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Condorcet e il factchecking

Nel corso di un incontro, ieri a Trento, organizzato dalla Fondazione Ahref, Achille Varzi ha richiamato il paradosso di Condorcet e chiarito come le decisioni di un gruppo non sono sempre l’aggregazione delle decisioni degli individui.

È un’affascinante dimostrazione del fatto che la razionalità individuale non si può sempre sommare alla razionalità degli altri utilizzando un sistema di aggregazione pensato per arrivare a una soluzione sulla base di semplici regole di maggioranza.

Peraltro, il un social network le persone non agiscono in modo meramente individuale. Anzi il contesto e l’abitudine le conduce a scegliere confrontandosi con gli altri. Sicché, di fatto, le ragioni individuali non si sommano, ma si confrontano e si raggruppano in modi complessi ma contemporaneamente capaci di generare soluzioni empiriche piuttosto funzionali.

Sarebbe peraltro molto interessante indagare sulle condizioni che conducono a migliorare le decisioni che vengono prese in una rete sociale. Non mancano i pensatori che abbiano ragionato intorno a questo tema, come James Surowiecki: riassumendo (troppo) velocemente, dice che a livello cognitivo un gruppo sceglie meglio se è composto da persone “diverse” che agiscono indipendentemente le une dalle altre in un contesto decisionale decentrato. Se ne dedure che se si copiano o si influenzano vicendevolmente non decidono bene? Eppure è proprio quello che avviene nei social network e nella vita quotidiana quando si agisce senza riflettere. È una delle forme dell’intuizione secondo Daniel Kahneman: il più delle volte, si decide in base alla prima cosa che viene in mente, che spesso deriva da ciò che si vede fare alle persone vicine nel network sociale.

Il punto è che occorre meditare seriamente sulle regole con le quali le persone collaborano e decidono, almeno per le attività di gruppo che hanno conseguenze pubbliche e possono avere una certa importanza civica. Nel factchecking civico per esempio le valutazioni individuali sono piuttosto complesse e importanti, si fondano su un impegno rilevante di ciascuno – rispetto alle tipiche attività dei social network – soprattutto se è obbligatorio cercare e citare le fonti dalle quali si traggono le verifiche delle notizie. Questo naturalmente tende a ridurre il numero dei partecipanti. Ma li orienta a confrontarsi con uno spazio mentale relativamente consapevole.

Il lavoro del factchecking civico è complesso, logicamente e semanticamente, come hanno mostrato Guido Vetere e Luciano Serafini. Coinvolge varie dimensioni psicologiche come ha spiegato Barbara Collevecchio. E presenta problemi epistemologici piuttosto importanti, esemplificati da Boris Rähme della Fondazione Ahref (alla quale collaboro).

Ma, come ha sottolineato Sergio Maistrello, il factchecking può servire a migliorare un bene fondamentale come la qualità dell’informazione.

E costituisce una pratica che allena alla visione critica delle notizie, al rispetto per il trattamento delle fonti, alla consapevolezza dell’impegno richiesto dal lavoro di raccogliere informazioni verificate e documentate. Insomma, ottiene il risultato pratico di conoscere un po’ meglio come stanno le cose e di alimentare una cultura dei media attiva a costruttiva. La strada da fare è lunga ma molto interessante.

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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