che guardo una puntata di 24 vorrei copiare il loro software!
    Ma poi, spenta la televisione, si guarda in faccia la realtà. E ogni singola volta in cui per lavoro mi sono avvicinato a quello che da lontano era un mito invincibile (la correttezza delle informazioni in una banca, la fondatezza dei modelli previsionali delle società finanziarie, la meticolosità della raccolta dei dati di atleti in campo professionistico, e l’elenco potrebbe continuare a lungo) ho sempre scoperto quelle piccole crepe che, via via che mi avvicinavo, sembravano sempre più grandi e soprattutto distruggevano il mito.
    Quasi tutte le teorie “complottistiche” che vedono un disegno preciso dietro avvenimenti più o meno importanti della vita sociale, politica ed economica, spesso non fanno i conti con il fatto che chi fosse realmente capace di prevedere correttamente gli effetti di un’azione in un sistema più complesso di quello in cui interagisce una sola persona, avrebbe così tanti modi per arricchirsi da non doversi preoccupare di usare sistemi così complessi per giungere a un obiettivo.
    Detto questo, con un certo margine di errore la statistica di solito funziona (a patto di usare campioni significativi). Internet è grande, è come il mondo intero, e può essere un’ottima base dati per analisi statistiche. Non è però semplice navigarvi, basti pensare a come oggi, come 20 anni fa, sia impossibile fare un sito web che funziona bene con tutti i browser senza perdere una marea di tempo enorme. Poche API sono veramente universali, e sono di solito semplici e molto elementari. Innumerevoli altre non hanno mai “sfondato”, anche se resistono e sono alla base di sistemi usati da milioni di persone. La definizione di standard di interoperabilità è una cosa auspicabile, e condivido in toto la proposta di Luca De Biase sul fatto di cercare di garantire l’interoperabilità di sistemi diversi. Il problema è la fattibilità: tecnica, economica, politica.
    Tecnica: chi ne discuterebbe? In che termini? Entro che limiti di utilizzo? Con che tempi? La definizione di uno standard in realtà “rallenta” l’implementazione e chi vuole investire non può aspettare. Il che ci conduce al punto successivo.
    Economica: come si concilierebbe il modello economico di un’azienda come Facebook (o chiunque faccia il suo mestiere) con il fatto di dover interoperare? Faccio un esempio facile con altre due aziende: LinkedIn e Xing. In Germania Xing è molto più usato di LinkedIn e sarebbe magnifico se i due sistemi interagissero, potrei gestire molto più facilmente i rapporti con quel paese. Ma come potrebbe funzionare? Che concambio si dovrebbe usare? Non si dovrebbero stabilire delle tariffe di interscambio? Come potrebbe rimanere tutto “gratis”?
    Politica: dati due social network residenti in due paesi diversi, chi può rendere efficace l’imposizione dell’adozione di uno standard? Dovremmo passare per accordi intergovernativi? Che tempi ci sarebbero? E che succede se domani Facebook si trasferisce in Svizzera? Blocchiamo l’accesso agli utenti di altri paesi per l’impossibilità di applicare la giurisdizione? Presto o tardi bisognerà fare i conti con l’incompatibilità di una giurisdizione territoriale applicata a un mondo in cui i confini non esistono, o sono comunque molto più complessi e incerti. Non ho alcuna soluzione da proporre, ma finora non vedo nemmeno qualcuno (in politica) che affronta il problema provando a invertire i termini (come adattare la giurisdizione alla realtà di Internet e non viceversa).
    Si può partire da alcuni concetti semplici, da applicare più con la moral suasion che con leggi difficili da applicare. Anche perché la reputazione è un bene più importante delle multe che un’authority può infliggere dopo alcuni anni. La salvaguardia del diritto di poter scaricare i propri dati. Che basterebbe estendere con il diritto a vedere chi li ha consultati e a chi sono stati “venduti”. Se io ti autorizzo a usare i miei dati per scopi commerciali, mi farebbe piacere poter sapere a chi li hai poi forniti, applicando il “diritto di auditing” in maniera transitiva.
    Se andiamo a vedere, il problema quotidiano è più doversi preoccupare del commento su Facebook che va in mano a un recruiter insieme al CV piuttosto che di un agente americano che va a curiosare. Nei fatti, il reale cambiamento è l’abbassamento drastico dei costi (e dei tempi) per accedere alle informazioni (anche private) sulle singole persone. Una cosa che ha dei pro (poter più facilmente trovare qualcuno di cui si ha bisogno e a cui magari si darà un lavoro) e dei contro (si può essere penalizzati per qualcosa di un passato magari anche rinnegato ma ormai indelebile). E l’intervento nella vita dei singoli da parte di altri singoli è quello che più dovrebbe preoccupare la moltitudine di persone, mentre l’ipotesi di una regia dirigista che controlla centinaia di milioni di persone influenzandone i comportamenti è certamente più suggestiva ma anche più lontana dalla realtà.
    In tutto questo, una cosa positiva ce la vedo. In questi giorni è diventato di moda parlare di Big Data associato a un certo tipo di dati che, di fatto, non è in mano a tutti ma a pochi, a quelli in grado di raccoglierli. Magari questo può aiutare a fare un reality check prima di valutare l’adozione di una tecnologia associata a una buzzword.
    A me piacerebbe vedere cose piccole, ma efficaci. Come togliere dal budget di quasi 8100 comuni italiani il costo dei servizi di IT per la gestione dell’anagrafe, facendo un sistema centralizzato e uguale per tutti, ottenendo certificati in tempo reale e con gli stessi servizi a Milano e Torino come nell’ultimo comune italiano. Lasciamo pure la responsabilità ai comuni, ma obblighiamoli a usare un sistema solo, pagato una volta sola. Non sarebbe un risparmio e un miglioramento del servizio? Non riesco a vedere una sola controindicazione. Mi sa che oggi come oggi Facebook ha un’anagrafe più aggiornata (seppure non completa al 100%). O dobbiamo chiedere a PRISM per fare prima? 🙂

  • Il tema è molto ampio e vedo che si sta spostando dai Big Data. Correttamente dato che essi sono una semplice conseguenza dell’uso sempre più intensivo dell’informatica anche nella vita (sociale) di tutti i giorni.
    Sarò brevissimo. Secondo me abbiamo una grandissima opportunità di aprire una nuova era, dove il web diventa a servizio dell’individuo. Per farlo è però necessario iniziare a pensare ad un Cloud (privato) Nazionale dove tutte le regioni, gli enti, le societa statali e non possano afferire per pubblicare e rendere disponibili i dati dell’utente in modo che questo possa trovare in un solo punto, tutto cio che riguarda la propria vita. Dalle multe alla assicurazioni, dalle dichiarazioni di nascita alla denuncia dei redditi. E tutto questo passa per delle API pubbliche, governate centralmente, in modo che chiunque voglia possa accedere a tali informazioni, posto che il proprietario – la persona – ne dia l’autorizzazioni. Esattamente come si fa can Facebook, Twitter e compagnia. Sarebbe bello, all’interno dell’agenda digitale, avere un programma del genere. Saremmo i primi nel mondo e si creerebbere un gran numero di posti di lavoro, abbattendo sensibilimente i costi della pubblica amministrazione, aumentando l’efficienza e diminuendo gli sprechi e le giornate perse a fare la fila per ottenere documenti.
    Anche i Big Data avrebbero un ruolo centrale in questo scenario. Perche sarebbe bello, a questo punto, che fosse questo sistema – vogliamo chiamarlo web 3.0 – che ci avviserebbe in modo proattivo del fatto che abbiamo qualche scadenza (di qualsiasi tipo: chi ci fornisce l’energia elettrica si collegherebbe al nostro account – previa nostra autorizzazione – per inviarci in automatico importo e scadenza della bolletta) e potremmo tenere sotto i controllo i costi e tutto cio che oggi, invece, dobbiamo rincorrere e ci affanniamo a star dietro.
    Un sistema, finalmente, al servizio dell’uomo.
    Avete anche solo una vaga idea delle possibilita infinite che si aprirebbero. E del balzo in avanti, in termini di credibilita, che farebbe il nostro Paese?
    Per diletto ho provato mettere giu le idee in modo piu sintetico:http://sdrv.ms/YR0WZz.
    Sarebbe bello, no? Tecnicamente, oggi, e’ realmente possibile. Politicamente?

  • Condivido l’approccio proposto da Davide, che indirettamente si riallaccia alle legittime perplessità sollevate a più riprese da Marco;
    occorre però considerare che se ancora oggi, sia per quanto riguarda la PA, che le stesse Aziende private, il livello di informatizzazione in Italia è rimasto colpevolmente indietro rispetto ai competitor, ciò è dovuto principalmente alla scarsa propensione, da parte dei management di riferimento, ad analizzare ed affrontare i problemi organizzativi seguendo un corretto approccio per processi, preoccupandosi, al contrario, prevalentemente ed esclusivamente delle modalità e degli aspetti operativi;
    non dobbiamo dimenticare, infatti, che l’informatica, di per se stessa, può contribuire solo ad amplificare le caratteristiche (sia positive ma anche e soprattutto negative), di una struttura organizzativa;
    adottare acriticamente una tecnologia (il discorso vale per qualsiasi tecnologia) senza aver definito preliminarmente i processi aziendali e i relativi flussi informativi, può contribuire soltanto ad aumentare il disordine e la complessità di un’organizzazione;
    occorrerebbe quindi cominciare ad invertire l’approccio: anzichè fossilizzarsi sul COME (come risolvo il tale problema, con quale SW, quale tecnologia ecc), sarebbe più importante capire preliminarmente che COSA occorre fare, CHI deve farlo, QUANDO e PERCHE’ (contribuendo così ad identificare finalmente anche i livelli di delega funzionale di una struttura organizzativa, con le relative responsabilità);
    il “COME” sarebbe allora nient’altro che l’esito naturale di tale analisi.

    Detto questo, chi come il sottoscritto (fosse solo per questioni anagrafiche), ha vissuto professionalmente l’evoluzione degli ultimi 25 del settore IT, può testimoniare che tale scenario virtuoso è sempre più spesso rimasto nel libro dei sogni irrealizzati (non irrealizzabili), e che, di fatto, tutto il settore IT è da sempre dominato da buzzword:
    le prime e più nefaste buzzword essendo proprio termini quali “Business Intelligence” e “Data Mining”.
    Oggi non ce ne rendiamo conto, in quanto sono diventati il paradigma dominante, ma le perplessità e lo scetticismo che attualmente accompagnano i Big Data sono sostanzialmente analoghe a quelle che venivano mosse in relazione all’introduzione dei primi database relazionali (in contrapposizione al paradigma all’epoca dominante, vale a dire quello dei DB gerarchici):
    chi era abituato ai linguaggi macchina e assemblativi, trovava semplicemente FOLLE l’idea di utilizzare un linguaggio interpretato, quale SQL, per estrarre ed elaborare i dati, fosse anche solo per considerazioni di performance;
    trovava inoltre ancora più assurdo dover “normalizzare” i dati (in che senso i miei dati sono “anormali”!?!), ottimizzare tabelle definendo chiavi primarie e indici, ecc, per poter procedere all’elaborazione di report, quando con dei “semplici” comandi sed, awk (e relativi script perl) si potevano ottenere report fantastici, perdipiù in maniera intuitiva, andando a prelevare i dati che occorrevano direttamente sui supporti di massa.
    Oggi trovo francamente ridicolo e penoso sentir parlare di Data Mining, Business Intelligence ecc, da parte di personale tecnico, che si autodefinisce “specializzato”, solo perchè riesce ad accroccare alla meno peggio un cubo Olap, e poi va in crisi mistica se deve calcolare una media ponderata (non parliamo poi di interpolazione e regressione); alla fine, tutto si riduce all’utilizzo del software più alla moda, perdendo di vista i razionali sottostanti.
    A differenza dell’introduzione dei DB relazionali, che all’epoca è stata realmente traumatica, in quanto ha richiesto e determinato un radicale cambiamento nell’approccio ai dati, nel caso dei Big Data, e in modo particolare dell’approccio NoSql, l’adozione andrebbe ad integrarsi con le soluzioni esistenti, pur mantenendo le proprie caratteristiche peculiari, e sarebbe inoltre maggiormente coerente con la gestione di datacenter decentrati, aperti e distruiti, quale quella derivante dall’adozione del cloud computing, come correttamente ricordava Davide.
    Sarebbe inoltre l’occasione per definire finalmente i processi organizzativi aziendali e i relativi flussi informativi, passaggio che considero inevitabile prima di adottare il cloud, se non si vuole rischiare di perdersi tra le nuvole…

  • Alessandro, non vorrei sembrare irriverente, ma se le persone sono sbagliate, non esiste un software o una metodologia in grado di raddrizzarle. Per il resto, condivido la fotografia sulla situazione paese “Italia”: una media organizzativa e gestionale molto bassa, ciascuno che pensa a vedere le colpe degli altri prima che le sue (politici, imprenditori e lavoratori) con poche eccellenze che spesso (ma non sempre!) sono sconfitte dall’inerzia circostante. Anche il ricambio generazionale non basta se non è accompagnato da una diversa mentalità, che non vedo all’orizzonte. E chi va all’estero, difficilmente torna per accettare troppi compromessi.
    Faccio un esempio. Ho letto commenti scandalizzati di chi ce l’ha con gli americani che spiano (potenzialmente) la sua mail privata di cittadino italiano. Evidentemente non è mai andato a vedere la sicurezza con cui sono trattati i dati *veramente* sensibili di pazienti ospedalizzati in molte strutture italiane. Quelli su carta (la maggioranza) sono i più semplici da ottenere. Nel backoffice, non in corsia… E insomma è un po’ la mentalità di questo magnifico paese: perdersi in un dibattito che non porta a nulla e poi tornare esattamente al punto di partenza.
    La discussione che abbiamo in questo spazio è veramente per quei pochi che si pongono il problema di cosa gli serve entrando nel merito del problema. Probabilmente stando sul mercato competitivo, con una buone dose di estero e pronti ad adattarsi ai cambiamenti di tecnologici e di mercato. Gli altri restano spettatori, e purtroppo sono la maggioranza.
    Mi convincerò che qualcosa sta cambiando quando vedrò piccole cose concrete. Un’anagrafe centralizzata e digitale, ma so che chiedo già troppo. Un qualsiasi servizio pubblico pensato per il cittadino e non per la comodità degli orari di lavoro dei dipendenti pubblici, uno sciopero che non colpisca gli utenti ma solo l’azienda contro cui la protesta è rivolta, delle imprese che utilizzino i contratti di apprendistato facendo formazione. Sono ecumenico, mi basta un segnale qualsiasi… 🙂

  • Marco, francamente è questa continua retorica esterofila ad essere improduttiva e stucchevole (soprattutto se ripetuta come un mantra da chi non si è mai spostato da casa; non è il caso Tuo 😉 so perfettamente che operi regolarmente all’estero, e per quanto mi riguarda, diciamo che nel recente passato ho avuto modo di approfondire a 360 gradi gli usi e costumi professionali dei paesi anglosassoni, anche e soprattutto dal punto di vista di organizzazione aziendale…).
    A parte il fatto che realizzare un’anagrafe digitale centralizzata è tutt’altro che “una piccola cosa”, soprattutto perchè occorre prima capire cosa è “centrale”
    e cosa è “periferico” oggi in Italia, visti i vari livelli organizzativi tuttora esistenti dell’amministrazione dello Stato (giá immagino le possibili obiezioni in sede politica: le Province che ruolo avrebbero nella gestione dell’anagrafe digitale, rispetto a quelle di Regioni e Comuni? ma non si era detto di abolirle le province? ecc ecc ecc).
    Per me le piccole cose sono quelle che partono dal basso, e prescindono da piani faraonici, e su questo credo siamo d’accordo: quello che ho imparato negli anni dal pragmatismo anglosassone è che se un’idea è buona, alla fine camminerà da sola anche sulle gambe di chi oggi è scettico, rassegnato, o semplicemente “distratto”.
    Preoccupiamoci quindi di tirare dritto per la nostra strada, senza badare a chi, per incompetenza o per semplice interesse personale, rema contro, brandendo la retorica del declino irreversibile, sperando illusoriamente di preservare le proprie rendite di posizione;
    prendiamo consapevolezza che oggi il maggiore potenziale di sviluppo e di successo ce l’abbiamo proprio dentro casa (lo dice uno che avrebbe potuto tranquillamente fare il biglietto di sola andata per Londra giá 15 anni fa, e ha deciso invece di restare “in trincea”).
    Lo scenario che ci si presenta oggi è quello di poter finalmente utilizzare strumenti tecnologici (ivi compresi cloud e big data) che fino a poco tempo fa erano appannaggio esclusivo delle multinazionali (ai miei tempi era impensabile avere uno Unix in casa, oggi linux gira sui cellulari…) ed è un fatto concreto proprio il fermento delle nostre start up, che sta lì a dimostrarlo quotidianamente, nel cercare di mettere a frutto proprio quelle tecnologie al fine di risolvere problemi quotidiani concreti delle persone comuni;
    quello che intendo dire, non diamoci per vinti da soli: questo è l’unica vera arma che gli incompetenti e i retrogradi possono concretamente sfruttare…

    • Spero il mio commento precedente non fosse troppo disfattista.
      Personalmente non lo sono. Lavoro molto all’estero, ma resto a vivere (e a pagare le tasse) in Italia, nonostante tutto.
      Ci sono molte persone in gamba in Italia e posso testimoniarti che trovano più facilmente realizzazione all’estero che localmente, per una serie di motivi. Non è una moda, è un dato di fatto. Detto questo, è un vero peccato che non si esprima il potenziale esistente. La mia è una constatazione, nel mio piccolo cerco di fare qualcosa ma non c’è ancora una reale presa di coscienza generale della situazione, con conseguente assunzione di responsabilità. I problemi li hanno anche all’estero, in Europa ogni paese è in una situazione diversa ma certi fenomeni da noi sono, e mi spiace davvero dirlo, ineguagliati in Europa.

  • Stallo a dire a me, che quando sento l’inno inglese mi commuovo…
    però poi, come dici Tu, penso a quanti nostri connazionali in gamba sono a Londra, a dar lustro al Regno della Regina Elisabetta, e mi vien rabbia, proprio perchè secondo me la vera sfida oggi si gioca nel Regno (?!?) di Re Giorgio Napolitano (?!!?) Primo, primo in quanto rieletto contro la sua volontà per la prima volta al secondo mandato alla Presidenza della Repubblica (già solo a scriverlo, il concetto suona talmente astruso che bene rappresenta la sintesi della nostra italica specificità…)
    Diciamo che a me, personalmente, non è mai piaciuto “vincere facile”;
    conosco tanta gente che ha deciso di rimanere all’estero e li capisco; solo che vuoi mettere la soddisfazione di ottenere i risultati qui, facendoti alla fine grasse risate alla faccia di chi ti ha sempre sottovalutato? E’ impagabile!
    Un caro saluto 🙂

  • L’agenda digitale italiana pubblicata oggi provvede proprio l’istituzione di un’anagrafe unica, facendo dialogare le 129 (!!!) esistenti (http://www.corriere.it/economia/13_giugno_16/imprese_643d11e2-d655-11e2-ad4f-3b376a6920bc.shtml).
    Vediamo se sarà una cosa seria o l’ennesimo sperpero di denaro. Dal punto di vista tecnologico – da quello che leggo – posso dire in tutta serenità che con meno di 2Mio. di euro, hardware compreso, si può fare. Vediamo a quanto ammonterà la spesa finale. È viedamo se verranno pubblicate delle API per l’accesso a tali dati (anche per la sole pubblica amministrazione) che non siano ancora scambi sulla base di file di testo, ma si passi a tecnologie più flessibili come OData, Rest e Json, ossia le tecnologie usate dai grandi social network. Se ci sono riusciti loro, a gestire questo embrione di Big Data, una Nazione dovrebbe poterlo fare senza problemi.

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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