Home » innovazione » L’impresa è questione di cultura. L’intelligenza delle startup
innovazione

L’impresa è questione di cultura. L’intelligenza delle startup

Si può certamente dare il caso dell’imprenditore senza cultura che si concentra solo sulla massimizzazione del suo profitto personale ottenuto nel pieno disprezzo degli interessi dei lavoratori, dei fornitori, dei clienti, della società e dell’ambiente. Purtroppo continua a darsi questo genere di “furbo”. Ma c’è una novità: oggi lo spazio delle opportunità non per furbi ma per intelligenti, sensibili e colti imprenditori si è allargato.

E soprattutto si è allargato il divario tra le economie che affidano il loro dinamismo ai furbi e quelle che lo affidano agli intelligenti. Le prime al massimo galleggiano. Le seconde competono e talvolta addirittura affascinano.
Nella soria di Instagram ci sono elementi irripetibili altrove. E del resto sarebbe assurdo voler pensare che si possa generalizzare il caso di un’impresa che in due anni conquista una trentina di milioni di utenti e si vende per un milardo di dollari. Generando tra l’altro una quantità di perplessità sull’assurdità della valutazione e sulle sue possibili conseguenze. Ma alcuni caratteri di quella vicenda sono istruttivi anche per chi sappia stare con i piedi per terra. Perché nonostante le apparenze, Instagram non ha vinto all’Enalotto.
Un magnifico pezzo del New York Times ricostruisce il contesto culturale nel quale si è sviluppata la vicenda di Instagram. Giovani coltivati in ottime università che dimostrano come l’esperienza educativa sia essenzialmente un’occasione per dimostrare un approccio serio alla vita confrontandosi con un impegno considerato oggettivamente utile ma il cui contenuto più intenso è l’incontro con altri giovani altrettanto motivati che diventano una rete di supporto nel vasto mare dell’innovazione. Non perché siano sodali, ma perché condividono una cultura e una visione del mondo proiettata non a conquistare ciò che già esiste ma a realizzare ciò che non c’è ancora.
Si parla nell’articolo della propensione al rischio: ma questo è un modo di dire vagamente superficiale. Nessuno ama rischiare. Anzi il lavoro da fare è proprio orientato a ridurre il rischio. Ed è per questo che la cultura delle startup ammette integralmente il caso piuttosto frequente che un’idea non abbia successo o non funzioni. In quel caso si tratta il tentativo come esperienza e si passa a occuparsi di una nuova idea. Ma l’insuccesso non è una sconfitta: è un esperimento che ha dimostrato errata un’idea e consente di svilupparne una migliore. L’approccio, se non scientifico, è certamente empirico. E poiché la verifica avviene in base alle reazioni degli interlocutori che provano l’idea – valutandola, prototipandola, finanziandola, sperimentandola, adottandola, trasformandola – la cultura delle startup è densamente rispettosa delle opinioni degli altri. 
Il caso di Instagram dimostra l’essenziale importanza della necessità di trovare una grande chiarezza nella definizione del prodotto, di comprendere le tendenze del contesto, di lavorare sul design con attenzione prioritaria. Il che significa lavorare con un approccio empatico da ricercatori sociali e consapevoli: significa che l’imprenditore che riesce a costruire oggi una realtà nuova non può essere che una persona colta e intelligente.
La furbizia non basta in questo spazio visionario nel quale si esplorano le possibilità del futuro: casomai serve a rubacchiare una fetta della vecchia torta, di certo non serve ad allargarla per tutti. Ma la furbizia che vince per violenza e mancanza di rispetto è l’arma degli imprenditori deboli. La furbizia viaggia imprenditorialmente sul breve termine. Finisce con una redistribuzione di ricchezza e nulla più. Le soluzioni intelligenti, come la mitologia del mercato del resto prevede, vanno a vantaggio di tutte le parti in gioco, attraverso uno scambio equo.

Il punto è che nei settori innovativi si deve vedere oltre ciò che si vede. Senza arroganza, perché nessuno può dire di conoscere la ricetta: non ci sono le istruzioni per l’uso dell’innovazione che ancora si deve realizzare. Sappiamo solo per esperienza che si genera per ispirazione, apertura mentale, empatia. Dunque non ci sono neppure le soluzioni facili per favorirla. Sappiamo solo che l’attività innovativa trova terreno fertile dove c’è qualità dell’educazione, apertura culturale, coraggio e un contesto che riconosca il merito di chi crea qualcosa che non c’era e che la gente adotta.

Nell’esperienza unica della Silicon Valley, tutto questo ha una sua concretizzazione. Ma la storia non finisce in California e le nuove frontiere non si fermano sul Pacifico. Per gli europei, tutto questo non fa che dimostrare quanto ci sia da fare, da imparare con umiltà, ma anche da realizzare. Il nostro gusto e la nostra visione del mondo sono perfettamente compatibili con la creazione di un mondo di valore e di un’imprenditorialità nuova di maggiore cultura e apertura. Con attenzione al design, alle implicazioni di senso, alla lunga durata. Per gli europei occorre un salto di visione del mondo che non annulli la tradizione – che è un enorme valore – ma la ricongiunga alla possibilità di descrivere una nuova prospettiva.

La tradizione non è il passato. È la cultura che la storia ha reso intensa e sfaccettata ma è una dimensione vivente che accompagna l’azione collegandola alla visione del futuro e riempiendo di senso e collegamenti ogni gesto e ogni prodotto. Questo valore europeo è compreso più dall’esterno che dall’interno. E lo sanno bene gli italiani che continuano ad affascinare con il loro prodotti i compratori stranieri.

Il che significa anche che del passato si possono buttare via gli elementi che non reggono alla contemporaneità. Chiaramente, si possono abbattere barriere inutili e incrostazioni ereditate dall’epoca dell’industrializzazione di massa, del consumo di massa, dell’educazione di massa e dei media di massa. Si devono abbattere gli spazi economici nei quali i furbi riescono meglio degli intelligenti: le zone limitrofe alla corruzione privata e pubblica, all’evasione fiscale, alla criminalità, alla disattenzione per le regole ambientali e sociali, dove le imprese illegali riescono a sbattere fuori mercato quelle legali.

E si devono creare spazi organizzativi nuovi. Acceleratori per nuove imprese che seguono schemi efficienti di mentorship, finanziamento e collegamento al mercato. Luoghi di incontro nomade in città adatte all’incontro tra persone che condividono la cultura costruttiva dell’innovazione. Infrastrutture efficienti senza se e senza ma. Condizioni fiscali favorevoli. Modi per informarsi più adatti a tutto questo. Anche da questo punto di vista nessuno ha la ricetta. E tanto meno chi scrive mentre va a Roma per la prima riunione della task force che ha il compito di suggerire al governo alcune soluzioni che possano accelerare le opportunità per la creazione di nuove imprese innovative in Italia. Per poi proseguire con una riunione fiume di ItaliaStartup.

Di certo, per l’Europa e per l’Italia il tema non è copiare da Silicon Valley. Ma di certo è possibile imparare da quell’esperienza per prenderne le idee adattabili al nostro contesto. Con l’orgoglio e la consapevolezza delle nostre specificità. Ne parlava Selene Biffi. E se ne parlava in un post precedente.

Bisogna ammettere che, come si diceva, il caso di Instagram è anche un caso di assurdità
finanziaria che potrebbe avere conseguenze gravi per il contesto
innovativo, come del resto è successo in passato. L’Europa può portare qualche correzione da questo punto di vista nel suo sistema evitando di mobilitare aspettative insensate e follie finanziarie.

Se c’è una possibilità di successo è nelle particolarità del momento. La storia ha concesso – e imposto – all’Italia un bagno di realtà. Non stiamo facendo finta di occuparci di noi. Siamo stati vicini al fallimento. E siamo nel pieno di una crisi dalla quale si esce solo prendendo decisioni vere che durino a lungo nel tempo e costruiscano una prospettiva sulla quale le persone e i giovani possano interpretare la loro strada.

Commenta

Clicca qui per inserire un commento

  • Luca, d’accordo sul fatto che l’innovazione sembra spostare la bilancia verso l’intelligenza a discapito della mera furbizia. Sicuramente le startup sono facilitate nell’utlizzare un modello organizzativo e mentale basato su rischio, apertura mentale, ecc.
    Però la cultura, per come la vedo io, rimane un asset cruciale per le aziende nostrane ed è un fattore che poche startup riescono a sviluppare al volo. E dietro la cultura delle nostre PMI c’è anche tanta intelligenza (condita con capacità e passione) solo che sembra addormentata, sfiorita, sminuita.
    Non voglio contrapporre le 4 milioni di imprese italiane col bel fermento attorno alle startup. Ma neanche ridurre a suggerire al mondo economico che l’unico modello vincente è quello di creare nuove aziende piuttosto che impegnarsi ad adeguare quelle esistenti. Ho provato a spiegarlo meglio qui: http://goo.gl/QfHvr.

  • Signor De Biase,
    sono un assiduo frequentatore del suo blog, in quanto lo ritengo una fonte d’ispirazione nonchè di notevole apertura mentale, soprattutto per un giovane di 23 anni.
    Elogi a parte ed entrando nel merito dell’argomento da lei descritto, le dico che sono pienamente d’accordo con il suo punto di vista, soprattutto in riferimento alla situazione italiana: sicuramente il nostro paese ha bisogno di un grande impeto innovativo che, a mio parere e ovviamente non solo, necessita ancor prima di un processo di snellimento di tutta la pesante burocrazia che ci àncora giù, nella mediocrità assoluta.
    Credo anche che lei abbia centrato un tema assai più cruciale: cultura ed apertura mentale, due concetti che, mi permetta di dirlo, sono ben lungi dall’essere presenti nel nostro paese. L’istruzione dei ragazzi di oggi (parlo di bambini delle elementari, di ragazzini delle medie e di ragazzi delle superiori) è secondo me piuttosto lacunosa, e questo dipende da diversi fattori, come gli insegnanti, il sistema scolastico e, in generale, la società in cui si vive, incentrata sul materialismo e sul consumismo (che io personalmente chiamo spreco, in termini pasoliniani), e uno Stato che per primo non sembra fare quello per cui è nato: tutela e crescita nel suo capitale umano ossia i cittadini.. ma qui vado ad aprire un discorso troppo ampio ma che, allo stesso tempo ed inevitabilmente, si radica in maniera pesante nelle tematiche da lei sopra trattate: se ci mancano le basi della cultura, come facciamo a crearne una nuova ed innovativa?
    E bisogna anche pensare che le generazioni “giovani” di oggi sono quelle che saranno le “grandi” fra 20 anni!
    Forse la mia visione potrebbe ritenerla, signor Luca, come un po’ troppo pessimistica, e non vorrei mai che lei la prendesse come una lamentela, ma è quello che vede un ragazzo di 23 anni, laureando in economia e management, che lavora durante il giorno e che cerca e vuole avere un futuro come quello da lei sopra descritto, che renda felici le persone di crescere e lavorare per il bello di farlo…. e ce ne sono tanti fortunatamente, di giovani miei coetanei,che si impegnano e continueranno a farlo, sempre.
    http://www.larevisione.blogspot.it/ è il link al mio blog,iniziato da poco, con un racconto che, qualora lei ne avesse la possibilità, mi piacerebbe se potesse leggerlo.
    Le auguro una buona serata, Simone.

  • Forse può interessarti questo post di Loretta Napoleoni
    http://www.cadoinpiedi.it/2012/04/17/serve_uneconomia_partecipativa.html
    Mi sono presa il tempo di guardare tutta la conferenza su Youtube.
    parte 1 = presentazione (si può saltare)
    parti 2-6 = storia e contesto (per me molto istruttivo, forse per te sono cose note)
    parti 7-9 = ipotesi sul futuro (la parte più collegata al discorso)
    parti 10-18 = sessione di domande e risposte (io l’ho trovata interessante)
    parte 19 = ringraziamenti (si può saltare)
    La conferenza non ipotizza soluzioni ma dipinge scenari di contesto e predittivi.

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

Video

Post più letti

Post più condivisi